mercoledì 29 gennaio 2014

Post-umano o umano troppo umano?

Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte
A occhio e croce, la consueta scoperta di un'acqua calda che rimane a da migliaia di anni e in particolare dal XIX secolo [SGA].

Rosi Braidotti: Il postumano. La vita oltre il sé, oltre la specie, oltre la morte, traduzione di Angela Balzano, pagine 256 euro 18,00 DeriveApprodi

Risvolto

La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto ciò ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, mettendo in mostra la base non naturalistica dell’umanità contemporanea.

Sul piano della teoria politica e filosofica, urge adeguare le categorie di comprensione delle identità e dei fenomeni sociali a partire da questo salto. Sul piano dell’analisi, dopo aver constatato la fine dell’umanesimo, occorre vedere in questa trasformazione le insidie di una colonizzazione della vita nel suo complesso da parte dei mercati e della logica del profitto.

Occorre dunque adeguare la teoria ai cambiamenti in atto, senza rimpianti per un’umanità ormai perduta e cogliendo le opportunità offerte dalle forme di neoumanesimo che scaturiscono dagli studi di genere, postcoloniali e dai movimenti ambientali.



L’era confusa dei postumani

Un’avanzata di soggetti assemblati il cui obiettivo è occupare spazi di vita Anticipiamo brani del nuovo libro di Braidotti sulla realtà attuale, dimensione che impone la necessità di pensare allo statuto dell’umano e di riformulare la questione della soggettività
di Rosi Braidotti l’Unità 29.1.14


NON TUTTI POSSIAMO SOSTENERE, CON UN BENCHÉ MINIMO SENSO DI CERTEZZA, CHE SIAMO GIÀ DIVENTATI POSTUMANI, o che non siamo null’altro all’infuori di questo. Alcuni di noi continuano a sentirsi molto legati all’umano, quella creatura che ci è tanto familiare da tempo immemore, la quale in quanto specie, presenza planetaria e formazione culturale, ha saputo sviluppare un particolare tipo di comunità. Neppure possiamo spiegare con alcun grado di precisione, grazie a quale contingenza storica, attraverso quali vicissitudini intellettuali o quali svolte del destino, siamo entrati nell’universo postumano. Ciononostante, l’idea di postumano gode oggi, nell’era nota come antropocene, di ampio consenso. Suscita esaltazione e ansia al contempo, e provoca rappresentazioni culturali assai polemiche. (...) La situazione postumana impone la necessità di pensare nuovamente, e più a fondo, allo statuto dell’umano, di riformulare di conseguenza la questione della soggettività, così come impone il bisogno di inventare forme di relazione etiche, norme e valori adeguati alla complessità di questi tempi. (...)

Il divenire postumano è un processo di ridefinizione del senso di connessione verso il mondo condiviso e l’ambiente: urbano, sociale, psichico, ecologico o planetario che sia. Esso esprime multiple ecologie dell’appartenenza, mentre innesca la trasformazione delle coordinate sensoriali e percettive, al fine di riconoscere la natura collettiva e l’apertura verso l’esterno di ciò che ancora chiamiamo soggetto. Tale soggetto è infatti un assemblaggio mobile in uno spazio di vita condiviso che non controlla né possiede, ma che semplicemente occupa, attraversa, sempre in comunità, in gruppo, in rete. Per la teoria postumana il soggetto è un’entità trasversale, pienamente immersa in e immanente a una rete di relazioni non umane (animali, vegetali, virali). Il soggetto incarnato zoe-centrato è preso in collegamenti relazionali di tipo virale e contagioso che lo interconnettono a una vasta gamma di altri, partendo dagli eco-altri fino a includere l’apparato tecnologico. (...)

E se la coscienza fosse solo un altro modello cognitivo di rapportarsi al proprio ambiente e agli altri? E se, a confronto con l’abilità immanente degli animali, l’autorappresentazione cosciente fosse contaminata dal delirio della trascendenza e di conseguenza accecata dalla sua stessa aspirazione all’autotrasparenza? E se la coscienza fosse, in ultima istanza, incapace di trovare un rimedio al suo male oscuro, questa vita, zoe, una forza impersonale che ci muove senza chiedere il nostro permesso di farlo? Zoe è una forza inumana che si estende oltre la vita, verso nuovi approcci vitalisti alla morte intesa come evento impersonale.

LA SPINTA ETICA
Quest’ontologia processuale centrata sulla vita conduce il soggetto postumano a confrontarsi lucidamente con i suoi limiti, senza cedere al panico o alla malinconia. Si afferma una spinta etica laica verso modalità di relazione che migliorano e conservano la propria capacità di rinnovare e ampliare i confini di cosa i soggetti nomadi e trasversali possono diventare. L’ideale etico è quello di attualizzare gli strumenti cognitivi, affettivi e sensoriali per coltivare un maggior grado di responsabilizzazione e di affermazione delle interconnessioni di ciascuno nella loro molteplicità. La selezione delle forze affermative che catalizzano il processo del divenire postumano è regolata da un’etica della gioia e della positività che opera tramite la trasformazione delle passioni negative in passioni positive.
Filosofia del fuori in senso stretto, di spazi aperti e di affermazioni incarnate, il pensiero postumano nomade anela a un salto di qualità fuori dal familiare, confida nelle possibilità, ancora inesplorate, aperte dalla nostra posizione storica nel mondo tecnologicamente mediato di oggi. È un modo per essere all’altezza dei nostri tempi, per accrescere la nostra libertà e la nostra comprensione delle complessità che viviamo, in questo mondo non più antropocentrico né antropomorfo, bensì geopolitico, eco-filosofico e fieramente zoe-centrato. (...)
La corporalità umana e la soggettività stanno oggi vivendo una profonda trasformazione. Come chiunque viva in un’epoca di cambiamenti, non siamo sempre lucidi e attenti rispetto a dove ci stiamo dirigendo, o capaci di spiegare cosa sta esattamente avvenendo intorno a noi. Alcuni di questi eventi provocano in noi soggezione e paura, mentre altri ci fanno sussultare per la gioia: come se il nostro contesto attuale continuasse a spalancare le porte della percezione collettiva, costringendoci a udire il frastuono dell’energia cosmica che si trova dall’altro lato del silenzio e ad ampliare la portata di ciò che è diventato possibile. (...)
Eppure la pecora Dolly è reale, non è un personaggio della fantascienza ma il risultato della ricerca scientifica, dell’immaginario sociale attivo e di solidi investimenti finanziari. Nonostante sia noto come Blade Runner, Oscar Pistorius non sogna pecore elettroniche. Le reti di trasporti globali nei maggiori centri metropolitani ci hanno abituato a treni senza conducenti e i dispositivi elettronici portatili sono così potenti che stentiamo a tenere il passo con loro. Umane, troppo postumane, tutte queste estensioni e queste protesi che i nostri corpi sono in grado di sostenere sono già qui e qui resteranno. Stiamo andando al passo con i nostri sé postumani, o vogliamo continuare a indugiare in una cornice teorica e immaginativa sospesa e confusa rispetto all’ambiente reale in cui viviamo? Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire una versione disutopica del peggiore degli incubi modernisti. Non è neppure il delirio transumanista della trascendenza dai corpi umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo immersi: l’immanente hic et nunc del pianeta postumano; uno dei possibili mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili.


Il tramonto dell’umano
Nel suo nuovo volume, The Posthu­man (Polity Press, 2013), pro­se­gue il suo pro­getto di inter­ro­ga­zione sfron­dando alcuni malin­tesi attorno appunto alla con­di­zione postu­mana. Ci è dun­que pre­ziosa la recen­tis­sima tra­du­zione ita­liana a cura di Angela Bal­zano, per­ché Il postu­mano. La vita oltre l’individuo, oltre la spe­cie, oltre la morte (Derive Approdi, pp. 220, euro 17,00) risulta un con­tri­buto forte per con­fron­tarsi con il pre­sente. Ci si chia­rirà meglio cosa si intende per postu­mano e si capirà che non si tratta di qual­cosa mera­mente rele­gato alla lunga sequela di post, bensì a quell’oltre che rie­cheg­gia già nel sottotitolo.
Il postu­mano di cui intende occu­parsi Brai­dotti non può che essere cri­tico, lon­tano dal disfat­ti­smo rela­ti­vi­sta e nichi­li­sta ma anche dalla fede per­ni­ciosa verso l’individualismo. Nella costel­la­zione genea­lo­gica della filo­sofa, con­ti­nuano ad avere un posto pre­di­letto la poli­tica fem­mi­ni­sta della col­lo­ca­zione, il dibat­tito sull’Europa e dun­que sulla cit­ta­di­nanza fles­si­bile, le posi­zioni post­co­lo­niali e ovvia­mente i rife­ri­menti a Fou­cault, Iri­ga­ray e Deleuze. Ciò detto, nelle car­to­gra­fie pro­po­ste, l’assunto da cui si parte è una mate­ria dotata di intel­li­genza, tra­dotta in un moni­smo che sistemi la dif­fe­renza al di là dell’opposizione dialettica.
La rifles­sione è chia­rita dalle prime pagine: la con­di­zione postu­mana, carica spesso di posi­zioni dif­fi­cili da con­ci­liare, deve anzi­tutto tener conto del tra­monto dell’umanesimo clas­si­ca­mente inteso al fine di discu­tere di una sog­get­ti­vità edi­fi­cata sul mate­ria­li­smo vita­li­sta, di chiara ere­dità spi­no­zi­sta, anche cono­sciuto come imma­nenza radi­cale o, come verrà pre­ci­sato in seguito, rea­li­smo della mate­ria. Si capi­sce bene come il taglio del postu­mano indi­chi anche un altro con­gedo: quello dall’antropocentrismo.
Tutto ciò attiene in qual­che modo al tratto noma­dico? Certo che sì. Il sog­getto postu­mano di cui parla Brai­dotti non può che essere già nomade. E non uni­ta­rio, rela­zio­nale, deter­mi­nato nella e dalla mol­te­pli­cità, respon­sa­bile e radi­cato. A que­sta altezza, la filo­sofa si con­fronta con alcuni aspetti spe­ci­fici di un pre­sente che muta repen­ti­na­mente: dalla bio­ge­ne­tica alla necro­po­li­tica finan­zia­ria e a una certa tana­to­lo­gia dell’avanzamento capi­ta­li­stico, fino alla media­zione tec­no­lo­gica e infor­ma­tica a volte sfre­nate. Sono molte le ecce­denze che il postu­mano fa emer­gere e che vanno dap­prima sco­perte e poi inda­gate. Colme di oriz­zonti da esplo­rare, non rac­con­tano però solo dello sfa­scio che ci distin­gue ma della pos­si­bi­lità di situarci affer­ma­ti­va­mente attra­verso una teo­ria cri­tica e crea­tiva, al tempo stesso capace di smar­carsi da approcci par­ziali; da quello reat­tivo che con­cerne la filo­so­fia morale (Nus­sbaum) al più ana­li­tico che arriva dai science and tech­no­lo­gies stu­dies (Frank­lin, Lury e Sta­cey, ma anche Rose e Verbeek).
Brai­dotti sta invece dalla parte di una teo­ria che declini l’alfabeto della radi­ca­lità anti­u­ma­ni­sta, e che non pati­sca per la fine dell’Uomo come canone vitru­viano di per­fe­zione, o costrutto sociale uni­ver­sa­li­sta, vio­lento e nello spe­ci­fico euro­cen­trico. Per­ché è pro­prio in quel sol­lievo che alberga la spe­ranza di non abban­do­narsi alla deriva di qual­che cosa che sì, dovrebbe pro­prio atter­rirci: il disu­mano e le sue aber­ra­zioni. Gli esempi offerti dalla filo­sofa sono molti ma citiamo per esem­pio la repli­ca­zione e appro­pria­zione della morte, le tor­ture mani­po­la­to­rie e i can­ni­ba­li­smi inferti ai viventi – umani e non. Tanto per trac­ciare una prima mappa di orien­ta­zione. «Il sapere postu­mano – e i sog­getti che ne sono por­ta­tori» sot­to­li­nea «sono carat­te­riz­zati da una aspi­ra­zione di fondo verso i prin­cipi che ten­gono unita la comu­nità, e ten­tano per­tanto di evi­tare le trap­pole della nostal­gia con­ser­va­trice e dell’euforia neoliberale».
In que­sto senso, la con­di­zione postu­mana è intra­vi­sta come un’occasione per tro­vare nuovi schemi di sapere e risorse di auto­rap­pre­sen­ta­zione diversi da quelli cor­renti. Fino al ripen­sa­mento delle stesse scienze umane, pros­sime all’estinzione se non saranno capaci di seguire un pro­cesso sostan­ziale di tra­sfor­ma­zione che il pre­sente chiede con il salto in una più effi­cace mul­ti­ver­sità. Nel com­plesso pro­cesso di meta­mor­fosi, Brai­dotti invita così ad attrez­zarci di stru­menti ade­guati, dopo aver appreso che l’approssimarsi del sog­getto alla zoe non può che essere postan­tro­po­cen­trico. Dun­que incar­nare un corpo di donna cor­ri­sponde ancora ad avver­tirsi «gene­ra­trice del futuro»? In que­sto solco, lei stessa con­ferma: «Il dive­nire postu­mano si rivolge alla mia coscienza fem­mi­ni­sta, per­ché il mio sesso, sto­ri­ca­mente par­lando, non ha mai del tutto preso parte all’umanità, ecco per­ché la mia fedeltà a tale cate­go­ria resta nego­zia­bile e mai data per scontata».
Certo, la dispo­ni­bi­lità e la scelta di que­sto sce­na­rio andreb­bero inter­ro­gate ancora. O forse si potrebbe con­clu­dere che in fondo, essendo «il risul­tato dei nostri sforzi con­giunti e dell’immaginario col­let­tivo, è sem­pli­ce­mente il migliore dei mondi postu­mani possibili».


Rosi Braidotti e la metamorfosi del postumano

L’inganno dell’universalismo

Que­sto non signi­fica che non ci siano state arti­co­la­zioni anche anti­te­ti­che nella sua con­cet­tua­liz­za­zione da parte di diverse scuole di pen­siero. Per Brai­dotti, però, il sog­getto caro alla filo­so­fia occi­den­tale è stato una cor­tina fumo­gena tesa a occul­tare gerar­chie e rap­porti di potere pre­senti nelle società. E se il fem­mi­ni­smo ha letto il con­flitto tra i sessi a par­tire di un punto di vista poli­tico par­ti­giano, quello delle donne, i movi­menti post­co­lo­niali hanno sot­to­po­sto a cri­tica la pre­tesa nor­ma­tiva dell’universalismo occi­den­tale nei con­fronti di uomini e donne non occidentali.
Rosi Brai­dotti non ha mai nasco­sto i debiti nei con­fronti della tra­di­zione filo­so­fica. Nel suo posi­zio­na­mento rispetto ad essa non ha mai taciuto di aver attinto al pen­siero illu­mi­ni­sta, né ha mai taciuto la sua col­lo­ca­zione poli­tica, che l’ha por­tata a leg­gere con atten­zione i testi del pen­siero cri­tico, sia nella sua ver­sione mar­xiana che fran­co­for­tese. In que­sto Postu­mano si dilunga dif­fu­sa­mente sulla can­giante costel­la­zione cul­tu­rale che ha orien­tato il suo per­corso teo­rico. Emerge una suc­ces­sione di testi e filo­sofi che può creare smar­ri­mento, ma che per Rosi Brai­dotti è da inten­dere come un metodo per segna­lare le tappe, mai un punto di arrivo della sua pro­du­zione teo­rica. In fondo, è suo quel con­cetto di sog­getto nomade che ha appar­te­nenze mul­ti­ple, sem­pre in dive­nire, che può tut­ta­via «posi­zio­narsi» cri­ti­ca­mente rispetto il reale.
Nel «postu­mano» pro­po­sto dalla filo­sofa ita­liana occu­pano un posto rile­vante le tra­sfor­ma­zioni inter­ve­nute da quando la scienza e la tec­no­lo­gia sono sem­pre più usate per poten­ziare il corpo umano o per pro­lun­gare la vita bio­lo­gica di uomini e donne. Sono temi che Rosi Brai­dotti ha affron­tato spesso nel suo per­corso teo­rico. Sono note le sue rifles­sioni sulla figura del cyborg, così come le sue incur­sioni nel ter­ri­to­rio pieno di insi­die della mani­po­la­zione bio­tec­no­lo­gica del corpo. Ogni volta sono state messe in discus­sione le cop­pie ana­li­ti­che di natura e cul­tura, di natu­rale e arti­fi­ciale. Ma mai la filo­sofa ita­liana ha supe­rato il con­fine che distin­gue l’umano dall’inumano. Con que­sto libro, il con­fine è invece oltre­pas­sato. Affer­mare che occorre fare i conti con il postu­mano signi­fica quindi inol­trarsi in un ter­ri­to­rio abi­tato da essere viventi che sono il pro­dotto di una mani­po­la­zione tec­no­lo­gica dei mate­riali bio­lo­gici che com­pon­gono il pro­prio corpo. Sono cioè corpi assem­blati, scom­po­sti e ricom­po­sti. La tec­no­lo­gia è da inter­pre­tare sia come una pro­tesi che inne­sto nel corpo. La mani­po­la­zione del Dna, invece, con­sente di model­lare il corpo come meglio si crede; lo stesso si può dire per la medi­cina, che non solo con­sente di pro­lun­gare la vita bio­lo­gica, ma di scom­porre la mor­fo­lo­gia del corpo umano. Tutto ciò, sot­to­li­nea, Rosi Brai­dotti modi­fica, tra­sforma, sov­verte la pro­du­zione della sog­get­ti­vità, cioè il modo di stare al mondo di uomini e donne. In altri ter­mini, la figura di Pro­teo non ha nulla delle carat­te­ri­sti­che dram­ma­ti­che della tra­di­zione filo­so­fica greca. Una volta che si è appro­priato della cono­scenza pre­ro­ga­tiva degli dei, l’essere umano è diven­tato un ibrido di mate­riale orga­nico e inor­ga­nico che che modi­fica a sua imma­gine e somi­glianza la natura. Può quindi fare a meno degli dei, al punto che può scon­fig­gere la morte.
Rosi Brai­dotti non è una nichi­li­sta che vuole legit­ti­mare la realtà. Vuol deli­neare i campi di inter­vento di una etica pub­blica della con­di­zione postu­mana, che viene con­ti­nua­mente qua­li­fi­cata – nel volume sono pre­senti più defi­ni­zioni del postu­mano, pro­prio a sot­to­li­neare che la sua è una rico­gni­zione sem­pre in dive­nire delle diverse teo­ri­che sul postu­mano — e inter­ro­gata nelle sue con­se­guenze. È cioè con­sa­pe­vole della neces­sità di rego­la­men­tare, ad esem­pio, la mani­po­la­zione del Dna, ma avverte che que­sto non può signi­fi­care porre dei limiti alla ricerca scien­ti­fica. Allo stesso tempo l’elaborazione di una etica pub­blica sul postu­mano deve evi­den­ziare il lato oscuro, cioè la ridu­zione del corpo a merce che può essere scom­po­sta, smem­brata, ven­duta e rias­sem­blata secondo rap­porti di potere che vede sem­pre dei domi­nanti e dei domi­nati. Anche in que­sto caso, però, non pos­sono essere posti dei limiti alla auto­de­ter­mi­na­zione del pro­prio corpo. È su que­sto dop­pio movi­mento – libertà di mani­po­lare il corpo e rap­porti di potere esi­stenti nel vivere in società — che una filo­so­fia mate­ria­li­stica del postu­mano deve pren­dere posizione.

L’organico e l’artificiale

Un libro dun­que ambi­zioso e impor­tante, per­ché teso ad evi­den­ziare appunto le tra­sfor­ma­zioni avviate dall’uso inten­sivo della scienza e della tec­no­lo­gia. Rosi Brai­dotti ritiene infatti che inte­gra­zione tra orga­nico e arti­fi­ciale sia già alle nostre spalle. Il pen­siero cri­tico devo quindi inda­gare le tra­sfor­ma­zione già inter­ve­nute. Sulla ridu­zione del corpo umano a mac­china l’analisi di Rosi brai­dotti è pun­tuale. Signi­fi­ca­tive sono anche le pagine dedi­cate alla pro­du­zione di sog­get­ti­vità. Assente, però, è come il postu­mano sia una com­po­nente fon­da­men­tale della pro­du­zione di ric­chezza. Il cyborg, così come il sog­getto nomade, sono fat­tori costi­tuenti del regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stico. Il poten­zia­mento delle facoltà manuali e cogni­tive degli umani è ovvia­mente fun­zio­nale a ritmi di lavoro sem­pre più intensi e a pro­cessi pro­dut­tivi sem­pre più com­plessi. Inol­tre, la map­pa­tura del Dna diventa la con­di­zione neces­sa­ria sia per lo svi­luppo di nuovi set­tori eco­no­mici che per inno­vare l’industria far­ma­ceu­tica. Allo stesso tempo il sog­getto nomade è la figura indi­spen­sa­bile per una eco­no­mia fon­data sulla fles­si­bi­lità. Un’etica pub­blica sul postu­mano non può dun­que che pren­dere posi­zione su un regime di sfrut­ta­mento che fa della sim­biosi tra umano e mac­chi­nico il suo tratto distintivo.


Oltre la gabbia del soggetto

Negli scorsi giorni la filo­sofa Rosi Brai­dotti, che ad Utre­cht dirige il Cen­tre for the Huma­ni­ties, è stata in Ita­lia (Bolo­gna, Napoli e Roma) per la pre­sen­ta­zione del suo ultimo volume, Il Postu­mano. La vita oltre l’individuo, oltre la spe­cie, oltre la morte (recen­sito qui il 18 feb­braio 2014). Il postu­mano è un tema con cui Brai­dotti si misura fin dai tempi di Sog­getti nomadi (1994) dove viene nomi­nato come pro­getto uto­pico e poli­tico con cui fare i conti. In que­sti anni, all’interno di un dibat­tito inter­na­zio­nale viva­cis­simo che l’ha vista al cen­tro di nume­rosi con­fronti, ha pro­se­guito la sua rifles­sione sulla sog­get­ti­vità chia­rendo ora come il posi­zio­na­mento postu­mano, bus­sola e stru­mento genea­lo­gico, pre­veda anzi­tutto un noma­di­smo acqui­sito sia sotto il pro­filo della teo­ria mate­ria­li­sta del dive­nire che sotto il pro­filo etico-politico. Su que­sto punto, le cate­go­rie che inter­ven­gono sono in effetti quelle che negli anni le hanno con­sen­tito di trac­ciare una map­pa­tura all’altezza dei tempi pre­senti. Sono, que­sti ultimi, anche tempi pen­santi e di par­ti­co­lare potenza, in cui le pra­ti­che poli­ti­che e di resi­stenza gio­cano il pro­prio corpo a corpo con una mol­te­pli­cità di risorse e con­flitti. Anche qui la par­tita gio­cata da Brai­dotti muove da una col­lo­ca­zione esatta: fem­mi­ni­sta, post­co­lo­niale e radi­cal­mente respon­sa­bile. Attra­verso la lezione di Fou­cault, Iri­ga­ray, Deleuze e Guat­tari diri­mente è la forza pro­pul­siva del moni­smo spi­no­ziano e l’apertura alla cri­tica fem­mi­ni­sta con­tem­po­ra­nea. In que­sto cro­cic­chio, le tes­sere del pre­sente si spo­stano e si inter­se­cano verso la ride­fi­ni­zione di umano e disu­mano. Fino al salto definitivo.
Alcuni temi ritor­nano in maniera deci­siva facendo della archi­tet­tura filo­so­fica in dive­nire di Brai­dotti una car­to­gra­fia tra­sfor­ma­tiva delle idee. Tale tra­sfor­ma­zione, che avviene con­se­guen­te­mente alla crisi dell’umano, mostra le trap­pole ma pure le risorse di una con­tem­po­ra­neità tutta ancora da agire.


Uno dei para­dossi più evi­denti della nostra era è, secondo te, lo scon­tro tra la neces­sità strin­gente di affi­darsi a nuove azioni etico-politiche e l’inerzia di chi vor­rebbe curare esclu­si­va­mente i pro­pri inte­ressi e pro­fitti. A cagione di que­sta ultima posi­zione si pro­pone infatti un gene­rico appello al nuovo che risuona come puro eser­ci­zio reto­rico in rela­zione alle logi­che di man­te­ni­mento del potere e indi­vi­dua­li­smo neo­li­be­rale. In que­sto senso inter­cetti quella che chiami forza tec­no­lo­gica libe­ra­trice e tra­sgres­siva, pre­stando atten­zione all’appropriazione da parte di chi vor­rebbe inse­rirle in un discorso tra­di­zio­nale e con­ser­va­tore del sog­getto (per­lo­più auto­cen­trato, bianco, maschio, ete­ro­ses­suale e bene­stante). Mi dici qual­cosa a riguardo?
La reto­rica del nuovo fa parte del pro­gramma di con­su­mi­smo sfre­nato e mania­cale del capi­ta­li­smo avan­zato. C’è una ten­sione tra il poten­ziale gigan­te­sco delle nuove tec­no­lo­gie che hanno come meta il con­trollo del vivente e di tutte le sue forme, e l’uso mono­di­re­zio­nale che ne viene fatto dal capi­ta­li­smo — per cui il capi­tale è la vita stessa. E soprat­tutto il fatto che hanno rial­lac­ciato que­sta mol­te­pli­cità com­plessa alla nozione più restrit­tiva pos­si­bile di indi­vi­dua­li­smo, asso­cian­doci una morale molto stanca, la clas­sica morale neo­kan­tiana uma­ni­stica, che sta andando alla grande. Viviamo in un’epoca mora­liz­za­trice, cruenta e con­trad­dit­to­ria. Quindi io non voglio cadere nel discorso anti­quato della tec­no­fo­bia che pre­vede la tec­no­lo­gia come stru­mento di domi­nio per­ché non ci credo; sono stata allieva di Fou­cault e il potere non è mai a senso unico. Que­ste tec­no­lo­gie sono al tempo stesso libe­ra­to­rie e stru­menti di morte e di distru­zione. Abbiamo droni, tele­fo­nini, fecon­da­zione assi­stita e poi i morti al largo di Lam­pe­dusa; sono ver­santi della stessa meda­glia e noi dob­biamo pen­sare alla con­tem­po­ra­neità e agli effetti del potere, mol­te­plici e con­trad­dit­tori. La forza libe­ra­trice della tec­no­lo­gia è, e dev’essere, fonte di espe­ri­menti. Spe­ri­men­tare alcune di que­ste tec­no­lo­gie, nei limiti del pos­si­bile, sarebbe per me una spe­cie di ride­fi­ni­zione di ciò che la filo­so­fia dovrebbe fare. Ci occor­rono labo­ra­tori fon­da­men­tali con i quali rico­sti­tuire comu­nità di sapere ma anche di saper fare a par­tire da que­ste tec­no­lo­gie. Inol­tre non sono con­tra­ria a priori alle modi­fi­ca­zioni gene­ti­che. Penso per esem­pio alla bio­lo­gia sin­te­tica che è riu­scita a fare le prime por­zioni di carne arti­fi­ciale. Si met­te­rebbe in discus­sione l’obiezione morale di vegani e vege­ta­riani, visto infatti che non è carne da macello di orga­ni­smi viventi. C’è poi un labo­ra­to­rio molto forte e bello riguardo i disa­bi­li­ties stu­dies che stanno andando in dire­zioni molto più inte­res­santi rispetto ad esem­pio agli studi sulla ses­sua­lità in gene­rale, pro­prio per­ché i corpi sono già modificati.
Tra le trap­pole dell’appropriazione neo­li­be­rale della tec­no­lo­gia, c’è una piega che con­cerne ciò che in Tra­spo­si­zioni (2006) chiami tecno-utopismo dell’ambiente acca­de­mico. Cosa intendi con que­sta forma di mistificazione?
Negli anni Novanta, alla fine dell’ondata dei cul­tu­ral stu­dies e più o meno all’inizio della svolta queer, c’è stato un momento di grande eufo­ria verso le tec­no­lo­gie. Le tecno-utopie sono state da una parte impor­tanti per­ché ci hanno per­messo di com­bat­tere quel disfat­ti­smo tec­no­fo­bico che per me fa sem­pre parte di una certa cul­tura di sini­stra seguendo il ragio­na­mento tecnologia=potere=proprietà di qualcuno=lotta di classe; equi­va­lenze che fanno parte della mia gio­vi­nezza; sono una donna di sini­stra, vengo dal fem­mi­ni­smo e so, insieme a Fou­cault, che il potere è sem­pre più com­pli­cato di que­sto. Ci sono altre moda­lità di pen­siero per le quali fon­da­men­tale è il mani­fe­sto del 1985 di Donna Hara­way. Il mani­fe­sto cyborg che nella ver­sione ori­gi­nale è sot­to­ti­to­lato come mani­fe­sto socia­li­sta e fem­mi­ni­sta, com­ple­ta­mente sva­nito nella nuova edi­zione. Trovo invece che sia molto impor­tante ripen­sarlo per­ché era un socia­li­smo come pos­si­bi­lità di comu­nità a venire. Ci è voluto qual­che annetto per capire la muta­zione del capi­ta­li­smo in un sistema di ri-formazione e ri-creazione del vivente. Nel poli­tico siamo nella con­fu­sione più totale; da una parte il capi­ta­li­smo si è dato una pra­tica post-antropocentrica, ha equi­pa­rato tutte le spe­cie, tutte le forme viventi, alla logica del pro­fitto. Se tu guardi la robo­tica per esem­pio, non stiamo clo­nando solo il sistema neu­ro­nale e sen­so­riale dell’umano ma anche il fiuto dei cani, il radar e il sonar di del­fini e pipi­strelli. Cioè il nostro corpo è un appa­rato piut­to­sto anti­quato rispetto ad altre spe­cie ani­mali. Quindi c’è un postu­mano di fatto, però nel discorso pub­blico siamo ancora ad una forma di con­ser­va­to­ri­smo neou­ma­ni­sta, con una mora­liz­za­zione ter­ri­fi­cante e forme di rea­zione asso­lu­ta­mente inquie­tanti. Invece di tecno-utopie ci sono da fare delle map­pa­ture, delle car­to­gra­fie cri­ti­che di que­ste con­trad­di­zioni. Per evi­tare anche di ripe­tere una morale stanca che da Nie­tzsche in poi abbiamo cri­ti­cato in filo­so­fia. Anche con la fac­cia sor­ri­dente di papa Fran­ce­sco e quella — meno pia­ce­vole — di Renzi, non si può tor­nare a pra­ti­che di una vita defi­nita sotto l’egemonia dell’umanesimo in un’epoca in cui il capi­ta­li­smo ci ha dato un post-antropocentrismo per­verso; non è giu­sto, que­sta è una beffa molto cru­dele che rischiamo di pagare caro. Quindi dob­biamo rife­rirci ad un’etica postu­mana, que­sta è la mia linea. Non pos­siamo pen­sare ai droni, ai com­pu­ter che fanno i cal­coli in borsa nella cor­nice della morale kan­tiana, dob­biamo comin­ciare a inse­rire nel loro pro­gramma domande di natura etica in grado di farli per­dere in velo­cità ed effi­ca­cia, di non farli fun­zio­nare più. Quando i droni israe­liani spa­rano nei ter­ri­tori occu­pati non stanno ad aspet­tare o a inter­ro­garsi. Quando Google-earth deve can­cel­lare dalle sue foto satel­li­tari le corse dei droni, che sono cen­ti­naia, i test morali risul­tano inu­tili. Quindi pian­tia­mola con que­sta fac­cenda; biso­gna ral­len­tare tutto e cam­biare il verso di que­ste tec­no­lo­gie, spe­ri­men­tare un’altra etica. Ma que­sta com­bi­na­zione di post-antropocentrismo capi­ta­li­sta e neou­ma­ne­simo sociale è una cata­strofe. Ci risuc­chia ener­gie e fun­ziona: que­sta morale la capi­scono tutti; tipo quella della cura; dun­que “abbi cura”, poi però quelle che devono aver cura sono sem­pre le donne.


Que­sto tema della cura mi inte­ressa, per­ché come altre credo che il fem­mi­ni­smo ne abbia scal­zato il carat­tere obla­tivo. Ne Il Postu­mano, quando poni la rela­zione tra l’eccedenza di zoe e la con­sa­pe­vo­lezza fem­mi­ni­sta, dici infatti “io sono la madre terra, gene­ra­trice di futuro”. Chiaro come ciò ine­ri­sca al carat­tere della tem­po­ra­lità ma anche dell’aver cura.
Il posi­zio­na­mento fem­mi­ni­sta nel libro ha molti piani per­ché ha vari obiet­tivi. Uno di que­sti è costruire delle car­to­gra­fie ragio­nate attra­verso cui com­pren­dere come siamo arri­vati a que­sto sca­val­ca­mento dell’umano. Un altro obiet­tivo è quello di por­tare la que­stione della dif­fe­renza nel postu­mano. Il terzo è quello spinozista-monista di spe­ri­men­tare nuove eti­che, nuove comu­nità, nuove cosmo­lo­gie; cioè pen­sare, essendo stata allieva di Deleuze, nuove forme per leg­gere il pre­sente. Il punto di par­tenza è la cri­tica al sog­getto uni­ta­rio. La teo­ria del pren­dersi cura di Gil­li­gan, Tronto e di molti altri resta all’interno di un pen­siero libe­rale nella stra­grande mag­gio­ranza dei casi. Le tem­po­ra­lità che ci abi­tano come sog­getti sono dif­fu­sis­sime; dalla tem­po­ra­lità cro­no­lo­gica a quella cir­co­lare da Nie­tzsche in poi a quella trans­pe­cie fino ad arri­vare a tem­po­ra­lità di memo­rie pro­te­si­che. Non pos­siamo tor­nare all’uno. Il mio pro­blema con la cura è stato que­sto. Il pezzo che tu citi io lo chiamo momento di opera rock. Sono momenti abba­stanza dif­fusi nel libro in cui metto in scena il mio pen­siero nomade dicendo essen­zial­mente che io uomo non lo sono mai stata e non ho mai voluto esserlo. Non uno, non lui, non quello, non così. Mai. Io sono della gene­ra­zione della dif­fe­renza che è stata una spac­ca­tura dall’umanismo, da quell’uno, uomo, bianco, maschio, ete­ro­ses­suale da cui hai comin­ciato giu­sta­mente l’intervista. Que­sto è stato il mio oriz­zonte. Noi siamo sem­pre state le lupe che cor­re­vano nella notte, ulu­lando giu­sti­zia ma anche rab­bia, amore, feli­cità insieme a tutto il resto. Quindi c’è que­sta parte di me che credo sia non solo gene­ra­zio­nale ma pro­prio con­cet­tuale e teo­rica che non si è mai imme­de­si­mata con quell’uno. Ciò non signi­fica che non abbiamo cura dell’altro. Il con­te­ni­mento dell’altro in un’ottica spi­no­ziana e deleu­ziana (c’è anche Iri­ga­ray ma è un caso più com­pli­cato) con­si­ste in una spe­ci­fi­ca­zione reci­proca. Auto­ge­stiamo la nostra spe­ci­fi­ca­zione, defi­nia­moci in quanto postu­mani, col­let­ti­va­mente e uno in rap­porto all’altro, una in rap­porto alle altre, su momenti di pra­tica molto pre­cisi. C’è un postu­mano nella teo­ria, c’è un postu­mano nella pra­tica, c’è un postu­mano nell’etica, ci sono momenti e pra­xis con­crete e imma­nenti che ci per­met­tono di autodefinirci.
Molta della tua rifles­sione si è con­cen­trata verso le scienze umane e una idea spe­ci­fica di uni­ver­sità o, come la chiami, mul­ti­ver­sità. Penso al quarto capi­tolo di Il Postu­mano. In con­si­de­ra­zione degli alti livelli di media­zione tec­no­lo­gica da un lato e delle strut­ture del mondo glo­ba­liz­zato dall’altro, auspi­chi una meta­mor­fosi epi­ste­mo­lo­gica delle scienze umane. Intanto par­tendo da un assunto che è quello che muove la tua intera rifles­sione filo­so­fica, e cioè il rea­li­smo di una mate­ria capace di affetti, auto­ge­stione e auto­po­iesi. Inter­cetti dun­que la teo­ria fem­mi­ni­sta come cru­ciale punto di rife­ri­mento meto­do­lo­gico e teo­re­tico. Anche nelle scienze umane postu­mane, è ancora una volta il fem­mi­ni­smo a fare la differenza?
Asso­lu­ta­mente. Non mi pre­oc­cupo del fem­mi­ni­smo come movi­mento poli­tico che sta pro­ce­dendo molto bene soprat­tutto gra­zie alle gio­vani fem­mi­ni­ste sparse nel mondo. A livello di pen­siero però le meto­do­lo­gie fem­mi­ni­ste, nono­stante l’esistenza di women’s stu­diesgen­der stu­dies, non sono pas­sate all’interno delle uni­ver­sità. Secondo me la meto­do­lo­gia fon­da­men­tale è quel par­tire da sé, che però io coniugo con la dis­so­lu­zione del Sé. Quindi par­tire da un Sé che non è mai uno ma già una rela­zione. Un sapere situato è ren­dere conto del pro­prio posi­zio­na­mento e non par­lare in maniera uni­ver­sa­li­stica e gene­rale, per non aspi­rare nep­pure a quelle mega-teorie del tutto di cui una buona fetta della sini­stra è ancora molto inna­mo­rata. La teo­ria della rivo­lu­zione per esem­pio, del “o cam­biamo tutto o non vale la pena di cam­biare niente” pro­duce un asso­lu­ti­smo che mi pre­oc­cupa molto. Il fem­mi­ni­smo è sem­pre stato molto più pra­tico e molto più effi­cace: si cam­bia il vivente a par­tire da sé, il per­so­nale è poli­tico e le rela­zioni sono al cuore di tutto. Trovo che il moni­smo spi­no­ziano si coniu­ghi per­fet­ta­mente con que­sta poli­tica situata. C’è in que­sto momento, a livello di pen­siero, una strana can­cel­la­zione del fem­mi­ni­smo soprat­tutto da parte dell’università, la quale tut­ta­via can­cella un po’ tutto il Ven­te­simo secolo ma anche di quello che resta della sini­stra. Diciamo dal 1989 in poi, se si guar­dano autori che i miei stu­denti (soprat­tutto maschi) amano, per esem­pio Žižek, Badiou ma lo stesso Negri, si può notare come que­sti ultimi abbiano can­cel­lato il fem­mi­ni­smo. Non lo citano mai come esem­pio di un movi­mento che ha rein­ven­tato il poli­tico. Žižek ci va giù pesante, siamo al meglio un pic­colo movi­mento cul­tu­rale che non ha capito niente; Badiou ancora peg­gio; un paio di note di Negri in un libro (La dif­fe­renza ita­liana, Not­te­tempo 2005) in cui scrive di Muraro, certo, ma si arra­bat­tano e non rico­no­scono il fem­mi­ni­smo come un labo­ra­to­rio di pra­ti­che. E que­sto è un dramma per­ché lì c’è un dia­logo e con­ta­mi­na­zioni reci­pro­che che sono sal­tate. Per finire, c’è anche da dire che la sini­stra, in par­ti­co­lare la scuola ita­liana di studi cri­tici sul capi­ta­li­smo (per esem­pio Virno, Laz­za­rato, Mez­za­dra), potreb­bero osare, spe­ri­men­tare di più con scienza e corpi. In que­sto per­fino Fou­cault non è riu­scito, il suo mae­stro Can­gui­lhem era più attento di lui. Noi avremmo molto da dire a riguardo, abbiamo avuto una serie di geni, tra cui spicca Hara­way, ma anche la scuola ita­liana di Gagliasso, che la scienza l’hanno capita benis­simo. Insieme a que­ste ci sono pure molte eco­no­mi­ste fem­mi­ni­ste che sosten­gono che il capi­tale è oggi la vita, nient’altro che i codici infor­ma­tivi del vivente; un’affermazione che cam­bia tutti i gio­chi. Quindi ci sono come degli anelli man­canti. Mi sem­bra che in Ita­lia sia un momento in cui si deve riflet­tere su cosa conta come gesto poli­tico. Il fatto per esem­pio che il fem­mi­ni­smo sia stato rimosso da un movi­mento poli­tico che poi lamenta che non abbiamo modelli di poli­tica mi rende dav­vero furiosa. Soprat­tutto quando si devono rice­vere accuse come “voi non avete fatto niente”, in un momento in cui io vedo risor­gere una vio­lenza che mi pre­oc­cupa molto. Dalla prima pal­lot­tola la vostra rivo­lu­zione non ci inte­ressa più. Gira­vano slo­gan come que­sti negli anni ‘70 e qui stiamo tor­nando a una rab­bia nichi­li­sta che mini­mizza sbri­ga­ti­va­mente ciò che il fem­mi­ni­smo ha pro­dotto come modello alter­na­tivo di poli­tica. Su que­sto credo che l’Italia abbia qual­cosa su cui riflet­tere. O ci ascol­tate o non con­tate su di noi per fare una rivo­lu­zione anti­quata che farà sol­tanto il gioco delle leggi spe­ciali della repres­sione e non ser­virà a niente. Sulla que­stione del postu­mano dun­que mi sem­bra che stiamo assi­stendo, in que­sto momento di sgo­mento e rab­bia dovuti alla crisi, alla ripro­po­si­zione dell’antropocentrismo e nar­ci­si­smo della sini­stra. Rimuo­vere il fem­mi­ni­smo apre la porta alla vio­lenza, soprat­tutto con­tro le donne, insieme al ritorno di una vio­lenza rivo­lu­zio­na­ria che ha già fal­lito e che non mi pare il caso di riproporre.
La rab­bia che pro­viamo quando subiamo o assi­stiamo a un’ingiustizia è una pas­sione che deve per­met­terci di soste­nere il pre­sente, di modi­fi­carlo a seconda dei nostri desi­deri, invece di disper­derla in inef­fi­caci atti nichi­li­sti, noi pos­siamo tra­sfor­marla in affetto posi­tivo. Inve­stiamo nella ricerca di alleanze tra­sver­sali, di siner­gie ine­dite, ela­bo­riamo saperi comuni lon­tani dalle logi­che del pro­fitto, con­ta­mi­nia­moci e dif­fon­diamo micro-politiche alter­na­tive ai modelli domi­nanti, stili di vita eco­so­ste­ni­bili, anti­ses­se­si­sti e antirazzisti.
Non voglio più eroi morti.

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