martedì 7 gennaio 2014

Emanuele Severino - come sempre - su Emanuele Severino

Biagio de Giovanni: Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, 2013

È Gentile il profeta della civiltà tecnica
Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna 
Emanuele Severino, Corriere, Lunedì 6 Gennaio, 2014


Giovanni Gentile fu assassinato perché era la voce più autorevole e convincente del fascismo. Eppure la sua filosofia è la negazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pensiero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gentile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai riconoscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attualismo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planetario della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fondamento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfondimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore. 
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensare, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: divenga . Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabile solo provvisoriamente. Esser convinti dell’inesistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere immutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice. 
La negazione di ogni verità assoluta e innegabile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assolutismo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato). 
Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contrasto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità assolutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno , ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazioni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è interessato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esistenza umana è, da ultimo, un contrasto insanabile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser salvato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vizio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura interpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. Soprattutto a me. Provo a rispondere ad una soltanto. In modo adeguato risponderò in altra sede. 
Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richiamata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una proposta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «storicità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordinato. 
E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il contesto in cui de Giovanni avanza queste domande-affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo cadavere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. 
Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» significa che se ne fa esperienza . Certo: si fa esperienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un andare nel nulla non crede (è impossibile che creda) che l’uomo vada nel nulla ma , insieme, continui ad essere un «fatto» che appartiene al contenuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientarsi. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro esser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia annientamento crede che — pur avendo avuto esperienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è diventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. 
Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’esperienza, e quindi mostri che esso è diventato niente . Di questa sorte l’esperienza non può che tacere. Cioè l’annientamento non può essere un «fatto». (E se il cadavere viene bruciato e, come si dice, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto , esce dall’esperienza — anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che esso, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo). 
Ci si convince dunque che la morte è annientamento non sulla base dell’esperienza, ma sulla base di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano colpiti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la riflessione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimentarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impossibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostrazione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto. 
Dunque , la sconcertante affermazione, al centro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eterno, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muore». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di attestare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. Anche quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati. 
A questo punto de Giovanni deve mostrare perché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcertante affermazione ho indicato nei miei scritti. Attendo. Ma anche tutte le altre sue domande attendono la mia risposta.

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