sabato 11 gennaio 2014
Tradotta "La rivelazione greca", di Simone Weil
Simone Weil: La rivelazione greca, traduzione e commento di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi
Risvolto
L’incontro tra Simone Weil e alcuni testi della Grecia antica – innanzitutto l’Iliade,
Platone, i Pitagorici e i tragici – ha segnato uno dei picchi del secolo scorso. Nulla di
quanto la luce della sua mente ha raggiunto è rimasto immutato. In particolare i Vangeli,
come se la via regale per capirli non passasse da Gerusalemme, ma da Atene. Il
Verbo come mediatore, il sovrannaturale e l’innaturale, la bellezza del mondo, il giusto
punito, la sventura: sono alcuni dei temi che Simone Weil tratta in questi scritti,
non più nella forma altamente condensata dei Quaderni, ma in una trattazione distesa,
come chiarendo in primo luogo a se stessa le sue abbaglianti intuizioni.
La Grecia della Weil
di Piero Boitani Il Sole Domenica 9.3.14
«Tre donne intorno al cor mi son venute», intona Nadia Fusini con Dante, per parlare di Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt. Tre donne che si sono sfiorate, talvolta incontrate, che sono comunque legate l'una all'altra da fili sottili, da destini spesso simili, da una sensibilità fuori del comune. Lettrici e scrittrici, prima che filosofe: danzatrici della lingua, vedono «la complicità tra il fantasma della forza e l'attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente». In un libro allo stesso tempo intimo e chiaro, Nadia Fusini entra, con l'aiuto dell'amata Virginia Woolf, nell'anima (e nel corpo) di Simone, Rachel e Hannah: delicatamente e parlando, per così dire, sottovoce. Affascinata dalle tre, ne narra le vicende, rievoca i personaggi (Auden e Jean Wahl, in particolare), i luoghi e gli episodi che fanno di esse un intreccio: le comprende sino in fondo. Insomma, un libro da gustare e soffrire, che servirà a mirabilmente introdurre Simone, Rachel e Hannah al lettore che già non le conosce, e che si accompagna per fortunata coincidenza al volume che Adelphi, con cura impeccabile, dedica agli scritti sulla cultura e la letteratura greca della Weil, La rivelazione greca. Un libro di intensità e luminosità uniche, dal quale emerge non una filosofia, ma un modo di guardare a ciò che lo spirito ha intessuto. Ecco: «Vocazione di ogni popolo dell'antichità: un aspetto delle cose divine (eccetto i Romani). Israele: unità di Dio. India: assimilazione dell'anima a Dio nell'unione mistica. Cina: modo di operare proprio di Dio, pienezza dell'azione che sembra inazione, pienezza della presenza che sembra assenza, vuoto e silenzio. Egitto: immortalità, salvezza dell'anima giusta dopo la morte mediante l'assimilazione a un Dio sofferente, morto e resuscitato, carità verso il prossimo. Grecia (che ha subito una forte influenza dell'Egitto): miseria dell'uomo, distanza, trascendenza di Dio».
Un'abbagliante capacità di sintesi, una precisione formidabile: si può discutere, pensando a Virgilio e altri, l'eccezione romana, ma non si può negare l'esattezza di questa diagnosi orientata, tagliata sul solo aspetto delle cose divine. È questo, infatti, che interessa a Simone, che l'appassiona, l'ossessiona, la fa vivere di nulla e trascurare se stessa. È Dio. Quello di Eraclito: logos che è pensiero, legge e fuoco (nei frammenti Simone ritrova la speranza, la fede, la nullità delle virtù umane, l'uguaglianza degli uomini, la salvezza come solo bene, la vita come morte dell'anima e la morte come vita dell'anima). Quello di Platone, «autentico mistico, e addirittura il padre della mistica occidentale» (tra le pagine più affascinanti). Quello degli Inni a Zeus di Eschilo nell'Agamennone e dello stoico Cleante. Dio cerca l'uomo, lo chiama: «nel Vangelo», nota Simone, «non si parla mai di una ricerca di Dio da parte dell'uomo. In tutte le parabole è il Cristo che cerca gli uomini». Nella rivelazione greca, miti e testi letterari, secondo la Weil, ritornano costantemente a questo tema. La sua interpretazione si fa, ora, spirituale, mistica: allegorica nel senso che ogni episodio viene letto come allusione a un piano trascendente. La bellissima scena di riconoscimento tra Oreste ed Elettra nell'Elettra di Sofocle, che fa immediatamente pensare a quella tra Maria Maddalena e Gesù nel Vangelo di Giovanni («si crede di avere davanti a sé uno straniero, e invece è l'essere più amato»), evoca «in modo chiarissimo il tema del Dio morto e resuscitato» e implica un doppio riconoscimento: «Dio riconosce l'anima in virtù delle sue lacrime, quindi si fa riconoscere». L'audacia di Simone è pari, qui, a quella di un Padre dei primi secoli (basterà il raffronto con Miti greci nell'interpretazione cristiana di Hugo Rahner). Ma perché i Greci hanno elaborato questi miti? Ebbene, risponde Simone, all'origine della storia greca si trova un «crimine atroce»: la distruzione di Troia. I Greci non se ne sono gloriati, ma sono stati assillati dal ricordo di quel delitto «come da un rimorso» e in esso hanno attinto il sentimento della miseria umana. E per l'appunto, l'intera civiltà greca è una «ricerca di ponti da lanciare tra miseria umana e perfezione divina». La Guerra di Troia, questa prima tra le guerre mondiali (che giungono proprio sino al momento in cui Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt scrivono), è il peccato originale della civiltà greca, e l'Iliade, il poema che ne canta un episodio, è il «poema della forza»: la forza adoperata per sottomettere gli altri, la forza che rende chiunque le sia sottomesso "una cosa". Questa forza, secondo Simone Weil, non conosce né requie né redenzione, nell'Iliade: che è una sequenza senza speranza e senza pietà di uccisioni e di morti. Nadia Fusini, nutrita dal grandissimo libro sull'Iliade di Rachel Bespaloff, rimprovera Simone di aver commesso qui un paio di errori d'omissione per sostenere la propria visione del poema. Simone risponderebbe che anche lei ha visto «il trionfo più puro dell'amore», cioè «l'amicizia che sorge nei cuori di nemici mortali», nell'incontro tra Priamo e Achille, uno dei rari «momenti di grazia» dell'Iliade. Ma non è questo ciò che le preme. Al termine del celebre saggio, Simone è invece tutta protesa a dimostrare che la tragedia è la vera continuazione dell'epopea, e soprattutto a suggerire, in paradossale sorpresa, che «il Vangelo è l'ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l'Iliade ne è la prima».
Sotto il tallone della forza
Così l’Iliade parla di oggi Il viaggio di Simone Weil alle fonti della violenza
di Pietro Citati Corriere 11.1.14
La
rivelazione greca di Simone Weil (pubblicata dalla Adelphi, con
eccellente traduzione e commento di Maria Concetta Sala e Giancarlo
Gaeta) è un libro senza paragoni.
La parola Grecia ha un’estensione
quale non aveva mai avuto nella storia, assai più che nell’Umanesimo e
nel Rinascimento. Comprende l’Iliade , i testi orfici, pitagorici,
Eschilo, Sofocle, Platone, i platonici; e Cristo e i Vangeli e la
tradizione cristiana dove è più pura. Una frase di Platone risuona sulle
labbra di Cristo; un detto di Cristo spiega una pagina o un dialogo di
Platone; l’Iliade avvolge tutte le cose come una grande coltre materna;
un tessuto fittissimo di risonanze e di echi colma secoli di vita, che a
Simone Weil appaiono miracolosi. Questa vita non è scomparsa: la Grecia
non è una civiltà meravigliosa e irrimediabilmente finita, come appare
anche ai più appassionati studiosi. La Grecia è viva, attuale: è il
nostro irradiante presente; se immaginiamo una tragedia che parli al
nostro cuore, dobbiamo pensare all’Antigone o all’Edipo re di Sofocle;
se sogniamo un poema che comprenda la vita e la morte, il destino di chi
vince e di chi è sconfitto, solo l’Iliade soddisfa i nostri desideri.
Il primo e centrale di questi scritti, composti tra il 1936 e il 1943, è l’Iliade, poema della forza .
Il
4 dicembre 1934 Simone Weil era entrata in fabbrica, come ouvrière sur
presses . Non vi era entrata per ragioni umanitarie o politiche: ma per
provare sulla sua carne, con quel coraggio furibondo che non l’abbandonò
mai, cosa fosse la mossa ferrea della necessità. Là dominava la
macchina, senza rivali: come nei versi di Baudelaire, regnava la
sventura moderna, dei grandi occhi muti; lei voleva fissare lo sguardo
in quella orribile apparizione. Conobbe la costrizione assoluta, la
sinistra ripetizione, l’umiliazione profonda. Qualcuno le diceva
all’orecchio, di minuto in minuto, senza che lei potesse rispondere: «Tu
non sei nulla qui. Tu non conti. Tu sei qui per piegarti, subire tutto e
tacere». Imparò cosa significa ciò che aveva letto nei libri: diventare
una cosa, un pezzo di legno o di ferro.
Quelle esperienze di
fabbrica diventarono, grandiosamente trasformate, l’esperienza di
lettura dell’Iliade , dove scoprì la prima apparizione scritta della
forza nel mondo. Nell’Iliade , la forza ha due aspetti, secondo che la
si veda con gli occhi di chi la subisce o di chi la impone.
La forza
fa di chiunque le sia sottomesso una cosa: cadavere e oggetto. Se egli è
vivo, ha l’anima; e tuttavia è una cosa. Ci sono esseri sventurati che,
senza morire, sono diventati cose per tutta la vita. Nelle loro
giornate, non c’è alcun margine, alcun vuoto, alcun campo libero, per un
soffio che venga da loro stessi. Non sono uomini che vivono più
duramente di altri: si tratta di una diversa specie umana, un
compromesso tra l’uomo e il cadavere.
Chi ferisce, violenta, uccide,
comanda, impone non è più libero dalla forza di chi ne è distrutto.
Egli non la possiede: vi fa troppo affidamento e ne è inebriato,
travolto dalla propria hybris . Va al di là di ciò di cui dispone. Va
inevitabilmente al di là, perché ignora cosa è limitazione e misura:
viene abbandonato senza rimedio al caso, e le vicende non gli
obbediscono più.
La storia greca aveva avuto inizio con un crimine
atroce: Troia era stata distrutta e arsa; nella notte i guerrieri
troiani erano stati massacrati, i bambini sfracellati contro le rocce;
le donne prese prigioniere e portate in esilio. Allora, era nato un
immenso rimorso, che aveva pesato su tutta la civiltà greca e, come
suggerisce la Weil, su tutta la storia che gli uomini fabbricarono dopo
di allora.
Le lacrime di Andromaca dopo la morte di Ettore sono le lacrime che piangiamo su noi stessi come attori e vittime della storia.
* * *
La
creazione del mondo non è stata — secondo la Weil — un atto di
pienezza, di espansione e dilatazione di Dio, come racconta la Genesi. È
stata una follia. Per darci spazio, Dio ha rinunciato a se stesso; si è
limitato; si è nascosto negli abissi più remoti; si è ritirato
dall’universo, come diceva Itzhak Luria. Nel luogo vuoto, che prima
della creazione occupava, egli ha lasciato lo schermo tremendo della
necessità: le leggi meccaniche dell’universo, il male, la miseria,
l’angoscia, il lavoro, la guerra e la forza dell’Iliade , la morte
violenta, la malattia, l’oggettività mostruosa della fabbrica moderna.
Come uno schiavo, Dio si è incatenato con le catene della necessità,
sulla quale non interviene.
Ora, nel mondo, non c’è alcuna traccia
di misericordia divina; e questa assenza è il segno di Dio. A causa di
questa rinuncia, egli non è più l’Uno, come i filosofi troppo ottimisti
avevano creduto. È lacerato tra i suoi due volti opposti e
contradditori, che tuttavia costituiscono il suo unico volto: diviso tra
bene e necessità, come noi siamo. Nessuno, mai, nemmeno uno gnostico,
aveva portato la lacerazione e la follia, che sono cose proprie
dell’uomo, così addentro il volto segreto di Dio.
Il mondo è la
conseguenza di questo paradosso divino. Da un lato Dio perduto, lontano,
assente dalla sua creazione, dove possiamo rintracciare soltanto
qualche lievissimo barlume di lui. Ma, d’altro lato, egli è onnipresente
nella creazione, come nei Salmi. Tutte le cose sono una metafora e un
riflesso multicolore della sua presenza. Egli è dovunque: nella
bellezza, nell’ordine e nell’armonia del mondo, schiave della necessità,
che la Weil celebra con gli accenti di una stoica o di una cristiana
del quarto secolo. Egli è presente in ogni cosa che avviene
nell’universo: nei fatti mostruosi che sono accaduti, nei fatti orribili
che stanno per compiersi, i quali per l’uomo sono tutti carezze
delicate e discrete della mano di Dio.
L’incarnazione e la passione
rappresentano il culmine della follia e dello strazio di Dio. Appena
parla di Cristo, ogni traccia gnostica e manichea scompare dalla mente
della Weil: Cristo è colui che si è incarnato e ha patito con un reale
corpo umano. Ma in lei non c’è nemmeno una traccia del Cristo salvatore e
trionfatore della tradizione cristiana: Cristo non salva nessuno. Come
Osiride, è il Dio fatto a pezzi, simbolo «dello spirito disperso
attraverso lo spazio e la materia». Sulla croce, egli viene abbandonato
da Dio, che verso di lui diventa gelido come la necessità; non c’è
parola nei Vangeli che abbia tanto colpito la Weil quanto il grido di
disperazione del Dio abbandonato. Come diceva Eschilo, «mediante la
sofferenza e la conoscenza». «La croce del Cristo — ribadisce la Weil — è
l’unica forza della conoscenza». Il solo pensiero umano degno di questo
nome è lacerato, contradditorio, aguzzo, aforistico, come i due pezzi
di legno levati inutilmente contro il cielo.
La tragedia della croce
si ripete nella sventura — l’esperienza essenziale che ogni uomo fa di
se stesso. Non c’è nessuna sensazione o sentimento che la Weil abbia
espresso con tanta lucidità e intensità, con tanta appassionata
partecipazione e orrore e riconoscenza come se per tutta la vita,
malgrado le dolcezze discese dal cielo e gli sguardi innamorati alla
natura, non fosse stata che «un poco di carne nuda, inerte e
sanguinante, abbandonata senza nome sull’orlo di un fossato».
La
sventura è una di quelle presse che la Weil aveva conosciuto in
fabbrica: un meccanismo freddo, metallico e implacabile che domina il
corpo, ostacola l’immaginazione, incatena il pensiero, ghiaccia tutti
coloro che tocca. Come con un ferro rosso, imprime nello sventurato il
disprezzo, il disgusto, la repulsione di sé, una sensazione di colpa e
di lordura più grave di quella che suscita il delitto. Lo rende succube e
complice, inietta un veleno di inerzia, si fa amare e desiderare,
uccide le parole che potrebbero esprimerla; martella l’anima, la
degrada, la riduce a una cosa, l’annienta.
In quei momenti di
desolazione, Dio abbandona chi soffre, come aveva abbandonato Giobbe e
Cristo: «Egli è più assente di un morto, più assente della luce in un
carcere completamente tenebroso».
Ma, subito dopo aver descritto con
parole terrificanti la sventura, grazie a uno di quei capovolgimenti
totali che costituiscono la chiave del suo pensiero — la Weil intona
l’elogio della sventura. Con una specie di empietà nella voce, afferma
che a causa della sofferenza «l’uomo è superiore agli dei». «Dio ha
dovuto incarnarsi e soffrire per non essere inferiore all’uomo». «Se in
questo mondo non ci fosse sventura, potremmo crederci in paradiso,
orribile possibilità». Se sappiamo scendere in fondo alla sventura, come
Omero e Sofocle, senza cercare consolazioni o illusioni, senza parole
vane e bugiarde — lì, proprio in fondo all’abisso, in quelle profondità
dove stanno le cose supreme, ritroveremo la sofferenza redentrice, la
verità, la bellezza, la misericordia e l’amore di Dio.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento