domenica 12 gennaio 2014

L'età dell'oro della musica classica


Charles Rosen: Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven, Adelphi

Risvolto
Se c'è un'epoca nella storia della musica che nessuno ha mai esitato a definire aurea, certamente è quella del "grande triumvirato": i sei-sette decenni - dai primi exploit compositivi del giovane Haydn (mentre Mozart già stupiva l'Europa) alla morte di Beethoven nel 1827 - che videro nascere "un'arte nuova". Benché divisi da "caratteri diversissimi e concezioni espressive spesso diametralmente opposte", Haydn, Mozart e Beethoven forgiarono uno stile unitario, duttile ma inconfondibile, in grado di sublimare le "possibilità artistiche dell'epoca", ma anche di consumare come un fuoco "i residui ormai insignificanti delle tradizioni precedenti". Uno stile la cui perfezione ha reclamato, appunto, la definizione di classico. Che cosa ha reso possibile questa prodigiosa sintesi, e che cosa si cela dietro l'incanto che secoli dopo ancora ci pervade all'ascolto? Rosen spezza il circolo vizioso dei modelli analitici astratti, e restituisce "il senso della libertà e della vitalità" di questo stile, tra formularità e arguzia, sperimentalismo e convenzione. Così, la sua interpretazione della "forma sonata" ci fa comprendere come nelle mani di Haydn, Mozart e Beethoven la musica divenga finalmente capace di una drammaturgia senza parole: un teatro di suoni in cui il contrasto fra tensione e stabilità, regolato da stringenti logiche interne, attinge un'inedita potenza emozionale.
ra il figlio di un dentista». 





«Al piano ho compreso gioia e fatica per seguire il pensiero di Beethoven»
Barenboim: nell’800 le sue composizioni erano impossibili da eseguire
intervista di Enrico Girardi 
Corriere 13.1.14
«La caratteristica dell’arte di Beethoven che sento rimarcare più spesso è l’universalità, la capacità cioè di parlare all’umanità intera, quale che sia il tono dei contenuti musicali. Certo, non sta a me negare ciò. Aggiungo solo, però, che questa qualità non la possiede solo Beethoven. È anche di Bach, di Mozart e altri. Anche un Notturno di Chopin parla a tutti. Quello che è unico nella musica di Beethoven è che dà il sentimento di essere in contatto con qualcosa di essenziale. C’è tutto, in Beethoven: il lirismo, la drammaticità, il senso del tragico, i contrasti. Tutto meno la superficialità. Perciò lascia sempre l’impressione di essere di fronte a qualcosa di importante». In Spagna per un paio di giorni di vacanza, cosa più unica che rara nella sua vita frenetica, Daniel Barenboim è un fiume in piena nel parlare di Beethoven. Lo suona e lo dirige da quando è bambino. Fin dagli esordi, a sette anni, le Sonate per pianoforte fanno parte dei suoi programmi da concerto. E il ciclo integrale delle 32 Sonate lo ha inciso quattro volte: le prime tre in cd, negli anni Sessanta, Settanta-Ottanta e Novanta, l’ultima in dvd nei Duemila. 
Ed è proprio la prima di questa serie di Sonate e di Concerti (con Otto Klemperer e la New Philharmonia Orchestra) che risale alla fine degli anni Sessanta a Londra che il Corriere pubblica, un cd alla settimana a soli 6,99 euro oltre al prezzo del quotidiano, a partire da oggi. 
«Verdi e Wagner si sono interessati quasi esclusivamente al teatro ma tutti i compositori che si sono dedicati a più generi — aggiunge il musicista argentino — ne hanno eletto uno che rappresenta il loro diario personale, il giornale intimo. Per Mozart erano i Concerti, per Schubert i Lieder. Quando dici Beethoven tutti pensano alle Sinfonie, ma questo diario intimo per lui era la Sonata per pianoforte, infatti non passano mai più di un paio di anni senza che ne scrivesse almeno una. Nel ciclo delle Sonate si può ripercorrere passo passo l’evoluzione del suo pensiero. In questo senso il pianoforte era davvero il “suo” strumento». 
In che senso? «Nel senso che per lui il pianoforte era proprio uno “strumento”. Non gli interessava in quanto pianoforte. Non cercava la bellezza del suono pianistico. Ma gli serviva per dare forma al suo pensiero che andava oltre il pianoforte. Gli andava bene perché era più neutrale degli altri. Ha scelto il pianoforte e non, che ne so, un portacenere (che pure produce suono) perché gli garantiva l’orizzontalità delle melodie e dei contrappunti e la verticalità dell’armonia. Non era Chopin o Liszt, che scrivevano per il pianoforte. A lui serviva per dare forma ai suoi estremi. Si può dire che Beethoven era con il piano e contro il piano». 
In altre parole, il pensiero musicale era più avanti. Perciò scriveva cose pressoché ineseguibili per i pianisti del suo tempo. «Infatti! E poiché scriveva cose ineseguibili ha costretto i pianisti a evolvere la tecnica per poter stare al passo con il suo pensiero». 
Quando lei ha inciso il ciclo delle Sonate per la prima volta aveva 24 anni. Non dica anche lei, come fanno tanti, che non aveva dei modelli che ammirasse in modo particolare. «Certo che ne avevo. Per le Sonate per pianoforte adoravo, e amo tantissimo ancora oggi, il pianismo di Edwin Fischer e Claudio Arrau, che per me è stato il più importante pianista “tedesco” di sempre, anche se era nato in Cile. Ho avuto la fortuna di conoscerli entrambi, Arrau di più perché Fischer è morto quando avevo 18 anni ma ricordo l’emozione di suonare per lui nel ‘54 a Salisburgo e la gioia per i suoi elogi. Arrau lo conoscevo dai tempi di Buenos Aires. Quando penso a loro due mi ricordo sempre un aneddoto. Fischer aveva scritto un libro nel quale diceva a un certo punto che le prime tre note dell’ultimo tempo della Sonata in re maggiore op.10 n.3 , tre note che sembrano aprire un discorso che però vien subito troncato, sono una espressione di umorismo. Una sera Arrau viene a un mio concerto. In programma c’è quella Sonata. Alla fine viene a dirmi che gli è piaciuta molto, che ho fatto progressi enormi, che gli sono piaciuti molto i primi tre tempi ma peccato che nell’ultimo non si sentisse l’angoscia di quelle tre note subito troncate. Quella sera ho iniziato a capire che quando si parla di musica non si parla di musica ma della nostra reazione di fronte alla musica». 
E che dire dei Concerti con la direzione di Klemperer? «Che suonare con lui, oltre che un onore è stata una fantastica opportunità. Attorno a Klemperer fiorisce sempre il luogo comune dei tempi troppo lenti. Ma, a parte che non era sempre così, nella sua lentezza c’era il sentimento della profondità. E in lui c’era un senso etico della musica che raramente ho visto altrove». 
Quanto virtuosismo c’è nei Concerti di Beethoven? «Ce n’è abbastanza. Oggi la parola “virtuosismo” è considerata una parola “sporca” ma è un errore perché viene da virtù. Ed è la virtù di fare cose difficili senza che se ne veda lo sforzo. Virtuosismo non è affatto sinonimo di superficialità».







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