venerdì 10 gennaio 2014

Il sistema di potere nell'impero spagnolo da Carlo V in avanti


CopertinaAurelio Musi: L’impero dei viceré, Il Mulino, pp. 272, e 23

Risvolto
Il libro ricostruisce ruolo, biografie politiche, modelli di governo, ideologie e pratiche del potere di viceré e governatori nell’intero sistema imperiale spagnolo moderno, tra sviluppo, apogeo e declino. Da Carlo V, al principio del Cinquecento, fino alla prima guerra di Successione, al principio del Settecento, l’istituzione vicereale fu infatti la vera cinghia di trasmissione fra il sovrano e i sudditi e assicurò la lunga durata del predominio spagnolo nel mondo europeo ed extraeuropeo. A tale catena di comando si deve il consolidamento dei tratti peculiari del sistema: l’unità religiosa e politica, l’ascesa di una regione-guida (la Castiglia), l’equilibrio difficile fra le direttrici unitarie del governo imperiale e i loro adattamenti territoriali.

Aurelio Musi insegna Storia moderna nell’Università di Salerno. Con il Mulino ha pubblicato anche «Il feudalesimo nell’Europa moderna» (2007). Fra i suoi titoli più recenti: «La disciplina del corpo» (Guida, 2011).


I vicerè globali venuti da Madrid
di Giuseppe Galasso Corriere 10.1.14


Quello spagnolo è stato, come si sa, fra gli imperi più grandi della storia. È stato, anzi, con quello portoghese, ma in maggiore misura, il primo impero cui davvero si possa riconoscere la qualifica di mondiale o globale. Solo in seguito quello inglese o quello francese o quello russo hanno conosciuto un’uguale o maggiore dimensione intercontinentale. E anche per questo motivo nell’impero spagnolo l’articolazione periferica di rappresentanza sovrana e di gestione della cosa pubblica in nome e per conto del potere centrale ebbe un rilievo particolare. Impiantata o riveduta da Carlo V (sovrano dal 1516 al 1556) e dal figlio Filippo II (che regnò dal 1556 al 1598), la struttura delegata di governo delle periferie fu poi, ma non radicalmente, modificata in seguito, finché la rivolta delle colonie latino-americane, dal 1809 in poi, mise fine all’impero.
Ancora agli inizi del Settecento, l’impero comprendeva, intor- no al suo centro ispanico, vaste zone d’Europa (Sardegna, Sicilia, Napoli, Milano, Paesi Bassi); poi, perduti i possedimenti europei, si ridusse alle vastissime parti extraeuropee. La sua origine europea decise anche la forma che assunse il governo di queste parti, subito costituite come nuovi reami del sovrano spagnolo, che vi era rappresentato, come in Europa, dai suoi viceré, considerati l’alter ego del sovrano (in Sardegna si diceva alter nos; dove, come a Milano e nei Paesi Bassi, non si trattava di regni, si portava il titolo di governatore). Il viceré spagnolo aveva, ovviamente, nei paesi extraeuropei una fisionomia e una sfera d’azione diversa e maggiore che in Europa. Qui doveva sottostare a consuetudini e leggi di Paesi di antica tradizione politica e istituzionale, che legavano lo stesso sovrano che si rappresentava.
Ciò non aveva un valore assoluto di vincolo per il sovrano, ma aveva un’importanza dirimente sui modi in cui i rapporti e la vita politica e amministrativa dovevano procedere. Oltreoceano non era così. La personalità politica, anzi, l’intera personalità civile di quei Paesi e dei loro popoli, furono disconosciute dai conquistatori e si procedette a impiantarne il governo sulla sola base dell’esperienza politica e civile del centro europeo. Ciò diede ai viceré in America un’enorme libertà di azione, accresciuta dalla lentezza delle comunicazioni con l’Europa, che rendeva ancora meno facile intervenire tempestivamente nel loro operato. Non per ciò si deve credere che quei viceré fossero despoti incondizionati. La storiografia, anche recente, oscilla tra il considerarli tali e in balia delle forze sociali locali. Visioni errate, l’una e l’altra. Il potere di Madrid, pur con tutti i limiti tecnici e politici che si vogliono, era effettivo e si faceva sentire ovunque nell’impero. È verissimo, invece, che molti dei viceré in Europa e fuori furono personalità politiche e uomini di governo di prim’ordine, che svolsero un’opera storica memorabile e duratura, sicché anche da questo fattore della loro personalità e dal tratto personale della loro azione di governo, di cui non mancò di risentire la storia posteriore dei Paesi governati, fu determinato il rapporto fra centro e periferia dell’impero spagnolo. Un rapporto duplice, variamente vissuto dai singoli viceré: da un lato, del viceré stesso con Madrid; dall’altro, del viceré con le forze politiche e sociali in più o meno rapida maturazione nelle dipendenze della corona, e nucleo di future classi dirigenti locali (forze che, in Europa, proseguono, ovviamente, una ben più lunga storia).
Tutti questi problemi sono felicemente affrontati da Aurelio Musi in un denso saggio (L’impero dei viceré, Il Mulino, pp. 272, e 23), che proprio dall’istituto vicereale (già da lui trattato in un altro importante saggio del 2000, L’Italia dei viceré) trae lo spunto per una dimostrazione concreta e persuasiva della fisionomia (anche nei cerimoniali e nei riti del potere) unitaria, pur coi limiti in cui poteva esserlo, dell’impero di Madrid. I viceré sono, quasi sempre, rampolli delle grandi aristocrazie del Paese dominante (ma molti sono di altri Paesi dell’impero), e sono un documento-tipo di quella formazione di grandi élite moderne del potere, che dovrebbero essere studiate nella loro struttura e dinamica (anche sovranazionali) come finora non lo sono state. È passata anche per questo tramite, e in non piccola misura, l’impronta profonda lasciata dalla Spagna nei Paesi che appartennero ai suoi sovrani, e che ancora non è stata del tutto liberata dalle ombre scurissime di cui l’ha circondata una lunga «leggenda nera».

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