martedì 14 gennaio 2014
Ma dov'è che Repubblica trova i suoi corrispondenti?
L’uomo che scriveva bufale sulla Cina
Giampaolo Visetti, giornalista corrispondente dal paese per La
Repubblica continua a consegnare ai lettori una serie di falsi clamorosi
nell'indifferenza generale. Ecco gli ultimi di una lunga serie
da Giornalettismo di Mazzetta - 06/07/2013 -
Cina, Giappone e le due Coree scelgono leader nazionalisti. E riparte il riarmo che fa tremare l’Occidente
Si rischia una nuova “guerra dell’Asia”
Est contro Est
di Giampaolo Visetti Repubblica 14.1.14
PECHINO
A quasi settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sale
l’allarme per un conflitto che può riaccendersi là dove si è
tragicamente spento. L’Asia è sempre meno pacifica e cresce la
preoccupazione per un accumulo senza precedenti di eserciti e di armi di
ultima generazione nella regione del pianeta che registra la più
sostenuta crescita economica. Mai come oggi si concentrano in Estremo
Oriente scontri politici e commerciali, provocazioni tra Stati e
contrapposte rivendicazioni territoriali. A moltiplicare il rischio di
una nuova “guerra dell’Asia”, la concomitante ascesa al potere di
quattro leader nelle potenze cruciali dell’area. In poco più di un anno,
tra le fine del 2011 e il marzo 2013, Cina, Giappone, Corea del Sud e
Corea del Nord hanno cambiato la propria guida, affidandosi a esponenti
conservatori, espressi da forze di destra sempre più nazionaliste,
militariste e costrette a fare leva su richiami patriottici e xenofobi.
La tendenza, mentre in marzo sono attese cruciali elezioni in India,
spaventa sia l’Occidente che gli altri Paesi del Pacifico: a Pechino,
Tokyo, Seul e Pyongyang il potere si centralizza sempre di più, diventa
ancora più personale, ponendo direttamente nelle mani di pochi leader il
destino di poco meno della metà della popolazione e della ricchezza
mondiali.
Gli istituti di ricerca hanno già delineato lo spettro
del secolo: un pianeta in balìa dei «cattivi maestri dell’Asia»,
convertiti al neo-autoritarismo nazionalista ispirato al presidente
russo Vladimir Putin. La tesi è semplice: mentre le democrazie di Usa ed
Europa assistono al declino economico delle potenze che hanno dominato
gli ultimi due secoli, gli autoritarismi asiatici favorirebbero la
crescita delle nazioni che si apprestano a rivoluzionare gli equilibri
globali.
Profeta dei nuovi regimi post-comunisti e delle
democrazie sempre più leaderistiche, l’ex spia dei servizi segreti
sovietici che ha conquistato il Cremlino, ricostruendo la Russia dopo il
crollo dell’Urss. Cancellerie e diplomatici parlano apertamente di
“neo-putinismo”, per indicare «il virus che sta contagiando l’intera
Asia». I suoi esponenti più influenti sarebbero oggi proprio i quattro
leader che negli ultimi mesi hanno seminato scontri e tensioni nel
Pacifico: il presidente cinese Xi Jinping, il premier giapponese Shinzo
Abe, la presidente sudcoreana Park Geun-hye e il dittatore nordcoreano
Kim Jong-un. Solo un anno fa, nonostante le crescenti tensioni, un
vertice tra le figure che dominano l’Asia, oltre che necessario,
sembrava imminente. Oggi è semplicemente impossibile: Xi Jinping e
Shinzo Abe hanno scavato un solco di incomunicabilità, Abe e Park
Geun-hye rifiutano di parlarsi, Kim Jong-un si è autorecluso oltre il
38° parallelo a colpi di epurazioni, minacce e atrocità. A far temere
che un’Asia meno pacifica possa precipitare in una serie di scontri
regionali cronici, se non in una guerra convenzionale, la personalità
dei nuovi leader, gli equilibri politici interni e l’esplosione di
conflitti antichi e contemporanei.
Il cinese Xi Jinping, vicino
all’armata di liberazione del popolo per tradizione famigliare, si trova
a governare la riconversione economica e la riforma politica più
ambiziose della storia nazionale, nel momento in cui Pechino si appresta
a riconquistare la testa del pianeta. L’ascesa della Cina spaventa gli
Stati Uniti, potenza egemone dal Novecento, spiazza l’Europa, padrona
dei secoli precedenti, attrae Africa e America Latina, ma sta facendo
scattare un vero e proprio allarme tra i vicini dell’Asia. L’erede
“americanizzato” di MaoZedong, in pochi mesi, ha sorpreso anche i più
pessimisti. Dietro lo slogan delle “riforme”, Pechino ha lanciato la
corsa al riarmo dell’esercito più numeroso del pianeta, forte di 2,4
milioni di effettivi, ha varato la prima portaerei atomica e ha aperto
conflitti territoriali con tutti i Paesi confinanti, istituendo una
nuova “zona di identificazione per la difesa aerea”. Il più pericoloso è
quello con il Giappone per il controllo dell’arcipelago delle
Senkaku-Diaoyu, dove più volte si è sfiorato l’incidente navale e aereo,
fino a costringere gli Usa a riorientare nel Pacifico le forze
dispiegate in Europa, Medio Oriente e Asia centrale. Il nuovo
espansionismo economico, finanziario e commerciale della Cina, il suo
bisogno di materie prime e il preteso monopolio delle terre rare, hanno
riaperto però i fronti congelati dal declino dell’impero cinese, alla
fine dell’Ottocento. Pechino, nel nome del nazionalismo e del contrasto
agli alleati degli Usa, si oppone oggi anche a Corea del Sud, Taiwan,
Vietnam, Filippine, Indonesia e India, tracciando un lungo fronte di
guerra che va dall’Himalaya al Mar cinese meridionale.
La svolta
patriottica di Xi Jinping, costretto a ridimensionare i nostalgici della
sinistra neo-maoista e gli interessi dei nuovi poteri privati, si
scontra all’esterno con la destra nazionalista di Shinzo Abe, obbligato a
ricostruire il Giappone sfibrato da deflazione, crollo demografico e
addio al nucleare. Il premier di Tokyo, sostenuto da partiti di una
destra sempre più xenofoba, per riaccendere la crescita pretende la
revisione dei valori consolidati dalla fine della seconda guerra
mondiale. Rallentamento dell’impoverimento nazionale in cambio di
diritti: in pochi mesi ha fatto scoppiare lo scontro sulle isole con la
Cina, ma pure con la Corea del Sud, ha fatto esplodere le spese
militari, lanciato la revisione della Costituzione pacifista del 1945,
sfrattato la base Usa di Okinawa e istituito un nuovo consiglio di
sicurezza, sull’esempio di quello formato a novembre da Pechino,
plasmato su quello ideato degli Stati Uniti nel 1947.
I
neo-contrapposti Consigli di sicurezza di Giappone e Cina rispondono a
un pericolo sempre meno escludibile: la possibilità dello scoppio
improvviso, anche involontario, di incidenti armati tra la seconda e la
terza economia del mondo, ormai obbligate a dare risposte in tempo reale
ad ogni minima provocazione. Mentre in Cina spopolano i giochi
elettronici rossi, in cui gli eroi buoni sono cinesi e i nemici cattivi
sono giapponesi, Shinzo Abe il 26 dicembre ha ripetuto il pellegrinaggio
nel santuario di Yasukuni, dove sono sepolti 14 criminali di guerra. I
nazionalisti che appoggiano il premier, profeta dell’indebitamento
pubblico senza fine per rilanciare l’economia privata, li considerano
eroi della resistenza. Per Pechino e Seul sono invece carnefici del
colonialismo giapponese del Novecento, copia asiatica dell’espansionismo
della Germania nazista. La calcolata provocazione di Abe, campione
della sindrome di un nuovo accerchiamento del SolLevante, ha fatto
dimenticare ai giapponesi i primi fallimenti dell’Abenomics, aumentando
il consenso verso l’addio al pacifismo di Stato. Il prezzo è però la
rottura definitiva con la Cina, l’irrigidimento del gelo con la Corea
del Sud e un’irritazione senza precedenti della Casa Bianca, spaventata
dalla prospettiva di costi inutili nel Pacifico per arginare l’ascesa di
Pechino.
La nuova leader di Seul, figlia dell’ex dittatore Park
Chung-hee, assassinato nel 1979 su ordine di Pyongyang, si è vista così
offrire l’opportunità di una nuova stretta autoritaria e militarista: in
poche settimane, grazie alla minaccia ci-nese, alle provocazioni
giapponesi per il possesso delle isole Dokdo-Takeshima e alla deriva del
regime nordcoreano, ha ottenuto dal parlamento conservatore maggiori
poteri, nuovi fondi per l’esercito, il via libera a una “zona di
identificazione aerea” e altri 800 marines dagli Usa. Mai, da oltre un
secolo, l’Asia è stata tanto forte economicamente, così forte
militarmente, tanto scossa da scontri incrociati alimentati dal
neo-nazionalismo e così spaventata dall’ascesa di una super-potenza come
quella cinese.
E al centro dei conflitti, in un continente
sprovvisto di istituzioni sovranazionali comuni, autorizzate a
ricomporre le vertenze, resta la Corea del Nord del giovane Kim Jong-un.
In un anno ha eliminato i consiglieri riformisti, assassinato avversari
e parenti, umiliato Pechino e minacciato di bombardamenti atomici
Tokyo, Seul e Washington. Pyongyang è dunque la cellula impazzita di un
organismo in crisi, consapevole di dover un giorno affrontare diviso
l’implosione del regime del Nord, eredità irrisolta della Guerra Fredda e
nuova frontiera del confronto Cina-Usa. Mentre Barack Obama in aprile
volerà a Tokyo, Pechino e Seul, il mondo teme così che l’Asia 2014
riproduca l’Europa 1914: analogie tra leader, economie, radicalismi,
crisi, rivincite, tramonti, nazionalismi, corse alle armi, rancori
alimentati dalle propagande. La speranza è di non trovarsi alla vigilia
della nuova «grande guerra del secolo»: certo è che in Oriente la pace
non guadagna terreno e che anche l’Occidente ormai pare rassegnato al
massimo ad una «gestione sostenibile e presentabile di conflitti cronici
e strategici».
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