lunedì 16 dicembre 2013
Zheng He
Il più grande ammiraglio di tutti i tempi
di Frank Viviano Repubblica 15.12.13
Ho sentito pronunciare il nome dell’ammiraglio per la prima volta nel
1982 da un ispettore di polizia corrotto. Era un dispotico funzionario
di Sumatra. La città di Padang, dove spadroneggiava l’ispettore, è
abbarbicata a un estuario acquitrinoso sul versante dell’isola che dà
sull’Oceano Indiano. Mi ero fermato alla stazione di polizia per
chiedere una cartina geografica, non sembrandomi che vi fosse alcuna
logica apparente nelle strade di Padang, ed essendo stanco di vagare
senza scopo alla ricerca di un albergo. L’ispettore, bendisposto e
cordiale nei confronti di chiunque potesse assicurargli un guadagno,
indicò un edificio di tre piani in cemento più su, lungo la strada.
«Tutti gli stranieri alloggiano lì. C’è l’aria condizionata» disse. Poi
fece un cenno con la mano a un sottoposto, e apparve un vassoio con
duetazze di caffè. Esaurimmo i preliminari: di dove ero originario
(Detroit; l’ispettore ne aveva sentito parlare); Ronald Reagan (lo
ammirava); il mio lavoro («Ah, giornalista»). Il suo viso si oscurò per
un momento. Poi passò ai fatti: «Ora le mostro qualcosa». Il sottoposto
portò un fagotto di tela e lo appoggiò sulla scrivania. L’ispettore lo
disfece, allentando con cautela tutte le pieghe del tessuto fino a
tirarne fuori una piccola tazza. Sulla sottile membrana di ceramica,
quasi trasparente, era dipinto con uno smalto vitreo azzurro-blu chiaro
un drago rampante. La sua bellezza, fragile e pura, era straordinaria.
«Dinastia Ming» disse l’ispettore. «È un relitto di una nave naufragata
nello stretto di Malacca. Può darsi fosse una delle navi di Cheng Ho,
che combatté vicino Sumatra». Non avevo idea di chi stesse parlando.
L’ispettore fece un sorriso e scrisse «100 US $» su un pezzetto di
carta. Pagai senza tirare sul prezzo. Alcune settimane dopo, a
Singapore, appresi che «Cheng Ho» era il nome dialettale di Zheng He, un
ammiraglio cinese del XV secolo. «Si sentono raccontare molte cose su
di lui, ma non si sa mai a cosa credere» mi riferì un antiquario.
«Dicono che fosse un eunuco». La tazza col drago divenne il mio
talismano. La lasciai presso un’amica a San Francisco e le facevo visita
ogni volta che andavo atrovare lei. Tutto avrebbe potuto concludersi
semplicemente così, con un talismano e un’ossessione occasionale, se non
fosse stato per la mia amicizia con uno studioso di Berkeley che per i
suoi meriti era un personaggio quasi leggendario: Frederic Wakeman Jr.
(1937-2006), tra i più stimati e illustri storici ed esperti sinologhi
della sua generazione. Fred mi aiutò a svelare i misteri della tazza col
drago, e insieme a quelli una saga straordinaria, quasi dimenticata per
mezzo millennio.
Poche storie di sopravvivenza — e di trionfo finale — sono più degne di
essere conosciute di quella di Ma He, un bambino di dieci anni travolto
dai cavalieri Ming che seicento anni fa invasero le pendici
dell’Himalaya. Fu scaraventato a terra e castrato, prassi consueta per i
giovani prigionieri alla fine del XIV secolo. Quel bambino, reso orfano
e mutilato in un’atroce mattina del 1382, nel 1405 sarebbe diventato il
secondo uomo più potente della nazione più grande e progredita del
mondo, l’ammiraglio supremo dei mari occidentali che sembra balzare
fuori dal rotolo di pergamena Ming fotocopiata che si trova sulla
scrivania dove sto scrivendo. Quel bambino sarebbe diventato il più
grande navigatore in cinquemila anni di storia cinese.
Eppure, per nascita, avrebbe dovuto occuparsi di tutto fuorché di mari, e
non era neppure cinese. Ma He era nato nella valle centrale della
provincia di Yunnan situata a oltre 1830 metri sopra il livello del
mare, e a oltre due mesi di viaggio dal porto più vicino. Era figlio di
un ufficiale di basso grado dell’impero mongolo, un musulmano dell’Asia
centrale rimasto ucciso dalle truppe Ming durante l’invasione.
Nell’ordine naturale delle cose, in Cina era un yi ren,un barbaro. Ma
He, barbaro ed eunuco, fu istruito per diventare domestico al seguito di
Zhu Di, principe di Yan, quarto figlio di Zhu Yuanzhang, fondatore
della dinastia Ming. Possiamo soltanto provare a indovinare quali
debbano essere state le pietre miliari dell’ascesa spettacolare di Ma He
nel corso dei quindici anni seguenti. Ciò che sappiamo con certezza è
che Ma He intorno ai venticinque anni divenne il capo dello staff del
principe, e de facto il governatore di Nanchino, la capitale Ming, e uno
stratega importante nelle guerre che consolidarono la conquista del
Regno di Mezzo da parte della dinastia. Nel 1402 l’ambizioso Zhu Di
espropriò il trono al nipote, il secondo reggente Ming, e si
autoproclamò Yongle, “l’imperatore eternamente trionfante”. In pratica,
ogni monumento che oggi associamo all’Epoca gloriosa della Cina — dal
massiccio prolungamento della Grande Muraglia, alle migliaia di templi
riccamente adornati, all’immensa Città Proibita eretta nella nuova
capitale imperiale Pechino — è opera dell’imperatore Yongle.
Il massimo dell’ambizione di Zhu Di, tuttavia, fu raggiunto dominando la
più imponente flotta della storia. Per quarantaquattro secoli la Cina
era stata un impero terrestre, delimitato e alimentato dai suoi possenti
fiumi. I loro spartiacque furono uniti nel Gran Canale di 1770
chilometri, iniziato nel 500 a. C. e ingrandito in maniera fenomenale da
Zhu Di. Alla fine del XV secolo, la Cina si trovò una rete di 120.700
chilometri di corsi d’acqua navigabili. In contrapposizione a ciò, la
caratteristica distintiva della marina cinese nel 1402 era un variegato
assortimento di imbarcazioni da carico a basso pescaggio, che ben di
rado si avventurava più lontano di un miglio o due dalle coste amiche.
La storia a questo punto prende una piega imprevista: tra le prime
decisioni ufficiali dell’imperatore Yongle c’è una commessa per la
costruzione di 3500 navi. Ma He, uomo del tutto privo di esperienza in
mare, è chiamato a vigilare sulla costruzione della flotta e in seguito a
comandarla. Nel 1404 è ribattezzato Zheng He, dal nome del cavallo da
guerra preferito di Zhu Di.
Le navi Ming sono incredibilmente più larghe di qualsiasi altra il mondo
abbia mai visto. La conquista europea dei mari del pianeta iniziò
intorno al 1490, quando Vasco
deGamasalpòindirezionedell’IndiaeCristoforoColomboperleAmeriche.Tutte le
loro sette navi sarebbero entrate benissimo sul ponte principale di
7400 metri quadrati della nave ammiraglia di Zheng He. E gli equipaggi
europei di 260 persone avrebbero rappresentato soltanto l’uno per cento
dei trentamila marinai di Zheng He. Queste cifre sbalorditive,
tramandate nel corso dei secoli, furono a lungo considerate solo una
leggenda. Poi, in un pomeriggio primaverile del 1962, sotto un cielo
coperto, alcuni operai che stavano dragando una trincea allagata sul
lungofiume di Nanchino urtarono con le loro pale un pezzo di legno
sotterrato lungo quasi undici metri. Si trattava della barra di un
timone, affondato nel fango accanto ai resti in disfacimento di un
timone la cui superficie arriva a coprire quarantadue metri quadrati,
grande a sufficienza da consentire di manovrare una nave delle
dimensioni di una portaerei del XX secolo. Solo che risaliva a seicento
anni prima.
Il 10 ottobre 1405 la flotta segue la corrente dello Yangtze verso il
mare. Secondo il calendario cinese è il primo giorno della Luna del
Crisantemo del terzo anno di regno dell’Imperatore Eternamente
Trionfante, sovrano di Da Ming, la Dinastia della Grande Luce. Ogni
timoniere controlla la propria bussola — un’invenzione cinese,
utilizzata per la prima volta nella storia come strumento per la
navigazione proprio in questo viaggio — e fissa la rotta verso sud, fino
allo stretto di Singapore, per poi virare a ovest nell’Oceano Indiano.
Nei trent’anni successivi la flotta da guerra Ming percorse metà globo
terrestre nel corso di sette epici viaggi, costruendo una rete di
avamposti commerciali e diplomatici che andava dall’odierno Vietnam
all’Africa orientale. Sebbene in Cina la storia di Zheng sia stata
dimenticata per secoli, egli è stato una presenza quasi divina nel
sudest asiatico e oltre. A Giava e nella Penisola Malese mi hanno
mostrato strani templi a lui dedicati, nei quali Zheng è raffigurato a
uno stesso tempo come un venerato imam musulmano e come un saggio
buddista. In remoti villaggi nella giungla lungo il confine tra Somalia e
Kenya, alcuni uomini di una tribù africana dagli occhi a mandorla mi
hanno detto di essere i discendenti dei marinai di quella flotta che
avevano fatto naufragio. Si diceva che Zheng fosse stato alto due metri e
tredici, e che la circonferenza della sua vita fosse arrivata al metro e
mezzo. Come mi aveva anticipato l’antiquario di Singapore al quale
avevo fatto vedere la mia tazza, era difficile capire in che cosa
credere.
Soltanto la prova incontestabile di quel gigantesco timone mi ha indotto
a proseguire le mie ricerche fino al 2003, quando mi sono imbattuto in
un saggio accademico redatto un decennio primada Fred Wakeman. Avevo
“conosciuto” Fred Wakeman nel giugno 1989, quando mi telefonò al Kowloon
Hotel di Hong Kong. Da molti mesi ero incaricato di co- prire le
notizie del movimento democratico cinese per ilSan Francisco Chronicle.
La maggior parte dei giornalisti in quella tumultuosa primavera rimase
bloccata a Pechino. A maggio, invece, io mi ero messo in viaggio per
riferire dell’impatto che il movimento stava avendo al di fuori della
capitale. Nelle settimane antecedenti e seguenti al giorno in cui
l’esercito fece irruzione in Piazza Tiananmen, il 4 giugno, spedii i
miei articoli da una mezza dozzina di province diverse. Il 10 giugno la
Gong An (la polizia di sicurezza dello stato) mi arrestò in una
cittadina sul delta del Fiume delle Perle. E fui espulso dal paese. Il
telefono squillò intorno all’una di notte, non molto dopo essermi
registrato in albergo. «Frank? Sono Fred Wakeman». Voleva dettagli su
quello che avevo visto. Voleva la mia opinione in proposito, e sapere
che idea mi fossi fatto sulla direzione imboccata dalla Cina. «Tu sei
lì, Frank» mi disse. «Tu sei il nostro uomo sul posto». Fred Wakeman,
così sapevo, aveva occupato la carismatica cattedra del famoso Centro di
studi cinesi di Berkeley. Era stato molto influente durante e dietro le
quinte dei negoziati degli Stati Uniti con Pechino degli anni Settanta,
aveva dato inizio a ricerche e scambi tecnologici che avevano rivestito
un ruolo cruciale nello sviluppo economico della Cina. Fu un po’ come
se mi avesse telefonato Einstein per avere una mia opinione sulla
relatività. Non mi venne in mente di chiedere a Fred notizie sul mio
ammiraglio del XV secolo. Del resto, era risaputo che Fred si occupava
della Cina del XIX e del XX secolo. Poi, un giorno, su un sito web di
Singapore, trovai una versione ridotta del saggio accademico da lui
letto a Washington D. C. alla Convenzione del 1992 in qualità di
presidente dell’Associazione storica americana. L’argomento della sua
dissertazione era Zheng He. Le osservazioni che Fred fece ai suoi
colleghi storici offrivano una rigorosa cronistoria dei viaggi dei Ming.
Secondo i suoi calcoli, sulla base di quanto aveva letto consultando
tutte le fonti disponibili, nel primo viaggio del 1405 si diressero
verso l’India 62 colossali baochuan — “giunche tesoro” — di nove alberi.
Ogni nave era lunga più o meno 137 metri e larga nella sua parte più
ampia 55. «Un vascello di quelle dimensioni avrebbe potuto trasportare
almeno tremila tonnellate, mentre nessuna delle navi di Vasco de Gama
superava le trecento», sottolineò Fred, assaporando il paragone, «e
ancora nel 1588 nessuna nave mercantile inglese superava le quattrocento
tonnellate». Erano scortate da centinaia di «navi per cavalli» a otto
alberi, destinate alla cavalleria Ming; da navi silos a sette alberi; da
navi per le truppe a sei alberi, e da navi da combattimento a cinque
alberi. A bordo di quella immensa città galleggiante, continuò Fred,
erano imbarcati «diciassette ambasciatori e vice ambasciatori imperiali
eunuchi; 62 ufficiali e ciambellani eunuchi; 95 capi militari; 207
comandanti di brigata e di compagnia; 3 segretari di alto livello del
ministero; 2 maestri di cerimonia del dipartimento di stato per i
cerimoniali; 5 chiaroveggenti; 128 medici; e 26.803 tra ufficiali,
soldati, cuochi, approvvigionatori, segretari e interpreti». Cosa per me
di gran lunga più importante, la relazione di Fred descriveva un
terribile scontro avvenuto nel 1406 tra le navi da guerra di Zheng e i
pirati cantonesi nello stretto di Malacca. I pirati furono sonoramente
sconfitti, e la maggior parte delle loro navi cariche di bottino andò a
fondo, proprio al largo di Sumatra. La tazza! Il collegamento tra quella
battaglia e il naufragio di una nave di pirati razziatori nel 1982 era
una questione puramente ipotetica, che si reggeva su scarne
informazioni. Ma dopo undici anni di ricerche, per me fu abbastanza.
Chiamai immediatamente Fred per ringraziarlo e spiegargli ogni cosa. «Ce
ne è voluto di tempo prima che trovassi quel documento!» disse ridendo.
Pochi giorni dopo nella mia casella di posta elettronica arrivò da Fred
un allegato: i suoi appunti per quella relazione. Erano oltre dieci
pagine scritte a spazio uno. La quarantaduesima nota a piè di pagina mi
fece conoscere Ma Huan, che si autodefiniva un «semplice boscaiolo» e un
amico musulmano di Zheng, in grado di parlare arabo e fungere quindi da
interprete per l’ammiraglio. Ma Huan aveva tenuto un diario molto
dettagliato negli anni trascorsi a bordo della flotta Ming. E quel
diario divenne la mia cartina geografica, la mappa da seguire quando nel
2004 tornai in Cina per un servizio per il National Geographic, e
iniziai a ripercorrere, questa volta con informazioni molto più
affidabili, i viaggi di Zheng He. Il diario di Ma Huan, intitolato Ying
Yai Sheng-lan (“Panoramica generale delle sponde oceaniche”) fu
pubblicato nel 1451, alla vigilia della morte del suo autore.
Il diario, come la storia che esso narra, sembrava disperso e si sapeva
dell’esistenza teorica di tre sole copie. Un modesto picco di interesse
per il diario ci fu dopo la scoperta nel 1962 della barra del timone di
Nanchino, quando un esiguo gruppo di studiosi (tra i quali il mentore
stesso di Fred a Berkeley, lo storico della Cina Joseph Levenson) iniziò
a ricostruire la saga perduta della flotta dell’imperatore Yongle. I
ricercatori avevano poche fonti concrete sulle quali fare affidamento.
Oltre il 90 per cento dei molti milioni di documenti che un tempo si
trovavano custoditi negli archivi Ming di Pechino e Nanchino era andato
distrutto per ordine degli imperatori che vennero dopo di lui, quando la
dinastia abrogò la politica marittima oceanica di Zhu Di, sposando
l’isolazionismo che avrebbe caratterizzato le relazioni estere della
Cina per i secoli a venire. La maggior parte delle navi fu data alle
fiamme e ai mercanti cinesi si proibì di viaggiare all’estero.
Nell’oscurità angosciante di questo vuoto, la pergamena dell’interprete
fu come un’esplosione di luce.Ying Yai Sheng-lanè il resoconto di un
testimone diretto della vita quotidiana e delle scoperte della flotta.
Ha la grezza schiettezza dell’esperienza concreta, lo stupore della
scoperta di un mondo nuovo e spesso esotico e bizzarro, lontano migliaia
di miglia dal mondo conosciuto fino ad allora. Ma Huan è divertito dal
Siam, l’odierna Thailandia, dove «i mariti sono fieri di offrirci le
loro mogli, e considerano l’intimità sessuale con gli stranieri un onore
reso alla bellezza delle loro donne». Per quanto riguarda gli uomini,
si osserva nella pergamena, «quando raggiungono i vent’anni con un fine
coltello si incide loro il prepuzio, come noi faremmo con una cipolla, e
vi si inserisce una dozzina di piccole perline. Quando poi la pelle si
rimargina, le perline assomigliano a un grappolo di acini che produce un
suono tintinnante, considerato vera e propria musica». L’autore del
diario svolge ricerche sul commercio delle spezie nella città indiana di
Cochin (oggi Kochi), descrive il primo mercato di materie prime al
mondo, riporta una storia raccontata dagli ebrei di Cochin su un
sant’uomo di nome Moshie che punì il suo popolo perché adorava un
vitello d’oro. I mercanti di gioielli di Ceylon raccontano a Ma che i
loro rubini sono lacrime cristallizzate del Buddha. E per ordine di
Zheng egli prende parte anche all’haj, il pellegrinaggio islamico alla
Mecca. Ma Huan parla di uno strano animale africano, alto cinque metri e
con un collo lungo tre, e immagina che sia una sorta diqilin, lontano
parente del leggendario unicorno (benché sia più simile a una giraffa).
Spiega i dieci usi di una noce di cocco, ed elenca gli uccelli, gli
animali, le piante di ogni paese che visita. Molto più di un semplice
diario, Ying Yai Sheng-lanè un trattato sulla società e la natura di
mezzo pianeta nel XV secolo, è il resoconto dettagliato di un’impresa
straordinaria: la flotta di Zheng, la più letale in circolazione,
avrebbe vigilato assiduamente sui mari per trent’anni, senza conquistare
nessuno stato straniero e senza annettere una fetta qualsiasi di
territorio. Come diceva il fu Franz Schurmann, altro leggendario
sinologo di Berkeley, la visione che stava dietro quell’impresa
mastodontica era «un mondo di scambi, più che un mondo di conflitti». Un
mondo inimmaginabile, per gli standard dell’imperialismo occidentale
che arrivò alla ribalta il secolo dopo.
Ci sono buoni motivi per ritenere che Zheng sapesse che la lotta contro
l’isolazionismo era già persa. Dopo aver superato la foce dello Yangtze
sulla sua nave ammiraglia, si fermò al largo di Chang Le, un porto nella
provincia di Fujian dove nei precedenti viaggi aveva già fatto salire a
bordo uomini dell’equipaggio e rifornimenti. Una stele di granito fu
eretta in quel porto, incisa per mano dello stesso Zheng, che vi elencò
tutti gli approdi della sua flotta, «complessivamente in oltre trenta
paesi piccoli e grandi». La stele riportava le avventure condivise da
Zheng e dai suoi marinai: le terrificanti ondate sollevate da un
uragano; il ruolo che la flotta aveva avuto nel riportare sul suo trono
perduto il legittimo re dello Sri Lanka; le zebre, i leoni, i leopardi e
gli struzzi portati all’imperatore Yongle in regalo da parte dei
sultani delle città-stato africane; e in dettagli grafici molto chiari
l’annientamento della flottiglia pirata, che presumibilmente fece andare
a fondo nello stretto di Malacca la mia tazza col drago. Intento
dichiarato del monumento — l’iscrizione lo diceva chiaramente — era
quello di consentire la riscrittura della storia, fissare «gli anni e i
mesi dei viaggi» nella pietra, «allo scopo di lasciarne il ricordo
imperituro». Si crede che Zheng sia morto nel 1432 o all’inizio del
1433, prima del ritorno della flotta in Cina, e che sia stato sepolto in
mare al largo delle coste indiane. Mi sono recato a vedere la stele di
Chang Le nel 2004. Dopo sei secoli era ancora leggibile ed esposta con
orgoglio in un piccolo museo. Da un certo punto di vista era servita
allo scopo.
La storia di Zheng He ha vissuto un recupero di primaria importanza
nella nazione che per oltre 500 anni l’aveva messa a tacere. Il bambino
che nel 1382 giaceva su una collina di Yunnan, dopo aver perso i
genitori ed essere stato mutilato, adesso è considerato un eroico
precursore dell’odierna Cina in piena espansione, il presagio stesso
della sua ascesa come colosso globalizzante nel 2011. Fred Wakeman, che
nella nostra epoca si è tanto adoperato al pari di molti altri studiosi
per riabilitare la figura di Zheng, si sarebbe permesso di dissentire.
Nutriva seri dubbi, già dieci anni fa, sulle tattiche di esportazione di
Pechino all’estero, e sul dispotismo del suo partito unico a livello
interno. Non è questo ciò che Fredaveva in mente quando alla fine degli
anni Settanta aveva aiutato la Cina a intraprendere il processo di
modernizzazione. Come l’ammiraglio eunuco dei mari occidentali, Fred è
stato un inguaribile cittadino di un mondo più promettente. Il mondo
dell’autenticoscambio.
(Traduzione di Anna Bissanti) © Frank Viviano 2013
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