Lo cunto de li cunti
La ristampa del capolavoro napoletano coincide con un film diretto da Garrone Il libro seicentesco di Basile tra storie popolari e fiabe adesso è disponibile con una traduzione che è fedele accompagnamento dell’originaledi Giulio Ferroni l’Unità 3.2.14
INTENTO A INTERROGARE L’ORIZZONTE NAPOLETANO NELLE SUE DIVERSE FACCE, DALLAVIOLENZA CRIMINALE DI «GOMORRA» alle depresse illusioni di Reality, il regista Matteo Garrone sta ora per rivolgersi alle diversioni fantastiche e paradossali dell’antica fiaba: sta infatti per iniziare le riprese di un film, stavolta in inglese (con star internazionali come Salma Hayek e Vincent Cassel), il cui provvisorio titolo Tale of tales, traduce quello del capolavoro della letteratura napoletana del Seicento, Lo cunto deli cunti di Giovan Battista Basile. Ein effetti il film è annunciato come «adattamento» di quell’opera, costituita da cinquanta fiabe in dialetto napoletano (che nella tradizione è stata anche chiamata Pentamerone, sulla scia del Decameron di Boccaccio, da cui peraltro è davvero assai lontana).
Per una felice combinazione, ogni avveduto lettore, insieme a Garrone, può disporre oggi di una nuova edizione completa e perfettamente affidabile del testo di Basile, il cui titolo completo è Lo cunto deli cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille (Il racconto dei racconti o il trattenimento dei bambini): con premessa di Enrico Malato, il testo (nella collana «I novellieri italiani», Salerno editrice, 2013, pp.LX-1054, in due tomi) è curato da Carolina Stromboli, che, oltre a offrire l’originale napoletano in forma criticamente affidabile (con il necessario apparato filologico), fornisce una traduzione che non vuol essere rifacimento (come è accaduto in quella pubblicata da Ruggero Guarini per Adelphi nel 1994), ma fedele accompagnamento alla lettura dell’originale, e una fitta serie di note, che puntano sui dati linguistici, soprattutto lessicali. Èvero, del resto, che può essere molto difficile attraversare quell’antico dialetto, penetrare nella sua corposa evidenza e nella sua scintillante espressività: ma è anche vero che il fascino di questo libro è dato proprio dal nesso tra la sua materia e la forza immaginosa di quel dialetto, con le infinite combinazioni, amplificazioni, diversioni, che da esso scaturiscono.
Chi non voglia fare la fatica di attraversare da dentro quella difficile lingua, viene ora messo in grado, dalla fedelissima traduzione a fronte, di dare almeno ogni tanto uno sguardo alle forme originali, all’eccezionale godimento che scaturisce da questo testo formidabile, che ha anticipato la varia riscoperta del mondo della fiaba fatta dalla cultura europea ha fatto tra Seicento e Ottocento e per molto tempo è stato addirittura più noto fuori d’Italia che da noi. La luminosa eccezione di Benedetto Croce (che è stato editore de Lo cunto deli cunti e lo definì «il più bel libro barocco italiano ») non è bastata a metterlo in evidenza tra i grandi classici della nostra letteratura: esso è rimasto perlopiù appannaggio degli specialisti. Ora c’è da sperare che questa edizione e il prossimo film di Garrone (anche se, girato in inglese, sembra voglia proiettare il mondo fiabesco in una chiave tutta contemporanea) vengano a metterlo adeguatamente in circolo.
ESALTAZIONESTRALUNATA Ma davvero questo libro ha una sua trionfante stranezza, che può offrire al lettore che si attardi ad indugiare sul suo universo fiabesco e sul suo tessuto linguistico una gioia singolare, una specie di esaltazione stralunata: facendo sentire la traccia di un mondo lontano e incommensurabile, in cui si combinano concretezza e astrattezza, resistenza della più minuta realtà e potenza illimitata dell’immaginario. Qui non si dà solo una proiezione verso le ben note impossibili possibilità della fiaba, dove gli animali parlano, gli oggetti agiscono, si rompono tutte le costrizioni dell’esistenza materiale, ecc.: qui tutto ciò viene a caricarsi sull’evidenza materiale e «popolare» di un dialetto che si avvolge su se stesso, che moltiplica le cose e le immagini, che si impreziosisce più di ogni sofisticata lingua letteraria, nel mentre mantiene il suo legame con i livelli più “bassi” della realtà.
Nella scrittura di Basile si sovrappongono inestricabilmente la più corposa fisicità e il più capriccioso artificio: Lo cunto de li cunti (apparso postumo tra il 1634 e il 1636, sotto lo pseudonimo anagrammatico di Gian Alessio Abattutis) si inseriva del resto entro l’operosità di un gruppo di scrittori della vitalissima Napoli spagnola di primo Seicento, impegnati ad affermare, attraverso la scrittura in dialetto, una orgogliosa specificità della cultura cittadina, al più alto grado di dignità letteraria. L’orizzonte popolare della fiaba e del dialetto si dispone così in un funambolico esercizio letterario, legato alla sensibilità barocca: in una continua moltiplicazione del materiale linguistico, manifestata tra l’altro dalle formidabili serie di parole e di termini posti in successione. Ogni immagine, ogni dato di realtà, ogni qualità, ogni spunto descrittivo viene dall’autore distillato in un tripudio di termini che si incalzano, in un inseguirsi di occorrenze lessicali o di metafore che si specchiano tra loro, in una illimitata espansione espressiva. Ecco ad esempio come un personaggio scopre la bellezza di una fanciulla: «vedde lo shiore de le belle, lo spanto de le femmene, lo schiecco, lo coccopinto del Venere, l’isce bello d’Ammore; vedde na pipatella, na penta palomma, na fata Morgana…» («vide il fiore delle belle, la meraviglia delle donne, lo specchio, il coccopinto di Venere, la cosa bella d’Amore; vide una bambolina, un farfalla variopinta, una fata Morgana..»: ma l’elencazione continua ancora a lungo). Sono comunque davvero tanti gli elementi linguistici e stilistici che sostanziano il fascino e la stranezza di questo libro, messi in luce con molta chiarezza dalla curatrice di questa edizione, che nella sua introduzione dà anche varie indicazioni sulla materia dei racconti, e sul suo orizzonte antropologico. Ci ricorda tra l’altro che qui si trovano le prime attestazioni letterarie di schemi e situazioni di fiabe che più si sono imposte nell’immaginario universale, da Cenerentola (La gatta Cennerentola) alla bella addormentata (Sole, Luna e Talia), ad Hansel e Gretel (Nennino e Nennella), ecc.: e che vi si affacciano numerose figure tradizionali, come quelle dello sciocco fortunato, della fanciulla perseguitata, della matrigna cattiva, ecc..
Il contrasto tra protagonisti positivi e loro opponenti è qui sempre estremo, con un particolare gusto della crudeltà e dell’efferatezza, con una insistenza spesso ossessiva sul mostruoso e deforme, con molteplici esiti che possono far sussultare la nostra sensibilità troppo politically correct, ma che vanno ricondotti al loro orizzonte storico, alla durissima realtà del tempo. E non mancano effetti macabri, come può mostrare la novella su Talia, la bella addormentata, dove la fanciulla, uccisa da una lisca di lino, viene vista nel suo sonno mortale da un re, che se ne innamora, ma la lascia ancora morta e senza destarla ne coglie «li frutte d’ammore»; poi dopo nove mesi la morta dà alla luce due gemelli e viene riportata in vita non dal bacio dell’amante, ma dal succhiare dei neonati, che dal suo dito, scambiato per un capezzolo, estraggono la lisca micidiale… Un crudo universo, insomma, in cui si affacciano situazione molto poco «infantili»: Basile ce lo disegna in un impasto tutto meridionale, in cui si sente spesso alitare il più antico e misterioso colore di Napoli, con la sua dispiegata bellezza e la sua desolazione, la sua violenza e la sua passione, i suoi deliri e le sue speranze, tra oppressiva miseria quotidiana e sogni di sovrumana onnipotenza. Mirabile invenzione, ricamo immaginoso, proliferante gioco linguistico, capolavoro troppo poco conosciuto di quel Seicento che con troppa disinvoltura si continua a sentire ai margini della nostra storia letteraria e che nelle scuole viene del tutto ignorato.
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