Il tramonto dell’umano
Il postumano di cui intende occuparsi Braidotti non può che essere critico, lontano dal disfattismo relativista e nichilista ma anche dalla fede perniciosa verso l’individualismo. Nella costellazione genealogica della filosofa, continuano ad avere un posto prediletto la politica femminista della collocazione, il dibattito sull’Europa e dunque sulla cittadinanza flessibile, le posizioni postcoloniali e ovviamente i riferimenti a Foucault, Irigaray e Deleuze. Ciò detto, nelle cartografie proposte, l’assunto da cui si parte è una materia dotata di intelligenza, tradotta in un monismo che sistemi la differenza al di là dell’opposizione dialettica.
La riflessione è chiarita dalle prime pagine: la condizione postumana, carica spesso di posizioni difficili da conciliare, deve anzitutto tener conto del tramonto dell’umanesimo classicamente inteso al fine di discutere di una soggettività edificata sul materialismo vitalista, di chiara eredità spinozista, anche conosciuto come immanenza radicale o, come verrà precisato in seguito, realismo della materia. Si capisce bene come il taglio del postumano indichi anche un altro congedo: quello dall’antropocentrismo.
Tutto ciò attiene in qualche modo al tratto nomadico? Certo che sì. Il soggetto postumano di cui parla Braidotti non può che essere già nomade. E non unitario, relazionale, determinato nella e dalla molteplicità, responsabile e radicato. A questa altezza, la filosofa si confronta con alcuni aspetti specifici di un presente che muta repentinamente: dalla biogenetica alla necropolitica finanziaria e a una certa tanatologia dell’avanzamento capitalistico, fino alla mediazione tecnologica e informatica a volte sfrenate. Sono molte le eccedenze che il postumano fa emergere e che vanno dapprima scoperte e poi indagate. Colme di orizzonti da esplorare, non raccontano però solo dello sfascio che ci distingue ma della possibilità di situarci affermativamente attraverso una teoria critica e creativa, al tempo stesso capace di smarcarsi da approcci parziali; da quello reattivo che concerne la filosofia morale (Nussbaum) al più analitico che arriva dai science and technologies studies (Franklin, Lury e Stacey, ma anche Rose e Verbeek).
Braidotti sta invece dalla parte di una teoria che declini l’alfabeto della radicalità antiumanista, e che non patisca per la fine dell’Uomo come canone vitruviano di perfezione, o costrutto sociale universalista, violento e nello specifico eurocentrico. Perché è proprio in quel sollievo che alberga la speranza di non abbandonarsi alla deriva di qualche cosa che sì, dovrebbe proprio atterrirci: il disumano e le sue aberrazioni. Gli esempi offerti dalla filosofa sono molti ma citiamo per esempio la replicazione e appropriazione della morte, le torture manipolatorie e i cannibalismi inferti ai viventi – umani e non. Tanto per tracciare una prima mappa di orientazione. «Il sapere postumano – e i soggetti che ne sono portatori» sottolinea «sono caratterizzati da una aspirazione di fondo verso i principi che tengono unita la comunità, e tentano pertanto di evitare le trappole della nostalgia conservatrice e dell’euforia neoliberale».
In questo senso, la condizione postumana è intravista come un’occasione per trovare nuovi schemi di sapere e risorse di autorappresentazione diversi da quelli correnti. Fino al ripensamento delle stesse scienze umane, prossime all’estinzione se non saranno capaci di seguire un processo sostanziale di trasformazione che il presente chiede con il salto in una più efficace multiversità. Nel complesso processo di metamorfosi, Braidotti invita così ad attrezzarci di strumenti adeguati, dopo aver appreso che l’approssimarsi del soggetto alla zoe non può che essere postantropocentrico. Dunque incarnare un corpo di donna corrisponde ancora ad avvertirsi «generatrice del futuro»? In questo solco, lei stessa conferma: «Il divenire postumano si rivolge alla mia coscienza femminista, perché il mio sesso, storicamente parlando, non ha mai del tutto preso parte all’umanità, ecco perché la mia fedeltà a tale categoria resta negoziabile e mai data per scontata».
Certo, la disponibilità e la scelta di questo scenario andrebbero interrogate ancora. O forse si potrebbe concludere che in fondo, essendo «il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili».
Rosi Braidotti e la metamorfosi del postumano
L’inganno dell’universalismo
Questo non significa che non ci siano state articolazioni anche antitetiche nella sua concettualizzazione da parte di diverse scuole di pensiero. Per Braidotti, però, il soggetto caro alla filosofia occidentale è stato una cortina fumogena tesa a occultare gerarchie e rapporti di potere presenti nelle società. E se il femminismo ha letto il conflitto tra i sessi a partire di un punto di vista politico partigiano, quello delle donne, i movimenti postcoloniali hanno sottoposto a critica la pretesa normativa dell’universalismo occidentale nei confronti di uomini e donne non occidentali.Rosi Braidotti non ha mai nascosto i debiti nei confronti della tradizione filosofica. Nel suo posizionamento rispetto ad essa non ha mai taciuto di aver attinto al pensiero illuminista, né ha mai taciuto la sua collocazione politica, che l’ha portata a leggere con attenzione i testi del pensiero critico, sia nella sua versione marxiana che francofortese. In questo Postumano si dilunga diffusamente sulla cangiante costellazione culturale che ha orientato il suo percorso teorico. Emerge una successione di testi e filosofi che può creare smarrimento, ma che per Rosi Braidotti è da intendere come un metodo per segnalare le tappe, mai un punto di arrivo della sua produzione teorica. In fondo, è suo quel concetto di soggetto nomade che ha appartenenze multiple, sempre in divenire, che può tuttavia «posizionarsi» criticamente rispetto il reale.
Nel «postumano» proposto dalla filosofa italiana occupano un posto rilevante le trasformazioni intervenute da quando la scienza e la tecnologia sono sempre più usate per potenziare il corpo umano o per prolungare la vita biologica di uomini e donne. Sono temi che Rosi Braidotti ha affrontato spesso nel suo percorso teorico. Sono note le sue riflessioni sulla figura del cyborg, così come le sue incursioni nel territorio pieno di insidie della manipolazione biotecnologica del corpo. Ogni volta sono state messe in discussione le coppie analitiche di natura e cultura, di naturale e artificiale. Ma mai la filosofa italiana ha superato il confine che distingue l’umano dall’inumano. Con questo libro, il confine è invece oltrepassato. Affermare che occorre fare i conti con il postumano significa quindi inoltrarsi in un territorio abitato da essere viventi che sono il prodotto di una manipolazione tecnologica dei materiali biologici che compongono il proprio corpo. Sono cioè corpi assemblati, scomposti e ricomposti. La tecnologia è da interpretare sia come una protesi che innesto nel corpo. La manipolazione del Dna, invece, consente di modellare il corpo come meglio si crede; lo stesso si può dire per la medicina, che non solo consente di prolungare la vita biologica, ma di scomporre la morfologia del corpo umano. Tutto ciò, sottolinea, Rosi Braidotti modifica, trasforma, sovverte la produzione della soggettività, cioè il modo di stare al mondo di uomini e donne. In altri termini, la figura di Proteo non ha nulla delle caratteristiche drammatiche della tradizione filosofica greca. Una volta che si è appropriato della conoscenza prerogativa degli dei, l’essere umano è diventato un ibrido di materiale organico e inorganico che che modifica a sua immagine e somiglianza la natura. Può quindi fare a meno degli dei, al punto che può sconfiggere la morte.
Rosi Braidotti non è una nichilista che vuole legittimare la realtà. Vuol delineare i campi di intervento di una etica pubblica della condizione postumana, che viene continuamente qualificata – nel volume sono presenti più definizioni del postumano, proprio a sottolineare che la sua è una ricognizione sempre in divenire delle diverse teoriche sul postumano — e interrogata nelle sue conseguenze. È cioè consapevole della necessità di regolamentare, ad esempio, la manipolazione del Dna, ma avverte che questo non può significare porre dei limiti alla ricerca scientifica. Allo stesso tempo l’elaborazione di una etica pubblica sul postumano deve evidenziare il lato oscuro, cioè la riduzione del corpo a merce che può essere scomposta, smembrata, venduta e riassemblata secondo rapporti di potere che vede sempre dei dominanti e dei dominati. Anche in questo caso, però, non possono essere posti dei limiti alla autodeterminazione del proprio corpo. È su questo doppio movimento – libertà di manipolare il corpo e rapporti di potere esistenti nel vivere in società — che una filosofia materialistica del postumano deve prendere posizione.
L’organico e l’artificiale
Un libro dunque ambizioso e importante, perché teso ad evidenziare appunto le trasformazioni avviate dall’uso intensivo della scienza e della tecnologia. Rosi Braidotti ritiene infatti che integrazione tra organico e artificiale sia già alle nostre spalle. Il pensiero critico devo quindi indagare le trasformazione già intervenute. Sulla riduzione del corpo umano a macchina l’analisi di Rosi braidotti è puntuale. Significative sono anche le pagine dedicate alla produzione di soggettività. Assente, però, è come il postumano sia una componente fondamentale della produzione di ricchezza. Il cyborg, così come il soggetto nomade, sono fattori costituenti del regime di accumulazione capitalistico. Il potenziamento delle facoltà manuali e cognitive degli umani è ovviamente funzionale a ritmi di lavoro sempre più intensi e a processi produttivi sempre più complessi. Inoltre, la mappatura del Dna diventa la condizione necessaria sia per lo sviluppo di nuovi settori economici che per innovare l’industria farmaceutica. Allo stesso tempo il soggetto nomade è la figura indispensabile per una economia fondata sulla flessibilità. Un’etica pubblica sul postumano non può dunque che prendere posizione su un regime di sfruttamento che fa della simbiosi tra umano e macchinico il suo tratto distintivo.Oltre la gabbia del soggetto
La retorica del nuovo fa parte del programma di consumismo sfrenato e maniacale del capitalismo avanzato. C’è una tensione tra il potenziale gigantesco delle nuove tecnologie che hanno come meta il controllo del vivente e di tutte le sue forme, e l’uso monodirezionale che ne viene fatto dal capitalismo — per cui il capitale è la vita stessa. E soprattutto il fatto che hanno riallacciato questa molteplicità complessa alla nozione più restrittiva possibile di individualismo, associandoci una morale molto stanca, la classica morale neokantiana umanistica, che sta andando alla grande. Viviamo in un’epoca moralizzatrice, cruenta e contraddittoria. Quindi io non voglio cadere nel discorso antiquato della tecnofobia che prevede la tecnologia come strumento di dominio perché non ci credo; sono stata allieva di Foucault e il potere non è mai a senso unico. Queste tecnologie sono al tempo stesso liberatorie e strumenti di morte e di distruzione. Abbiamo droni, telefonini, fecondazione assistita e poi i morti al largo di Lampedusa; sono versanti della stessa medaglia e noi dobbiamo pensare alla contemporaneità e agli effetti del potere, molteplici e contraddittori. La forza liberatrice della tecnologia è, e dev’essere, fonte di esperimenti. Sperimentare alcune di queste tecnologie, nei limiti del possibile, sarebbe per me una specie di ridefinizione di ciò che la filosofia dovrebbe fare. Ci occorrono laboratori fondamentali con i quali ricostituire comunità di sapere ma anche di saper fare a partire da queste tecnologie. Inoltre non sono contraria a priori alle modificazioni genetiche. Penso per esempio alla biologia sintetica che è riuscita a fare le prime porzioni di carne artificiale. Si metterebbe in discussione l’obiezione morale di vegani e vegetariani, visto infatti che non è carne da macello di organismi viventi. C’è poi un laboratorio molto forte e bello riguardo i disabilities studies che stanno andando in direzioni molto più interessanti rispetto ad esempio agli studi sulla sessualità in generale, proprio perché i corpi sono già modificati.
Tra le trappole dell’appropriazione neoliberale della tecnologia, c’è una piega che concerne ciò che in Trasposizioni (2006) chiami tecno-utopismo dell’ambiente accademico. Cosa intendi con questa forma di mistificazione?
Negli anni Novanta, alla fine dell’ondata dei cultural studies e più o meno all’inizio della svolta queer, c’è stato un momento di grande euforia verso le tecnologie. Le tecno-utopie sono state da una parte importanti perché ci hanno permesso di combattere quel disfattismo tecnofobico che per me fa sempre parte di una certa cultura di sinistra seguendo il ragionamento tecnologia=potere=proprietà di qualcuno=lotta di classe; equivalenze che fanno parte della mia giovinezza; sono una donna di sinistra, vengo dal femminismo e so, insieme a Foucault, che il potere è sempre più complicato di questo. Ci sono altre modalità di pensiero per le quali fondamentale è il manifesto del 1985 di Donna Haraway. Il manifesto cyborg che nella versione originale è sottotitolato come manifesto socialista e femminista, completamente svanito nella nuova edizione. Trovo invece che sia molto importante ripensarlo perché era un socialismo come possibilità di comunità a venire. Ci è voluto qualche annetto per capire la mutazione del capitalismo in un sistema di ri-formazione e ri-creazione del vivente. Nel politico siamo nella confusione più totale; da una parte il capitalismo si è dato una pratica post-antropocentrica, ha equiparato tutte le specie, tutte le forme viventi, alla logica del profitto. Se tu guardi la robotica per esempio, non stiamo clonando solo il sistema neuronale e sensoriale dell’umano ma anche il fiuto dei cani, il radar e il sonar di delfini e pipistrelli. Cioè il nostro corpo è un apparato piuttosto antiquato rispetto ad altre specie animali. Quindi c’è un postumano di fatto, però nel discorso pubblico siamo ancora ad una forma di conservatorismo neoumanista, con una moralizzazione terrificante e forme di reazione assolutamente inquietanti. Invece di tecno-utopie ci sono da fare delle mappature, delle cartografie critiche di queste contraddizioni. Per evitare anche di ripetere una morale stanca che da Nietzsche in poi abbiamo criticato in filosofia. Anche con la faccia sorridente di papa Francesco e quella — meno piacevole — di Renzi, non si può tornare a pratiche di una vita definita sotto l’egemonia dell’umanesimo in un’epoca in cui il capitalismo ci ha dato un post-antropocentrismo perverso; non è giusto, questa è una beffa molto crudele che rischiamo di pagare caro. Quindi dobbiamo riferirci ad un’etica postumana, questa è la mia linea. Non possiamo pensare ai droni, ai computer che fanno i calcoli in borsa nella cornice della morale kantiana, dobbiamo cominciare a inserire nel loro programma domande di natura etica in grado di farli perdere in velocità ed efficacia, di non farli funzionare più. Quando i droni israeliani sparano nei territori occupati non stanno ad aspettare o a interrogarsi. Quando Google-earth deve cancellare dalle sue foto satellitari le corse dei droni, che sono centinaia, i test morali risultano inutili. Quindi piantiamola con questa faccenda; bisogna rallentare tutto e cambiare il verso di queste tecnologie, sperimentare un’altra etica. Ma questa combinazione di post-antropocentrismo capitalista e neoumanesimo sociale è una catastrofe. Ci risucchia energie e funziona: questa morale la capiscono tutti; tipo quella della cura; dunque “abbi cura”, poi però quelle che devono aver cura sono sempre le donne.
Il posizionamento femminista nel libro ha molti piani perché ha vari obiettivi. Uno di questi è costruire delle cartografie ragionate attraverso cui comprendere come siamo arrivati a questo scavalcamento dell’umano. Un altro obiettivo è quello di portare la questione della differenza nel postumano. Il terzo è quello spinozista-monista di sperimentare nuove etiche, nuove comunità, nuove cosmologie; cioè pensare, essendo stata allieva di Deleuze, nuove forme per leggere il presente. Il punto di partenza è la critica al soggetto unitario. La teoria del prendersi cura di Gilligan, Tronto e di molti altri resta all’interno di un pensiero liberale nella stragrande maggioranza dei casi. Le temporalità che ci abitano come soggetti sono diffusissime; dalla temporalità cronologica a quella circolare da Nietzsche in poi a quella transpecie fino ad arrivare a temporalità di memorie protesiche. Non possiamo tornare all’uno. Il mio problema con la cura è stato questo. Il pezzo che tu citi io lo chiamo momento di opera rock. Sono momenti abbastanza diffusi nel libro in cui metto in scena il mio pensiero nomade dicendo essenzialmente che io uomo non lo sono mai stata e non ho mai voluto esserlo. Non uno, non lui, non quello, non così. Mai. Io sono della generazione della differenza che è stata una spaccatura dall’umanismo, da quell’uno, uomo, bianco, maschio, eterosessuale da cui hai cominciato giustamente l’intervista. Questo è stato il mio orizzonte. Noi siamo sempre state le lupe che correvano nella notte, ululando giustizia ma anche rabbia, amore, felicità insieme a tutto il resto. Quindi c’è questa parte di me che credo sia non solo generazionale ma proprio concettuale e teorica che non si è mai immedesimata con quell’uno. Ciò non significa che non abbiamo cura dell’altro. Il contenimento dell’altro in un’ottica spinoziana e deleuziana (c’è anche Irigaray ma è un caso più complicato) consiste in una specificazione reciproca. Autogestiamo la nostra specificazione, definiamoci in quanto postumani, collettivamente e uno in rapporto all’altro, una in rapporto alle altre, su momenti di pratica molto precisi. C’è un postumano nella teoria, c’è un postumano nella pratica, c’è un postumano nell’etica, ci sono momenti e praxis concrete e immanenti che ci permettono di autodefinirci.
Molta della tua riflessione si è concentrata verso le scienze umane e una idea specifica di università o, come la chiami, multiversità. Penso al quarto capitolo di Il Postumano. In considerazione degli alti livelli di mediazione tecnologica da un lato e delle strutture del mondo globalizzato dall’altro, auspichi una metamorfosi epistemologica delle scienze umane. Intanto partendo da un assunto che è quello che muove la tua intera riflessione filosofica, e cioè il realismo di una materia capace di affetti, autogestione e autopoiesi. Intercetti dunque la teoria femminista come cruciale punto di riferimento metodologico e teoretico. Anche nelle scienze umane postumane, è ancora una volta il femminismo a fare la differenza?
Assolutamente. Non mi preoccupo del femminismo come movimento politico che sta procedendo molto bene soprattutto grazie alle giovani femministe sparse nel mondo. A livello di pensiero però le metodologie femministe, nonostante l’esistenza di women’s studies e gender studies, non sono passate all’interno delle università. Secondo me la metodologia fondamentale è quel partire da sé, che però io coniugo con la dissoluzione del Sé. Quindi partire da un Sé che non è mai uno ma già una relazione. Un sapere situato è rendere conto del proprio posizionamento e non parlare in maniera universalistica e generale, per non aspirare neppure a quelle mega-teorie del tutto di cui una buona fetta della sinistra è ancora molto innamorata. La teoria della rivoluzione per esempio, del “o cambiamo tutto o non vale la pena di cambiare niente” produce un assolutismo che mi preoccupa molto. Il femminismo è sempre stato molto più pratico e molto più efficace: si cambia il vivente a partire da sé, il personale è politico e le relazioni sono al cuore di tutto. Trovo che il monismo spinoziano si coniughi perfettamente con questa politica situata. C’è in questo momento, a livello di pensiero, una strana cancellazione del femminismo soprattutto da parte dell’università, la quale tuttavia cancella un po’ tutto il Ventesimo secolo ma anche di quello che resta della sinistra. Diciamo dal 1989 in poi, se si guardano autori che i miei studenti (soprattutto maschi) amano, per esempio Žižek, Badiou ma lo stesso Negri, si può notare come questi ultimi abbiano cancellato il femminismo. Non lo citano mai come esempio di un movimento che ha reinventato il politico. Žižek ci va giù pesante, siamo al meglio un piccolo movimento culturale che non ha capito niente; Badiou ancora peggio; un paio di note di Negri in un libro (La differenza italiana, Nottetempo 2005) in cui scrive di Muraro, certo, ma si arrabattano e non riconoscono il femminismo come un laboratorio di pratiche. E questo è un dramma perché lì c’è un dialogo e contaminazioni reciproche che sono saltate. Per finire, c’è anche da dire che la sinistra, in particolare la scuola italiana di studi critici sul capitalismo (per esempio Virno, Lazzarato, Mezzadra), potrebbero osare, sperimentare di più con scienza e corpi. In questo perfino Foucault non è riuscito, il suo maestro Canguilhem era più attento di lui. Noi avremmo molto da dire a riguardo, abbiamo avuto una serie di geni, tra cui spicca Haraway, ma anche la scuola italiana di Gagliasso, che la scienza l’hanno capita benissimo. Insieme a queste ci sono pure molte economiste femministe che sostengono che il capitale è oggi la vita, nient’altro che i codici informativi del vivente; un’affermazione che cambia tutti i giochi. Quindi ci sono come degli anelli mancanti. Mi sembra che in Italia sia un momento in cui si deve riflettere su cosa conta come gesto politico. Il fatto per esempio che il femminismo sia stato rimosso da un movimento politico che poi lamenta che non abbiamo modelli di politica mi rende davvero furiosa. Soprattutto quando si devono ricevere accuse come “voi non avete fatto niente”, in un momento in cui io vedo risorgere una violenza che mi preoccupa molto. Dalla prima pallottola la vostra rivoluzione non ci interessa più. Giravano slogan come questi negli anni ‘70 e qui stiamo tornando a una rabbia nichilista che minimizza sbrigativamente ciò che il femminismo ha prodotto come modello alternativo di politica. Su questo credo che l’Italia abbia qualcosa su cui riflettere. O ci ascoltate o non contate su di noi per fare una rivoluzione antiquata che farà soltanto il gioco delle leggi speciali della repressione e non servirà a niente. Sulla questione del postumano dunque mi sembra che stiamo assistendo, in questo momento di sgomento e rabbia dovuti alla crisi, alla riproposizione dell’antropocentrismo e narcisismo della sinistra. Rimuovere il femminismo apre la porta alla violenza, soprattutto contro le donne, insieme al ritorno di una violenza rivoluzionaria che ha già fallito e che non mi pare il caso di riproporre.
La rabbia che proviamo quando subiamo o assistiamo a un’ingiustizia è una passione che deve permetterci di sostenere il presente, di modificarlo a seconda dei nostri desideri, invece di disperderla in inefficaci atti nichilisti, noi possiamo trasformarla in affetto positivo. Investiamo nella ricerca di alleanze trasversali, di sinergie inedite, elaboriamo saperi comuni lontani dalle logiche del profitto, contaminiamoci e diffondiamo micro-politiche alternative ai modelli dominanti, stili di vita ecosostenibili, antisessesisti e antirazzisti.
Non voglio più eroi morti.
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