lunedì 6 gennaio 2014
Massimo Cacciari sul De Monarchia di Dante
Leggi anche Canfora qui
Una nuova edizione del “Monarchia”
Quando Dante immaginava l’Impero come un Paradiso
di Massimo Cacciari Repubblica 17.12.13
L’edizione
del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni,
recentemente pubblicata come IV° volume della nuova edizione commentata
delle Opere,coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la
ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del
testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle
singole parti del volume. Ma è notevole anche per la presenza di alcuni
importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto
dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e
filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte
del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo,
testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto”
che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio
attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento”
delMonarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del
’400, non solo in funzione anti-repubblicana, ma per rivendicare Dante
alla pia philosophiae cioè alla “catena aurea” del platonismo.
Interpretazioni
o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle
posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e
complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla
Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene
scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore,
nella stesura del poema). Della sua novità ,come per le altre sue opere,
Dante è “superbamente” consapevole – e così dello scandalo che essa è
destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino,
riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi,
Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della
civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera
tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista. Da
remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra
natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma
provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la
cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente
filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è
chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare
l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino,
Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine
appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella
razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e
Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di
Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e
tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo
spettacolo che gli si rivela. È Beatrice a “far entrare” il poeta, e
solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e
del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi
rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità
con quella del Convivio e delMonarchia. Come spiegarla? Amara delusione e
disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora
avrebbero animato l’opera politica? Ma ilMonarchiaè tutto fuorché uno
scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della
storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la
gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la
forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere
contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero,
perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive
missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile
soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto
provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso
promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo
celeste. E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge
dalla Commedia.
Dante rompe definitivamente con la teologia politica
patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile
nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna
successiva. L’Impero di Dante non sono iregna, o ormai potremmo dire gli
Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra
due epoche – quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la
propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento
sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella
immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per
quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e
vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre
tramontata.
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