Franco Cardini e Sergio Valzania: La scintilla, Mondadori, pp. 216, e 19
Risvolto
Nell'agosto 1914 inizia la Prima guerra mondiale. Anche se l'Italia
rimane estranea al conflitto fino al maggio 1915, le sue responsabilità
sullo scoppio sono gravi. Nel 1911, infatti, l'Europa sta vivendo un
periodo di sostanziale equilibrio e le grandi potenze paiono aver
risolto i loro contrasti coloniali, ma l'Italia di Giolitti vuole
un'affermazione coloniale. Nasce così l'impresa di Libia, inutile e
proditorio attacco all'impero ottomano. E siccome la guerra, come ogni
guerra, non rimane circoscritta, presto si estende al Mediterraneo, con
operazioni nel Mar Rosso, a Beirut, nel Dodecaneso e nei Dardanelli. Le
difficoltà in cui viene a trovarsi il governo di Istanbul spingono le
piccole potenze balcaniche a cercare di ottenere ampiamenti
territoriali. Prima che si firmi la pace fra Italia e Impero ottomano,
quest'ultimo è attaccato da Bulgaria, Serbia, Grecia e Montenegro. Alla
prima guerra balcanica ne segue una seconda, a cui partecipa anche la
Romania. Quando il conflitto ha termine, la Serbia ha raddoppiato il suo
territorio ed è divenuta la maggior potenza regionale. A Vienna si
rafforza allora la convinzione che sia necessario un intervento militare
per riportare equilibrio nella regione e a Sarajevo viene accesa la
miccia della bomba che l'Italia ha innescato.
"L'Italia voleva un posto al sole? Il risultato fu la Grande guerra"
Il saggio La scintilla di Franco Cardini e Sergio Valzania spiega come, con l'invasione della Libia, il nostro Paese favorì il conflitto
Matteo Sacchi
- il Giornale Sab, 18/01/2014 -
GRANDE GUERRA, UN SECOLO FA LA SCINTILLA ESPLOSE A TRIPOLI
109 13-01-2014 giorno/resto/nazione 27
Grande Guerra, la scintilla fu italiana. Il «Bel suol d’amore» finì in massacro
Fu l’occupazione della Libia a scatenare i nazionalismi nei Balcani
di Luciano Canfora Corriere 10.1.14
L’anno appena incominciato sarà segnato da costanti riferimenti alla
ricorrenza centenaria dello scoppio della Grande guerra (1914). Non si
dovrebbe parlare di celebrazioni, anche se qualche tentazione in tal
senso è prevedibile. Speriamo che l’involuzione intellettuale
dispiegatasi in molti campi con la cosiddetta, e a torto esaltata, «fine
delle ideologie» non porti ad un recupero del peggior patriottismo e
riproponga la retorica della nostra entrata in guerra nel maggio 1915,
dopo dieci mesi di neutralità, come «quarta guerra d’indipendenza»:
definizione usuale nei manuali di storia di epoca fascista.
È ormai nota quasi in ogni dettaglio la storia del nostro cinico
comportamento consistente nel mercanteggiare con entrambi gli
schieramenti ormai in guerra il maggior lucro da trarre dall’uno o
dall’altro eventuale alleato. (Ma eravamo legati ad un patto di alleanza
con Austria e Germania, rinnovato ancora alla vigilia quasi del
conflitto, il 5 dicembre 1912).
Il 6 maggio 1891 era stata già rinnovata la Triplice Alleanza (Italia,
Austria, Germania). Il testo che ribadiva e ulteriormente rinnovava
l’alleanza sanciva, all’articolo IX, che Germania e Italia «s’impegnano a
mantenere lo statu quo nel Nord-Africa e in particolare in Cirenaica,
Tripolitania e Tunisia» e che però, se – dopo maturo esame – Germania e
Italia avessero constatato l’impossibilità di mantenere lo statu quo
nella regione, la Germania si impegnava a sostenere l’Italia in
qualunque azione «compresa l’occupazione di territori o altre forme di
garanzia che l’Italia decidesse di intraprendere in quelle regioni».
Nel 1911 l’Italia invase la Libia, e nel protocollo del secondo rinnovo
della Triplice (5 dicembre 1912) il punto 1 recitava: «Resta inteso che
lo statu quo menzionato nell’articolo IX del Trattato implica la
sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica». Insomma i nostri
appetiti coloniali venivano accontentati e assecondati dal partner più
interessato – la Germania – alla spartizione coloniale dell’Africa: un
aiuto fattivo e arricchito del costante riferimento alle eventuali
«provocazioni» da parte della Francia.
Nei libri per le scuole in epoca fascista l’attacco italiano alla Libia
veniva raccontato così: «Nel 1911, per rafforzare la sua posizione nel
Mediterraneo, l’Italia si accinse, dopo una pacifica penetrazione, ad
occupare la Libia, terra africana che comprende la Tripolitania e la
Cirenaica, ed era sottoposta al governo dei Turchi»; «Ma la Turchia
ancora non cedeva. Allora nella primavera del 1912 l’Italia portò la
guerra nel Mare Egeo, dove occupò le isole del Dodecaneso e inoltre la
grande e importante isola di Rodi, soggetta ai Turchi. A Losanna
finalmente fu firmata la pace» (L. Steiner, «Nozioni di Storia,
Geografia e cultura fascista per i corsi annuali di avviamento
professionale, Paravia, Torino, 1937, terza ed., pp. 94-95).
Pur nella sua rozza faziosità, questa sintetica descrizione della
vicenda fa emergere chiaramente l’effetto destabilizzante che le
ripetute aggressioni italiane, in Nord Africa e nell’Egeo ebbero sugli
equilibri sempre meno solidi dell’anteguerra. Quando poi la guerra
esplose, piantammo in asso la Triplice che ci aveva appoggiati
nell’avventura coloniale e puntammo sull’appoggio anglo-francese per
sottrarre all’Austria terre tedescofone, e a tal fine cambiammo fronte.
La politica italiana si inseriva comunque, e sia pure in modo
aggressivo, dentro un più generale quadro di lotta inter-imperialistica
per l’egemonia e per la spartizione del bottino coloniale. Tale infatti
fu la Grande guerra, matrice perciò della più radicale crisi che
l’Europa abbia mai attraversato (anche più violenta del 1848) e cioè il
quinquennio 1917-1922, al termine del quale era cambiata la faccia, e la
sostanza, dell’intero pianeta.
In che misura le avventure italiane furono il detonatore del conflitto?
Due studiosi italiani, non nuovi ad imprese congiunte, Franco Cardini
medievalista e Sergio Valzania polemologo, hanno studiato questo
segmento tutto italiano dell’anteguerra in un libro imminente per la
Mondadori, La scintilla : forse intenzionale allusione alla testata del
giornale di Lenin, «Iskrà». Titolo appropriato, perché l’inchiesta
storiografica che essi hanno svolto ha fatto emergere la concatenazione
di avvenimenti che conduce, a partire dall’invasione italiana della
Libia, alla deflagrazione della grande crisi. L’attacco italiano
all’impero ottomano infatti innescò una reazione a catena inducendo
anche le piccole potenze balcaniche a pretendere, a danno del «grande
malato» come allora veniva chiamato l’impero euro-asiatico, incrementi
territoriali. Presto si mossero Bulgaria, Serbia, Montenegro, e anche la
Grecia. Dopo due «guerre balcaniche», nella seconda delle quali
intervenne anche la Romania, la Serbia ebbe quasi raddoppiato il suo
territorio: era ormai la più grande delle piccole potenze regionali, per
adoperare un’antica formula delle Lettere slave di Mazzini. Era insomma
la principale spina nel fianco dell’Austria.
E la Grande guerra partirà appunto di lì: dallo scontro, drammatizzato
al massimo dalla corte di Vienna dopo l’attentato di Sarajevo, tra
l’Austria e la Serbia. La quale, dopo il crollo austro-tedesco del
novembre 1918, diventerà la grande Jugoslavia (denominazione assunta
ufficialmente nell’ottobre del 1929), risultando così la vera vincitrice
degli interminabili conflitti balcanici dell’anteguerra. E intanto —
non senza un conflitto locale con la Grecia — verrà a maturazione anche
il tracollo della vecchia impalcatura imperiale ottomana e sorgerà,
ridimensionata territorialmente, una nuova Turchia laico-parafascistica
sotto la guida di Kemal Atatürk, dal 1921 capo carismatico a vita della
risorta Turchia. Alla luce di questo vasto e consequenziale sviluppo,
non appare dunque affatto improprio definire «scintilla» di tutto ciò la
deplorevole avventura giolittiana nel «Bel suol d’amore» della
Tripolitania.
I due autori della Scintilla hanno brillantemente assolto al loro
compito, e il lettore è grato. Ma lasciano nell’aria una domanda sulla
possibilità stessa di individuare una sola «scintilla». Naturalmente
essi seguono un filo molto articolato e coerente. E tuttavia, nella
comprensione dei fatti storici, può apparire piuttosto unilaterale il
privilegiamento di una «causa». Anche il grande Tucidide si trovò di
fronte ad una grande guerra, incominciata anch’essa con un conflitto
locale (tra Corinto e Corcira) e via via cresciuta su se stessa fino a
coinvolgere, come egli scrive all’inizio della sua opera, «la gran parte
dell’umanità». Tucidide non smise di indagare sulle cause, e, man mano
che la guerra si ingigantiva, di porsi sulle tracce delle cause «vere».
Il frutto di tali ricerche occupa un intero libro, il più lungo degli
otto che compongono l’opera. Alla fine si convinse di averla scoperta,
la «causa verissima e inconfessata», come egli la chiama: il conflitto
di potenza, la lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Gli Spartani —
scrive — si convinsero che la guerra fosse inevitabile perché Atene era
ormai diventata troppo forte.
Si potrebbe dire che c’è un che di tautologico in questo tipo di
spiegazione. Ma c’è anche la presa d’atto dell’insufficienza delle
spiegazioni settoriali, parziali, uniche. La guerra del 1914 fu
«inevitabile» per le stesse ragioni per cui lo fu la guerra del
Peloponneso. E speriamo che le grandi potenze che oggi si fronteggiano
nell’Oceano Pacifico non giungano prima o poi ad analoghe, irreparabili,
determinazioni.
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