mercoledì 11 dicembre 2013
Vent'anni di "Limes"
Stato o non Stato
La crisi, la globalizzazione gli equilibri geopolitici Di questo si parla in occasione dei vent’anni della rivista “Limes”
di Lucio Caracciolo Repubblica 11.12.13
C’era
una volta una città italiana che dominava la finanza europea e
irradiava la sua influenza nel mondo attraverso la gestione dei commerci
transoceanici e dei flussi di argento americano nelle casse del re di
Spagna. Al nome di questa città verrà poi associato il primo ciclo
sistemico di accumulazione capitalistica, cui seguiranno l’olandese, il
britannico, lo statunitense, domani forse il cinese. Questa città
mondiale si chiama Genova.
Sono trascorsi quasi quattro secoli dalla
fine della “età dei genovesi” (1557-1627) studiata da Fernand Braudel e
ripensata da Giovanni Arrighi nella sua interpretazione delle grandi
fasi di espansione finanziaria come preannuncio di un cambio di
paradigma geoeconomico e geopolitico su scala globale. Dell’egemonia dei
banchieri genovesi la pedagogia nazionale – a cominciare dai manuali
scolastici – ha perso le tracce, fors’anche perché, come notava Braudel,
essa venne esercitata in modo «così discreto e sofisticato che per
molto tempo gli storici non se ne accorsero». Oggi che pensare il mondo
dall’Italia, a partire da quale sia la nostra funzione in esso, non è
esercizio corrente, provare a farlo da Genova può aiutarci a ricordare
chi fossimo. Archeologia inevitabile per chi voglia tracciare rotte
future. Contro il compianto che avvelena l’aria del tempo vale
riscoprire storie e geografie dimenticate, senza di cui non ha senso
progettarne di nuove.
Capire dove siamo e come ci siamo arrivati per
stabilire dove andare e come muoverci è in democrazia affare di ogni
cittadino, non privilegio di soli tecnici e decisori. In questo spirito,
per il suo ventennale e in occasione della pubblicazione del suo ultimo
volume –Che mondo fa– la rivista italiana di geopolitica Limes ha
allestito, in collaborazione con la Fondazione per la Cultura Genova
Palazzo Ducale e con il Comune di Genova, un “Giro del mondo in tre
giorni”. Da venerdì 13 a domenica 15 dicembre gli spazi del Palazzo
Ducale saranno aperti al pubblico interessato ad alcuni dei temi
strategici della nostra vita quotidiana, ovvero della geopolitica
planetaria, trattati da una variegata comunità di studiosi, analisti e
protagonisti.
L’obiettivo non è trovare la chiave universale che ci
schiuda i segreti del mondo. Semmai di individuare gli angoli
prospettici che ci permettano di scandagliarne qualche porzione. E
rimettere in moto la nostra curiosità per il pianeta, piuttosto
appassita da quando abbiamo stabilito di vivere l’era della
globalizzazione.
Un tema su tutti: in questa fase, la partita
decisiva su scala mondiale riguarda la capacità degli Stati di cogestire
l’ordine internazionale. Sperabilmente per via di un consenso da
ricercare attraverso il compromesso fra i diversi interessi nazionali.
L’alternativa è il caos dei poteri informali, opachi, in molti casi
criminali, che tendono a estendere il proprio spazio di manovra, a
espandersi in nuovi territori, profittando della debole legittimazione
delle istituzioni statuali. Dove non esistono governi responsabili, o ne
esistono solo sulla carta, a prevalere sono inevitabilmente i rapporti
di forza allo stato puro. Bruto. E parlare di politica non fa più senso.
Questa
storia parla anzitutto di noi e del nostro posto nel mondo. Vista da
Genova, e dal resto dell’Italia, la questione geopolitica centrale è
dunque la seguente: come può un paese a statualità debole (eufemismo)
affrontare la crisi della statualità nel proprio “estero vicino”, che
sempre più s’intreccia con l’instabilità nostrana? La deliquescenza
delle istituzioni autoritarie sulle sponde mediterranee (prima
balcaniche, negli anni Novanta, poi nordafricane e levantine, di questi
tempi), insieme alla crescente delegittimazione dell’Europa comunitaria –
accentuata dalla crisi strutturale del sistema euro e allo spostamento
del baricentro geopolitico americano dal nostro continente
all’Asia-Pacifico – incrociano e acutizzano le deficienze storiche dello
Stato italiano.
Si prenda solo il caso della Libia, paese di
fondamentale rilievo per la nostra sicurezza e per il nostro
approvvigionamento petrolifero. Qui eravamo abituati a trattare con il
padrone unico. Liquidato il dittatore Gheddafi, non si vede ancora la
fine dello scontro fra le varie fazioni armate che si contendono il
territorio e le sue risorse. Un contesto nel quale è impossibile
individuare interlocutori davvero rappresentativi non solo della Libia –
uno Stato che non esiste se non negli atlanti – ma persino delle sue
principali regioni.
A complicare la partita dell’Italia, il crescente
provincialismo della nostra classe dirigente e dell’opinione pubblica
in generale. Se i riflessi mediatici della presenza italiana nel mondo
si riducono ai marò prigionieri in India o ai tifosi laziali fermati in
Polonia, è difficile dare respiro alla nostra politica estera. In questa
logica, quando tentiamo di strutturare una strategia geopolitica
finiamo per reinterpretarla in chiave domestica. Non siamo certo gli
unici a farlo. Ma se a inclinare verso il primato dell’agenda interna – o
più banalmente della cronaca – è un paese nel quale politica e
istituzioni soffrono di una gravissima crisi di legittimazione, in un
clima quasi da 8 settembre, i danni rischiano di diventare irreparabili.
Imperativo
è dunque riprofilare il nostro Stato nel contesto che cambia. O
rinunciare allo Stato nazionale per costruirne uno europeo. Non
scegliendo, si slitta verso un caos difficilmente creativo. Perché
l’inerzia spinge allo svuotamento di ciò che resta del nostro apparato
politico-istituzionale. Qualche filosofo della storia ci spiegherà che
così va il mondo (ma davvero?) e tanto vale adattarci a esso. In attesa
dei verdetti futuri, un punto converrà tenere a mente: chi auspica la
fine dello Stato, auspica la finedella democrazia e il trionfo dei
poteri informali – ossia della legge della giungla o della mafia. Non
tutti gli Stati sono democratici e di diritto, ma democrazia e legalità
non esistono senza Stato. Quando le relazioni fra noi umani sono
affidate ai puri rapporti di forza, prima perdono i deboli e poi
perdiamo tutti.
Ha quindi senso avviare il “Giro del mondo”, venerdì
pomeriggio, chiedendoci se l’euro ci salvi o ci distrugga. Perché non si
è mai trattato, e meno che mai si tratta oggi, di questione unicamente
monetaria e nemmeno solo economica, ma di una leva geopolitica che nelle
intenzioni di alcuni fra i suoi più illuminati promotori avrebbe dovuto
promuovere lo Stato europeo. Che ne è oggi di tale promessa? Ha ancora
senso aspirarvi? Se sì come? Se no, quali le alternative? Domande
radicali, corrispondenti alla radicalità della crisi. Dalle risposte che
daremo dipende il nostro posto nel mondo. Se non le daremo, altri lo
faranno per noi. Assegnandoci lo strapuntino che ci saremo meritato.
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