L'arte e la scienza «sono» libere, dice la Costituzione. E «devono esserlo». La cultura asservita a interessi politici ed economici tradisce il suo compito. Gli uomini di cultura devono guardarsi dalla piú sottile delle insidie: mettersi al servizio in modo non volontario e quasi inavvertito.
mercoledì 29 gennaio 2014
Il periodico pistolotto autoconsolatorio del papa Zagrebelsky, che nulla disse né fece quando eravamo ancora in tempo
Risvolto
L'arte e la scienza «sono» libere, dice la Costituzione. E «devono esserlo». La cultura asservita a interessi politici ed economici tradisce il suo compito. Gli uomini di cultura devono guardarsi dalla piú sottile delle insidie: mettersi al servizio in modo non volontario e quasi inavvertito.
L'arte e la scienza «sono» libere, dice la Costituzione. E «devono esserlo». La cultura asservita a interessi politici ed economici tradisce il suo compito. Gli uomini di cultura devono guardarsi dalla piú sottile delle insidie: mettersi al servizio in modo non volontario e quasi inavvertito.
La società non è la somma di rapporti bilaterali concreti,
tra persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme
di rapporti astratti di persone che si riconoscono come
appartenenti a una medesima cerchia umana, senza
che gli uni nemmeno sappiano chi sono gli altri. Come
può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti?
Qui entra in gioco la cultura. Dopo Fondata sul lavoro,
Gustavo Zagrebelsky prosegue la sua riflessione sui
principî della Costituzione: al centro di questa riflessione
stanno le idee, la loro importanza nella nostra esistenza,
la gioia che possono procurare e i pericoli che ne insidiano
l'autenticità. Senza idee, non c'è cultura; senza cultura
non c'è società. E, senza libertà della cultura non c'è
libertà della società.
La felicità della cultura
Questa nostra società veloce che non riesce più a pensare Un saggio di Gustavo Zagrebelsky sull’importanza del sapere per la qualità della democrazia
di Simonetta Fiori Repubblica 28.1.14
E
se davvero ci fossimo ridotti come Funes “el memorioso”, che ricordava
tutto ma non capiva niente? Il sospetto è avanzato dal nuovo saggio di
Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, che sceglie il personaggio
di Borges come emblematico delle dissennatezze presenti (Einaudi, pagg.
110, euro 10). Capace di ricordare ogni dettaglio, anche il più
insignificante, Funes però non sa pensare. Le idee generali gli
sfuggono. Nella sua mente sovraccarica di elementi infinitesimali, non
c’è spazio per concetti compiuti. E che c’entriamo noi con questo
prodigioso matto, che «sapeva le forme delle nubi astrali dell’alba del
30 aprile 1882 e poteva confrontarle nel ricordo con la copertina
marmorizzata d’un libro visto una sola volta»?
C’entriamo eccome, ci
dice Zagrebelsky. Questa è la condizione in cui ci conduce il sapere
iperspecializzato, suddiviso in competenze differenziate e sempre più
piccole, e soprattutto sprovviste di una cornice comune. E a questo ci
costringe anche una politica incapace di uno sguardo generale, una
politica che risponde alla disgregazione sociale perseguendo l’interesse
di ogni minima categoria e rinunciando a un quadro d’insieme. «Le
ideologie», scrive lo studioso, «sembrano cose d’altri tempi. Crediamo
che ciò sia perché hanno dato cattiva prova di sé, nel secolo scorso.
Forse, invece, è perché stentiamo a raffigurare la straordinaria
frammentazione sociale in qualche idea complessiva».
Una singolare
forma di miopia colpisce il nostro sguardo, che è poi la malattia del
“memorioso”. La vista diventa «acuta, acutissima sui particolari», ma
«cieca di fronte a ciò che li dovrebbe tenere insieme, cioè a ciò che è
generale». Da qui la missione che investe tutti, a partire dagli
intellettuali di professione: restituire la vista alla politica. E
restituire alla cultura la sua funzione originaria, ossia fungere da
collante di una società. Una funzione ribadita anche dalla carta
costituzionale, nell’articolo 33, formulato per difenderne l’autonomia
dal potere e dal mercato.
Quella del rapporto tra politica e cultura è
una lunga e travagliata storia, che è andata esaurendosi in Italia tra
gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Un divorzio progressivo
che ha impoverito la politica, schiacciata sul “giorno per giorno”. E ha
messo ai margini la figura del maître à penser, caricaturizzata dallo
Zeitgeist contemporaneo in pallone gonfiato o in accademico polveroso,
incapace di misurarsi con la cultura di massa. Un nome, quello di
intellettuale, che oggi è perfino imbarazzante pronunciare, scrive
Zagrebelsky. Ma non è sua preoccupazione riabilitare la categoria,
coprotagonista non certo innocente del graduale decadimento. Ciò che
sembra stargli più a cuore è “la felicità delle idee”, senza le quali
non esiste la libertà dal senso comune e dal conformismo.
Fondata
sulla cultura può essere letto anche come un trattato sul piacere delle
idee, in un’epoca che sembra farne volentieri a meno. E sulla gioia
della conoscenza, in un paese che non ci crede più.
Le idee celebrate
da Zagrebelsky non sono però “beni in commercio”. Non si traducono in
valore economico. E non sono un fattore produttivo. Qui la sua analisi
si distingue dalla nutrita saggistica che combatte l’infelice slogan
della destra “con la cultura non si mangia”. Con la cultura certo si
mangia, ma non è questo che interessa a Zagrebelsky. Anzi, viene
denunciata l’ossessione economicistica con cui oggi, in ogni luogo della
geografia culturale, anche a sinistra, si soppesano invenzione e
creatività. «Il fine è sempre e solo economico: le idee sono strumentali
alla felicità e al benessere che questa ideologia continua a collocare
nell’economia della ricchezza di beni materiali». Ne consegue che
un’idea incapace di produrre innovazione nel mercato delle merci – ma
solo consapevolezza o arricchimento spirituale – di per sé non vale
niente. Mentre, proprio sulla base della vivacità delle idee, potremmo
stabilire classifiche della felicità: sia per le vite dei singoli, sia
per ciascuna collettività.
Pur nella forma del trattato classico – e
della riflessione intellettuale – il libro di Zagrebelsky parla
dell’attualità. Delle idee che sono di per sé “divisive” – categoria
bandita nella stagione delle larghe intese – e dei governi tecnici, che
come gli idraulici possono al più riparare il danno ma non certo
incidere sul cambiamento. Degli intellettuali di servizio – al potere,
al mercato, ma soprattutto alle personali carriere – e di quelli
scettici che tutto comprendono e tutto giustificano, abilissimi nel
destreggiarsi tra i vari poteri. Di quelli apocalittici, in attesa del
messia (che non arriva mai, e se arriva sono dolori), e degli eterni
consenzienti, per paura di restare esclusi dal “cerchio formidabile” di
cui parlava Tocqueville. Una ricca fenomenologia dell’intellettuale
smarrito che resta quasi sempre innominata, ma non è difficile
riconoscervi i vari personaggi del teatrino pubblico.
Ora però si
pone il problema: come restituire integrità alla funzione culturale? Qui
Zagrebelsky introduce la categoria del “tempo”. «Se la chat e i suoi
fratelli appartengono al mondo dell’istantaneità, i libri richiedono
durata». Da una parte la comunicazione, dall’altra la formazione. «La
comunicazione vive nell’istante, la formazione si alimenta nel tempo».
Non una contrapposizione, ma una necessaria integrazione. «Non si
costruisce sommando istanti isolati, ma collegandoli in un senso che
crea comunanza. Il collegamento è compito della cultura».
E chi l’ha
detto che sia un compito facile? «Io voglio che il mio lettore», scrive
Petrarca, «pensi solo a me, e non stia a pensare alle nozze della
figlia, alla notte che ha passato con l’amante, alle trame dei suoi
nemici, alla causa in tribunale, alla terra e ai soldi». No, il lettore
deve concentrarsi sul testo, perché «non voglio s’impadronisca senza
fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto». Il monito di
Petrarca, fatto proprio da Zagrebelsky, vale ancora oggi. Soprattutto
oggi. Costanza e dedizione. Tempo e durata. L’unico modo – ci avverte
l’autore – per salvarci dalla sindrome di Funes, che pensava di saper
tutto mentre era solo un demente.
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