martedì 10 dicembre 2013
Il post-operaismo francese: intervista a Yann-Moulier Boutang sulla crisi europea
Tempi presenti. La crescita abnorme della finanza non è un incidente di percorso, ma uno dei pilastri della globalizzazione. Da qui la centralità della cosiddetta produzione immateriale. In questo scenario, la Banca centrale europea ha compiuto un atto di forza contro i trattati per governare la crisi. Un’intervista con l’economista Yann-Moulier Boutang
Davide Gallo Lassere, Manifesto 9.12.2013
Interprete originale e traduttore in Francia a partire
dagli anni Settanta dei testi legati all’operaismo italiano, Yann
Moulier-Boutang ha pubblicato, durante gli anni Ottanta e Novanta,
lavori importanti alla nuova condizione migratoria e alla
divisione internazionale del lavoro. A partire dagli anni Duemila
si è interessato all’analisi del capitalismo cognitivo e ha dato
vigore agli studi di ecologia politica. Nel 2000 ha fondato la
rivista «Multitudes», di cui è tutt’ora direttore. Tra i suoi
titoli più significativi vanno ricordati Dalla schiavitù al lavoro salariato (manifestolibri, 2002) e Le capitalisme cognitif (Editions d’Amsterdam). Sua è Althusser: une biographie (Grasset), mentre alla fine degli anni Novanta del Novecento ha curato, con François Matheron, la pubblicazione delle Lettres à Franca, 1961–1973 di Louis Altuhesser per l’editore Stock-Imec.
La crisi che scuote il mondo non sembra ormai finire più. Il
discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la
separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona
e produttiva, e una finanza semplicemente parassitaria. Da parte
tua rifiuti ogni distinzione così netta, ritenendo che non ci si
possa più limitare a invocare un fantasmagorico ritorno al reale.…
Bisogna certo distinguere la parte finanziaria dell’economia
reale da quella non finanziaria. Tuttavia, entrambe sono
pienamente reali. Del credito, che è la sostanza della moneta la cui
forma consiste nella più o meno grande liquidità o esigibilità,
genera immediatamente possibilità d’investimento, salari,
acquisti di beni e servizi. È però accaduto che la componente
finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca mano
a mano che cresce l’interdipendenza delle singole economia
nazionali. Per 150 miliardi di dollari quotidiani di Pil mondiale
e altrettanto di commercio di beni, si hanno 1500 miliardi di
transazioni che coprono il rischio di cambio e 3700 miliardi di
transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi
prodotti derivati. Questo era l’ordine di grandezza nel 2009
e malgrado la scomparsa della metà di 2000 hedge funds, l’ordine di grandezza del rapporto tra produzione e finanza è rimasto uguale.
La verità è che affinché ciò che taluni chiamano «l’economia reale»
diventi realtà bisogna che la finanza attivi questo armamentario
impressionante. La domanda da farsi è però: l’economia
funzionerebbe meglio senza una finanza che tanti a sinistra
descrivono come un parassita inutile che si potrebbe appendere
a testa in giù? Diffido del sofisma già denunciato da Kant secondo il
quale la colomba volerebbe meglio nel vuoto. Ciò che merita di essere
pensato e pesato sono le trasformazioni dell’economia in blocco
(sfera finanziaria e non finanziaria). Innumerevoli analisi
sulla finanziarizzazione dell’economia nella globalizzazione
considerano soltanto un lato del problema: le ripercussioni
(negative) della crescita della sfera finanziaria sulla cosiddetta
economia reale, spesso ridotta a un settore industriale promosso al
rango di realtà unica creatrice di ricchezza.
Questa ipertrofia della finanza corrisponde al passaggio dalla
produzione di ricchezza centrata sullo sfruttamento della
forza-lavoro manifatturiera e subordinata a livello salariale allo
sfruttamento immediatamente sociale, globale e complesso della
forza inventiva e dell’intelligenza collettiva in rete, ciò che
chiamo la «pollinizzazione umana dell’interazione». Questa nuova
sfera dell’economia dei complessi immateriali (non codificabili in
diritti di proprietà intellettuale) è mille volte più produttiva
(in senso realmente economico) della vecchia sfera dell’economia
politica. Questo nuovo continente di esternalità positive della
cooperazione umana è oggetto di un’abile captazione da parte di ciò
che denomino il capitalismo cognitivo, il quale deve creare
piattaforme di «pollinizzazione» (le reti sociali, i motori di
ricerca, la cloud di dati e informazioni) per rivelare gli
immateriali più profittevoli ed estrarre (datamining,
datamapping) innovazione.
La crisi attuale, dunque, non decreta la fine di un capitalismo cognitivo…
La crisi attuale e il suo svolgimento costituiscono una delle
mute del drago capitalistico attraverso la quale il capitalismo
cognitivo regola senza pietà i suoi conti con il suo vecchio avatar
industriale. È nella e grazie alla crisi dei subprimes che
le imprese giganti dell’immateriale hanno conquistato la vetta del
capitalismo borsistico mondiale tenendo l’automobile sempre più
a distanza. Il declassamento radicale del capitalismo industriale
è stato innanzitutto nutrito dalla sua ingovernabilità sociale
nelle fabbriche, poi dall’emergenza dell’economia dell’immateriale
e infine dall’urgenza della transizione ecologica. Ora, il
capitalismo si gioca tutto su quest’ultimo punto (come la nuova
dinastia cinese): o si dimostra capace di fornire risposte
intelligenti alla sfida ecologica oppure sbatterà veramente
contro il muro. E qui la Cina è paradigmatica: questo paese ha
risposto alla sfida dell’uscita dalla povertà diventando la fabbrica
del mondo ed effettuando in 35 anni ciò che il capitalismo
industriale ha impiegato due secoli e mezzo per realizzare nei paesi
sviluppati. Ora però si trova di fronte a una sfida temibile:
i problemi ecologici raggiungono ormai dimensioni tali per cui
l’avvelenamento alimentare, la rarefazione dell’acqua, l’erosione
dei suoli, l’inquinamento chimico, la secca impossibilità di
perseguire i tassi di motorizzazione occidentali, la
speculazione immobiliare, la bulimia energetica, lo
sfruttamento forsennato del carbone, rappresentano le minacce
più serie al «mandato dal cielo» attribuito al partito comunista.
In fin dei conti la Cina offre una sintesi straordinaria dei
problemi universali del pianeta.
Torniamo all’Europa. Se si potesse
magicamente piazzare Keynes a Bruxelles, quale New Deal potremmo
escogitare per il presente? Quali forme potrebbe allora assumere un
keynesismo dell’immateriale, un keynesismo verde? Un keynesismo
nel quale i limiti naturali e le dimensioni di razza, genere e classe
giochino un ruolo più importante rispetto al semplice volume della
produzione?
Avevo proposto negli anni Ottanta, quando ero un giovane
assistente di economia di Jean-Paul Fitoussi, la formula «Keynes
a Bruxelles». L’intuizione era corretta, anche se la Bce non
esisteva ancora come bastione borbonico da assalire. Più che mai una
politica di crescita intelligente presuppone, prima ancora che ci
si metta a discutere del suo contenuto e di un programma
keynesiano, la definizione di una forma istituzionale capace di
sorreggerla. Credo che un programma keynesiano a Bruxelles abbia
bisogno di appoggiarsi su un salto istituzionale. Tuttavia,
abbiamo già una resistibile ascesa dello spettro (benvenuto) di
Keynes con ciò che chiamo il trionfo del federalismo rampante, il
quale sta battendo sia l’ipotesi confederalista che quella
sovranista dell’Unione europea.
La crisi del debito sovrano degli Stati, conseguenza del
salvataggio del sistema finanziario dal tracollo dei prodotti
finanziari come i subprimes, ha segnato una tappa decisiva
nella via del federalismo rampante e una sorta di colpo di Stato, un
vero e proprio 18 Brumaio: la Bce, di fronte all’incapacità degli
Stati del Consiglio di prendere rapidamente contromisure forti
di sostegno agli Stati membri in difficoltà, in quanto istituzione
federale, ha preso il potere. Si è cioè affrancata dalla tutela
«nazionale» (francese e/o tedesca), delineando velocemente una
posizione comune; ha aggirato i poteri formali che le erano stati
attribuiti dai trattati, giustificando il ricorso a metodi «non
convenzionali» a causa di una situazione «eccezionale»; e, infine,
ha operato una svolta a centottanta gradi per quanto concerne la
sostanza della sua politica.
Quando uno stato di eccezione dura più di sei anni, ci si trova però
di fronte a un cambiamento di régime provocato da un colpo di
Stato. L’istituzione federale concepita come custode del tempio
monetarista, incarnazione di un virulento polo anti-keynesiano, si
è mangiata il suo cappello «friedmaniano» iniettando un volume di
liquidità semplicemente impensabile fino a quel momento.
È intervenuta prima sulla solvibilità delle banche, poi su quella
degli Stati per salvare l’euro, accompagnando ogni provvedimento
con un messaggio inequivocabile da parte del banchiere centrale.
Di fronte ai piccoli passi in avanti, seguiti da altrettanti passi
indietro, da parte del Consiglio e della Commissione, la Bce ha
varcato il Rubicone riacquistando sul mercato secondario i buoni
del tesoro emessi dagli Stati in difficoltà, onde evitare la palese
violazione dei trattati. Ora, la Bce di Mario Draghi ha abbassato
il tasso di base allo 0,25% e ha invocato esattamente la stessa
giustificazione: lo stato d’eccezione durerà fino a quando vigerà il
rischio di deflazione e di un livello di disoccupazione troppo
elevato. Siamo così passati in dieci anni da una Bce «tedesca» a una
Bce quasi keynesiana.
Il reddito di base potrebbe stabilizzare il
capitalismo cognitivo e riconciliarlo con un’economia fondata
sulla conoscenza?
Contrariamente a ciò che pensano alcuni colleghi economisti —
per gli italiani penso a Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli — non
vedo una contraddizione tra un elevato reddito di base
incondizionato (900 euro a testa in Francia) — che permetterebbe
di ripensare lo Stato Provvidenza (la disoccupazione, le
pensioni, la protezione sociale) — e lo sviluppo del capitalismo
cognitivo. Affinché quest’ultimo capti facilmente una parte
importante delle esternalità positive della rete e dell’interazione
umana intercettate da dispositivi digitali e affinché faccia
lavorare durevolmente la forza inventiva di geeks, hackers
e altri precari delle classi creative, sono necessarie
piattaforme di «pollinizzazione»: in altri termini serve
un’ape-economia, un’economia dell’ambiente, altrimenti finisce col
trasformarsi in un parassita o in un vampiro dei nuovi beni comuni
digitali.
Per difendere la costituzione di beni comuni digitali, di dati
pubblici, la loro protezione, l’«open source» costituisce una falsa
soluzione, la quale si base su un principio di terra nullius
dove le imprese possono saccheggiare l’inventività sociale e umana
alla stregua di quelle case farmaceutiche o di quelle
multinazionali dei sementi che praticano una biopirateria
sfrenata degli ecosistemi complessi. Ora, una delle acquisizioni
della teoria postcoloniale e delle recenti sollevazioni dei
popoli indigeni consiste nell’aver ottenuto dalle corti
costituzionali della maggior parte dei paesi di colonizzazione la
ricusa del principio di terra nullius e l’apertura della via a un indennizzo delle grandi spoliazioni delle loro terre comunitarie.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento