lunedì 6 gennaio 2014

Atlantico e una storia millenaria


Simon Winchester: Atlantico. Grandi battaglie marine, scoperte eroiche, tempeste titaniche e un vasto oceano di un milione di storie, traduzione di Jacopo M. Colucci, Adelphi

Risvolto
Per secoli l'uomo si è rifiutato di affrontare il mare grigio, rombante e tempestoso che si estendeva al di là delle Colonne d'Ercole, abitato da mostri terrificanti come le Gorgoni e i Giganti Centimani o da razze bizzarre come i Cimmeri, gli Etiopi e i Pigmei; solo i Fenici, avidi e temerari, osarono sfidare quelle acque alla ricerca di un mollusco da cui estrarre il colore più ambito dalle élite di potere dell'età classica. Oggi l'Atlantico, nella percezione di molti, non è altro che un piccolo inconveniente, che dura giusto il tempo di un paio di film proiettati durante un volo intercontinentale. Fra questi due estremi sono passati duemilacinquecento anni di esplo­razioni, guerre, commerci e disastri, attraverso i quali l'oceano ha plasmato le ambizioni e la condotta di marinai, scienziati, mercanti e soldati, venendo visto, a seconda delle circostanze e della sorte, come un alleato o un nemico, una risorsa o un pericolo. Simon Winchester racconta con sapienza e arguzia l'ultramillenaria relazione fra l'Atlantico e gli esseri umani – predatori vichinghi e monaci irlandesi, cacciatori di balene e mercanti di schiavi, posatori di cavi e pirati –, mescolando storia e aneddoto, geografia e ricordi persona­­li, scien­za e affabulazione. Il risultato è un'e­po­pea del «mare interno della civiltà oc­cidentale» maestosa, sorprendente, burrascosa, cangiante – quasi quanto l'oceano stesso. 


Così l'Atlantico ha stipulato il suo "patto" con la Storia
Dai timori di Ulisse alla sfida dei vichinghi fino alle navi che trasportavano gli schiavi. Una completa biografia del "mare interno della civiltà occidentale"



“Atlantico”, l’immensità è un racconto straordinario
Dalle allusioni mitologiche all'arte africana dalla scoperta delle Americhe alle religioni, un interessante e godibilissimo racconto sulla distesa oceanicaPaolo Randazzo Europa 27 dicembre 2013


La leggenda dello storico sull’oceano
Dai primi navigatori all’egemonia degli Usa, l’Atlantico ha caratterizzato la civiltà occidentale L’inglese Winchester ne celebra battaglie e tempeste. E avverte: il Pacifico dovrà aspettare ancora 22 gen 2014  Libero SIMONE PALIAGA

Una distesa infinita d’acqua squassata dai venti e dalle onde. E quando le giornate tendono al bigio assomiglia ben poco al placido color smeraldo o azzurro degli oceani Indiano e Pacifico. Marosi in tumulto e superfici sempre agitate sono lo spettacolo che si offre a chi si affaccia al di là delle Colonne d’Ercole. E così doveva apparire l’Atlantico anche a quanti, in tempi lontani, finivano di battere le acque tranquille del Mediterraneo per sfiorarne il confine. Timore e tremore allora si impadronivano dei naviganti che immaginavano quegli spazi popolati da Gorgoni e Giganti Centimani o frequentati da razze bizzarre come i Cimmeri, gli Etiopi e i Pigmei.

L’audacia dei Fenici

Eppure l’audacia prese il sopravvento sulla paura e quegli abili marinai che erano i Fenici decisero di sfidare le acque perigliose del grande mare per accaparrarsi lo straordinario mollusco purpureo che fece la loro fortuna. Da allora l’oceano cessa di essere il confine che limita i luoghi abitati dagli umani e diventa il passaggio verso nuove terre e nuovi mondi. Addirittura, dopo secoli, dalle sue acque sarebbe sorta una nuova civiltà. Almeno così la pensa Simon Winchester nella avvincente e bellissima «biografia del mare» intitolata Atlantico. Grandi battaglie marine, scoperte eroiche, tempeste titaniche e un vasto oceano di un milione di storie ( Adelphi, pp. 484, euro 32) e tradotta splendidamente da Jacopo M. Colucci.

Il giornalista inglese che vive tra l’America e la sua isola traccia al ritmo di un romanzo di cappa e spada il racconto di quella distesa d’acqua che tanto inquietava gli antichi, ma che, a partire dal Cinquecento, avrebbe tenuto a battesimo una nuova civiltà. Il suo però è uno sguardo da inglese, da amante del Nuovo Mondo, convinto che la Vecchia Europa sia riuscita a rivitalizzarsi al contatto con le terre a cui Amerigo Vespucci diede il nome. L’esploratore fiorentino, nel libello Mondus Novus, dopo essersi perso in dissertazioni sull’automutilazione cosmetica, la pulizia anale e le pratiche sessuali dei popoli incontrati lungo il cammino, è il primo a ipotizzare che quella terra visitata dal vichingo Leif Eriksson intorno all’anno Mille e poi trovata da Cristoforo Colombo cinquecento anni dopo non abbia nulla a che fare con le contrade fino ad allora conosciute. È un continente di cui nessuno prima aveva sospettato l’esistenza e che nel 1507, grazie al cartografo di Friburgo Martin Waldseemüller e al suo collega Matthias Ringmann, finirà col prendere il suo nome.


Dall’arrivo degli spagnoli e dei portoghesi l’Atlantico diventa il Mediterraneo dell’epoca moderna. Come le acque che bagnano il sud Europa, l’Africa settentrionale e il Vicino Oriente partorirono le civiltà fiorite nei tre millenni che precedettero l’era volgare, così l’Atlantico diventa allora il bacino d’acqua che dà i natali a quella civiltà che legherebbe indissolubilmente l’Europa all’America: la civiltà occidentale. Quelle acque, in una manciata di secoli, divengono la culla di tutto quanto per noi oggi è familiare. Non separano più, ma sposano le sponde orientale e occidentale. Però piano piano il cuore pulsante di questa nuova civiltà migra da Levante a Ponente, dal Vecchio al Nuovo Mondo.

Il vizio dell’isolano

Il passaggio ufficiale del testimone avviene, ricorda Winchester, nel 1941 a bordo della nave da guerra «Prince of Wales» all’ancora ad Argentia, sulle coste di Terranova. Nel ventre della corazzata Winston Churchill e Franklin Delano Roosvelt, protetti dal suo acciaio, decidono l’ordine mondiale postbellico a conflitto ancora in corso. «Da quell’accordo», rimarca Winchester, «gli Stati Uniti avrebbero rilevato dalla Gran Bretagna il ruolo di nazione guida del mondo occidentale». Lo sguardo inglese del giornalista, per quanto elegante e sofisticato, non perde il vizio dell’isolano che a partire dalla Guerra dei Cent’Anni volge le spalle all’Europa per guardare altrove. Si dimentica facilmente di ricordare che il ruolo egemone dell’Impero britannico forse non era riconosciuto da tutti e che e anzi era stato messo in discussione dalla Germania nella guerra che Churchill e Roosvelt stavano combattendo al momento dell’incontro e già in precedenza durante il primo conflitto mondiale.

Eppure, proprio alla battaglia delle Jutland Winchester dedica forse le pagine più riuscite del libro. Tra la Danimarca e la Norvegia, all’accesso del Mar Baltico, nel 1916 avviene uno dei più grandi scontri navali della storia. Duecentocinquanta corazzate tutte d’acciaio si affrontano in uno scontro epocale che mai più si sarebbe visto dati i costi e gli esiti incerti. Dopo, però, l’Atlantico non diventa un mare di pace. Continua a essere seminato di carcasse di mercantili, navi da guerra e da trasporto truppe perché le ostilità si immergono per finire sotto la superficie delle acque. Centinaia di U-Boot del secondo e, dopo il 1940, del terzo Reich sciameranno tra le sue correnti per far colare a picco i rifornimenti provenienti dagli Stati Uniti a sostegno dell’Inghilterra.

Le acque dell’Atlantico possono raccontare benissimo, e così Winchester, il coraggio, l’inventiva, la paura e le speranze degli uomini. Vedono passare, o addirittura ne sono artefici, lo scettro del mondo dal Vecchio al Nuovo Mondo suggellando la fine dell’Europa. Oggi tutti ne annunciano la morte a vantaggio del Pacifico, ma, come i geologi insegnano, la morte dell’Atlantico è lungi da venire.      

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