domenica 12 gennaio 2014

Tradotte le Lezioni di Lovanio di Michel Foucault


Michel Foucault: Mal fare, dire vero, trad. di Valeria Zini, Einaudi pagg. 352 euro 25

Risvolto

L'avventuroso ritrovamento del corso di Lovanio conferma quale sia stato il problema che ha orientato, dall'inizio alla fine, il lavoro di Michel Foucault: quello della verità, nei suoi rapporti con la soggettività. Una verità qui declinata nella forma peculiare ed esclusiva della storia dell'Occidente, quella della confessione.


Il cuore di queste lezioni, infatti, è costituito dalla ricostruzione del dispositivo che va dalle pratiche penitenziali nel cristianesimo primitivo alle procedure di veridizione di sé e sottomissione nel monachesimo cenobitico. È lí, secondo Foucault, che è stato allestito un nuovo tipo di soggettività, ormai indissolubilmente legato all'obbligo di verbalizzazione della colpa commessa e al dovere di esplorazione degli arcana conscientiae, nucleo dell'inquadramento cristiano dell'esistenza individuale. Attraverso la progressiva generalizzazione ed estensione di un'ermeneutica che si mette a ricercare nel «foro interiore della coscienza» e nelle spire della concupiscenza la verità segreta dell'anima, Foucault diagnostica la nascita di una forma di governo degli individui destinata a investire la vita nella sua totalità, fino alle tecniche giudiziarie dell'età contemporanea e alle procedure di medicalizzazione dell'esistenza, origine di tutte le psicologie che pretenderanno, di lí in avanti, di decifrare i misteri dell'anima, facendoci credere che solo cosí potremo accedere alla libertà e alla verità. È forse allora proprio per rimetterle in discussione che Foucault si spingerà a formulare il solo imperativo e la sola prescrizione che abbia mai enunciato: «Non confessiamo mai!»                   


Che paradosso la verità al tribunale di Foucault
di Pier Aldo Rovatti Repubblica 12.1.14


Il “laboratorio” di MichelFoucault è un pozzo senza fondo da cui sgorgano ogni volta materiali di enorme interesse. Tra non molto leggeremo in italiano (edito da Feltrinelli) l’attesissimo corso del 1980 sul Governo dei viventi, mentre in Francia è appena comparso quello sull aSocietà punitiva di qualche anno precedente. Intanto, arriva la traduzione (presso Einaudi) delle lezioni tenute a Lovanio tra il gennaio e il maggio 1981, su invito della Facoltà di Diritto e della Scuola di Criminologia della locale università (Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia,a cura di Fabienne Brion e Bernard E. Harcourt). Qui il problema della confessione, uno degli argomenti più densi dell’ultima fase del lavoro di Foucault, è al centro di un quadro teorico e storico che riguarda l’incrocio tra la psichiatria e la giustizia, nella prima metà del secolo XIX, e che estende i suoi effetti fino alla nostra attualità, introducendo nel campo stesso del sistema penale una specie di “breccia”, o di paradosso, che ha a che fare precisamente con la questione della verità. Foucault ci soccorre delineando una scena inaugurale e una scena finale in termini molto limpidi. Ma prima, occorre forse spiegare un po’ il titolo del corso (e del libro).
“Mal fare” indica soprattutto quell’agire che siamo abituati a chiamare criminoso. “Dir vero” allude certamente alla confessione da parte di chi ha commesso il crimine ed è anche la posta in gioco di tutto il discorso di Foucault, quello che lui definisce i modi di “veridizione”, intendendo che ce n’è più di uno e che nella sequenza storica essi si trasformano.
L’accusato giura di fronte al tribunale di dire la verità, ma in cosa consiste questa verità? Noi pensiamo normalmente che essa stia nell’ammissione del suo crimine, tuttavia, a partire dall’inizio del Novecento, si tratta anche di altro, cioè – in breve – di dire la verità sul fatto stesso di essere un criminale. «Chi sei?», vuole sapere il giudice, e non è detto che l’accusato sappia o voglia rispondere alla domanda. Ma questa risposta diventa sempre più necessaria perché il sistema penale possa funzionare.
La scena inaugurale apre la conferenza in cui Foucault annuncia i temi che tratterà durante il corso. Essa è presa da un manuale del 1840 sul trattamento morale della follia. Lo psichiatra francese François Leuret racconta di come ha risolto un caso di delirio di persecuzione: sospinge il malato sotto una doccia ghiacciata e lo costringe a subire questa tortura finché lui, che si ostina a dichiararsi sano di mente, non cede e ammette: «Tutto il mio delirio è soltanto follia». Ecco una confessione, una “verità” estorta con la violenza. Per quanto tempo gli apparati dell’Inquisizione hanno usato simili pratiche? Ma il commento di Foucault va oltre: oggi – dice – ci siamo lasciati alle spalle la tortura o l’abbiamo squalificata come mezzo o “prova” giuridicamente utile. Abbiamo girato pagina, tuttavia dall’episodio di Leuret possiamo ricavare molte indicazioni, una soprattutto: che il procedimento inquisitorio è sempre una questione di po-tere dell’accusatore sull’accusato, anche se la giustizia parla in nome del volere collettivo e l’accusato deve non solo riconoscere le sue malefatte ma anche considerare giusta la punizione che riceve.
La seconda scena è la narrazione dell’episodio di un noto avvocato francese che sta difendendo un uomo che ha rapito un bambino e lo ha freddamente ucciso. L’avvocato si sta battendo contro la pena di morte e paradossalmente utilizza il silenzio del proprio assistito di fronte all’incalzare della giuria. Non basta che confessi l’orribile crimine, deve “raddoppiare” questa confessione con un supplemento: dire la verità su cosa è un individuo criminale. Ma lui tace, e allora l’avvocato si rivolge così ai giudici e alla giuria: «Potete davvero condannare a morte qualcuno di cui non sapete nulla?». L’episodio segnala quella “diffrazione” che a Foucault interessa: il passaggio dalla tradizionale ermeneutica del soggetto (il reo confesso) a una nuova “ermeneutica di sé” attraverso la quale la società vuole sapere dal soggetto stesso cosa è un criminale, per potersi così difendere dal “rischio” che esso comporta. Una nuova “problematizzazione” del dire la verità che, secondo Foucault, immette su una strada probabilmente senza uscita.

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