lunedì 16 dicembre 2013
Utopie letali
E' di troppa utopia che siamo morti [SGA].
Utopia, come tu mi vuoi
Nonostante i tempi che corrono il tema torna di gran moda Ideale
critico come criterio di giudizio, progetto politico istituzionale,
sogno del paradiso in terra O anche polemica contro le sinistre
movimentistiche che sognano il crollo indolore del capitalismo Vi proponiamo quattro libri per riflettere e ritrovarla al di là dei fallimenti del ’900
di Romano Madera l’Unità 15.12.13
IL CLIMA NON SEMBRA AFFATTO FAVOREVOLE AL RIFIORIRE DELLA SPERANZA
UTOPICA, E INVECE FORSE PER COMPENSAZIONE? – ecco in pochi mesi quattro
libri che in diverso modo cercano qualche nuova pista per procedere
oltre i fallimenti del Novecento. In ordine di uscita: Paolo Prodi,
Profezia vs utopia (Il Mulino), Carlo Altini, Utopia (Il Mulino), Luigi
Zoja, Utopie minimaliste (Chiarelettere), Carlo Formenti, Utopie letali
(Jaka Book).
Il libro di Altini (studioso di filosofia politica, direttore
scientifico della Fondazione S. Carlo di Modena) è una sorta di grande
affresco dell’immaginazione utopica che rifugge dalla pretesa di darne
una definizione univoca: ideale critico come criterio di giudizio,
progetto politico-istituzionale, sogno del paradiso in terra sono alcune
delle funzioni di questo genere letterario che compongono, in contrasto
tra loro o in diversa mistura alla ricerca di una sintesi, il paesaggio
dell’utopia moderna. Un’utopia che sembra in presa diretta con l’anima
della modernità: poter dare forma compiutamente umana al mondo. In
questo ruolo l’utopia rimane irrinunciabile, ma deve spogliarsi della
pretesa di imporre il suo sogno, per trattenere invece la spinta critica
a non rassegnarsi al dato. Altrimenti, come si è verificato troppo
spesso, la speranza si rivolta in crudele distopia, in una sorta di
sanguinoso stupro dell’umanità reale per estrarne il fantasma
impossibile dell’idealità astratta, a copertura di interessi, tanto
ristretti quanto mostruosi, di una cerchia di nuovi oppressori.
Proprio sulla possibilità che l’utopia abbia trovato la sua genesi nella
perdita del senso della dimensione trascendente, nella quale si radica
la profezia come denuncia dell’ingiustizia nelle istituzioni, si
dispiega il lavoro di Paolo Prodi (uno dei più importanti storici
italiani). È in questa distensione temporale secolarizzata della
profezia che lo spirito utopico approda al contrario della volontà
critica che l’aveva partorito.
Il superamento della tendenza massimalista un intero capitolo è dedicato
allo smontaggio della fabbrica mitologica del guevarismo è l’obbiettivo
dichiarato di Luigi Zoja (psicoanalista e saggista, già presidente
dell’associazione internazionale junghiana), teso a riportare il
desiderio utopico al suo baricentro concreto, l’attenzione alla vita
reale. L’utopia minimalista va dritta all’essenza. Nel piccolo è
nascosto il più grande, una volta evitata l’inflazione che, gonfiata
dall’ideologia della liberazione dal male proiettato paranoicamente
sull’altro, si tramuta in fabbrica dell’oppressione.
Oppressione che si avvita su stessa, autentico doppio legame: andiamo
all’assalto del cielo e, siccome al cielo non si arriva, la caduta dovrà
essere pagata con l’ulteriore confisca della vita quotidiana, colpevole
di ostacolare le sorti magnifiche e progressive propagandate dai gruppi
dirigenti. Peraltro assai presto ammorbati da una inestinguibile sete
di potere, di averi e di piaceri meschini (gli esempi sono davvero
troppi, si fa fatica a trovarne qualcuno che smentisca la
generalizzazione). Ma il rovescio dell’utopia sembra altrettanto
disperante: «fatalismo, depressione di massa, smarrimento di veri
desideri condivisi». Un mondo trascinato da un’ avidità corrosiva della
stessa sua base naturale, sotto la quale si intravvede il male
psicologico collettivo di fondo: uno stato di incoscienza trascinato
perversamente a distruggere per consumare qui e ora, scaricando sugli
altri ogni responsabilità, in una ebetudine fasciata di onnipotenza.
L’epoca della post-utopia sembra annunciare una regressione
antropologica: l’uomo post-sapiens. L’utopia minimalista cerca una via
d’uscita alla tenaglia che inchioda i due opposti polari, l’indifferenza
e la protesta tutta esteriore, infantile nel suo negare il necessario
lavoro del tempo, paranoica nel suo additare i capri espiatori.
Così il lavoro interiore, la ricerca della individuazione (nel solco di
Jung e di Neumann) come capacità di distacco dagli stereotipi della
prestazione, potrebbe diventare un bisogno sociale. Qualche segno
diffuso nei diecimila rivoli dell’impegno ecologico, della lenta
trasformazione sociale verso una diminuzione delle uguaglianze di
opportunità e di reddito (l’ex guerrigliero uruguayano, ora presidente,
Pepe Mujica, l’azione di governo di Lula in Brasile, gli anni della
presidenza socialista in Cile e l’esempio delle socialdemocrazie
nordiche, sono alcuni degli esempi portati da Zoja), sembra aprire una
porta stretta dalla quale è necessario passare se non si vuole attendere
che la natura starnutisca «rifiutando gli umani come un polline
fastidioso».
Di tutta’altro genere Utopie letali il libro di Carlo Formenti
(sociologo, fra i maggiori esperti dei nuovi media): una dura polemica
contro le sinistre «movimentistiche» che «hanno sostituito le velleità
rivoluzionarie con il sogno del crollo indolore del capitalismo che
dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni della psicologia e
dell’antropologia individuali, oppure dalle lunghe marce per i nuovi
diritti, o dall’invenzione di terze vie che ci proiettino oltre la
dicotomia tra pubblico e privato...».
Utopie letali perché invece di canalizzare l’energia antagonistica
anticapitalistica sarebbero corrive con l’ideologia liberale, se non
addirittura liberista («ideologia criminale» secondo l’autore).
L’argomentazione si snoda a partire da un’analisi della fase
dell’accumulazione capitalistica che attraverso finanziarizzazione e
globalizzazione ha cambiato i rapporti tra le classi con una vittoriosa
«guerra di classe dall’alto». Di qui l’individuazione di un nuovo
possibile fronte antagonista che potrebbe unire la classe operaia dei
Brics con i precari del terziario arretrato negli Usa e in Europa, le
moltitudini dei migranti e le masse indigene e contadine dell’America
Latina. Nessuna forza efficace tuttavia, secondo Formenti, potrà nascere
se non abbandonando lo spontaneismo e il culturalismo che non riconosce
il criterio identitario nella collocazione produttiva.
Le tesi politiche dell’autore riprendono poi il concetto di transizione e
dei suoi strumenti, partito e stato da riprogettare per poter entrare
in una fase postcapitalista. L’acutezza dell’analisi socioeconomica non
sembra tuttavia poter supplire l’assenza di una critica della radicale
mancanza «soggettiva» – della povertà simbolica, avrebbe detto Bloch –
che ha tragicamente accompagnato i movimenti rivoluzionari e i loro
tentativi di farsi partito egemone o stato. Se, come Formenti sostiene,
occorre un «progetto rivoluzionario cosciente e organizzato» diventa
gioco forza pensare a quelle umane soggettività che dovrebbero crearlo e
a come potrebbero cambiare se stesse mentre cercano di cambiare il
mondo. Se invece si rigetta come radicalmente inadeguato tutto ciò che
si muove nel senso di una faticosa presa di coscienza della
insostenibilità della civiltà dell’accumulazione economica, allora le
tesi di Formenti sembrano, pur con tutte le novità del caso, riproporre
la fantapolitica, generosa ma inconcludente, della nostra comune
gioventù anni settanta.
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