Siamo accerchiati.
Per lungo tempo il progetto di costruzione razionale della comune umanità non potrà far altro che resistere.
In viaggio con i filorussi
“La Crimea è terra nostra. Quelli di Kiev? Fascisti”
Blitz al Parlamento di Simferopoli, sul tetto ora c’è la bandiera russa I jet di Mosca pattugliano il confine e il governo allerta le truppe
di Domenico Quirico La Stampa 28.2.14
Ieri è stato come se un scossa elettrica, di quelle che saldano i metalli, avesse attraversato i cuori. Un giorno convulso di brighe pericolose.
Morbida e doviziosa, agiata e pacata, è la terra di Crimea, ma dovunque l’attraversano brividi antichi, trasalimenti, memorie di travagliate esistenze, crucci e orrori. E i nodi irrisolti della rivoluzione di Maidan. Dovunque. I russi invocano la protezione di Putin contro «i terroristi» diventati padroni a Kiev, i nazionalisti ucraini minacciano di spedire a sud, a tutto vapore, «i treni dell’amicizia»: ma la parola ha un suono funesto, ricorda i convogli dei bolscevichi per cui l’amicizia era il pugno di ferro. Mosca fa sapere che i suoi jet pattugliano i confini, Kiev replica: i vostri carri stiano nelle caserme. E intanto allerta polizia e truppe speciali. I tatari attorno alle loro moschee spalleggiano gli ucraini in odio ai russi. Ma hanno i loro piani e vogliono, nel caos, rafforzarsi. Identità mai sopite, estremismi rinascenti, incendiari che aspettavano l’occasione. La verità è una cosa fragile. Se intonata in ogni angolo da mille gole di acciaio, immediatamente anche la verità più indiscutibile diventa bugia, violenza, pretesto per uccidere.
Le città dai tempi dei tempi sono sempre state delle macchine di simboli, luoghi che in un tessuto di strade, colli, edifici religiosi e civili narrano una storia sacra. La storia di Sebastopoli è la storia russa. Il porto è laggiù, in fondo a via Lenin, diritta come un fuso, lavata e linda dalla pioggia, verde di alberi già fioriti e variopinta di passanti, con la sua selva di ciminiere fumose, di gru immense. La sirena di un rimorchiatore mugge nella foschia. La gente seduta dietro le vetrate dei caffè ha un’aria annoiata, testarda, di gente che aspetta l’ora della partenza chi sa per dove. I giovani di questa città pare attendano tutti qualche grande evento e i vecchi sembrano tornare da un lungo viaggio.
In piazza Nakimov, la statua voltata al porto come volle Kruscev quando lo rimise in sella, la folla è già riunita davanti al palazzo della Amministrazione cittadina. Alla porta un cartello: «Kiev non è l’autorità per noi». Tipi trucibaldi in tuta mimetica, bellezze stagionate e stazzonate dalla pioggia, bandiere tante, russe. Arriva un anziano circondato, entra senza sorridere, svelto. È il nuovo sindaco, ha il passaporto russo, lo ha nominato la piazza. Quello vero, scelto da Kiev, si è «ritirato». Lo applaudono. Andrj Merkulov ha il megafono, la mimetica e l’aria da capo. «Se arrivano i treni dell’amicizia…? Allora è la guerra, ma saranno loro che hanno cominciato. Noi siamo andati a Leopoli o all’ovest per dare lezioni, comandare? Per niente. Il nuovo primo ministro Yatseniuk? Ma non conta niente: lì comandano il Settore destro, i fascisti di Svoboda».
Merkulov guida le squadre di autodifesa, il rovescio di Maidan: qui difendono i monumenti russi, «sì anche Lenin, la Grande Caterina, gli ammiragli, le stele degli eroi della guerra patriottica e dei caduti in Afghanistan, l’anima di questa città, la nostra anima. Al Parlamento di Kiev, dannazione! ci sono dei nazionalisti che hanno proposto di proibire il russo, che vogliono cacciarci dal Paese».
Irrompe, da un’auto, circondato da guardie spicce, un altro anziano. È Mironov, deputato della Duma russa. Mediatore? Messo di Putin? Passa in un boato patriottico di cori e bandiere, bocche dure, sguardi sprezzanti.
Una voce lenta e ruvida. «Il mio bisnonno, mio nonno, mio padre sono stati marinai della flotta russa. Siamo russi, pensiamo in russo, la nostra identità le nostre radici. Adesso c’è qualcuno che ci vuole cacciar via. Guarda che qui sappiamo che cosa è la guerra, vai in giro, ci sono duemila monumenti in città che ricordano le battaglie, gli assedi, i massacri. Come vuoi che non amiamo la pace, ma…».
Valentina ha gli occhi come due olive nere dall’umida lucentezza bruna; Irina, smagliante, ha occhi azzurri e pelle candida. Mi fanno attraversare la piazza dove c’è Casa Mosca, il centro culturale russo, con l’amministrazione della base navale. Nell’Ottocento era l’albergo elegante degli ufficiali. «Leggi questa lapide: qui nel 1854 ha soggiornato durante l’assedio il conte Leone Tolstoj...». «Identità, identità. Russi, ucraini uffa… sai cosa leggo: Lavrenev :… Ragazzo! Ama la rivoluzione! È la sola cosa al mondo meritevole di amore… Bello, sublime. Non ti sembra che sia perfetto anche per Maidan?». E ridono come per uno scherzo riuscito.
Un porto: ecco tutto. La città non è che un sobborgo del porto, una deliziosa arnia tra la fortezze e il mare, un insieme di palazzi, alberghi, ospedali, scuole, prigioni, caserme, cimiteri, chiese, minareti, costruite nella fretta di imbarcarsi di prendere il largo prima che la flotta nemica chiuda il cerchio, un accampamento di pietra e di cemento, una raggiera di forti e magazzini dove la gente si affollava sotto le bombe, gli assedi, aspettando l’ora della partenza.
La statua di Lenin, immensa, è lassù sulla collina nuda, bianca di tufo, e pare una nave arenata su un’alta scogliera, lasciata in secco dalla bassa marea. Il braccio indica il nord: come a dire, attento se sbagli laggiù c’è il gulag, la punizione. «Far saltare tutto questo bronzo e i massi e il marmo? Ma è impossibile e poi perché: è una grande fetta di storia…».
Dietro la chiesa di un altro Vladimir, il santo, la sola che si è salvata dalle bizze staliniane. Mi portano nella cripta dove sono le tombe dei quattro ammiragli che difesero Sebastopoli contro inglesi e francesi. Sento delle donne che avvicinano il prete: «Padre, non sarebbe meglio cominciare a raccogliere medicine e bende? Se arrivano quelli da Kiev la chiesa diventerà certo un ospedale…». Il prete le guarda paziente: non bisogna spaventarsi prima del tempo…
All’ammiragliato, nessun carro armato, sentinelle distratte, gli ufficiali russi entrano ed escono protetti dai loro chepì immensi come ombrelli. «Ma aspettate aiuto da Putin?». «Ci sono sessantamila russi in città, i marinai con le loro famiglie, che dici?».
La strada scende bruscamente, sparisce, in una nebbiolina sporca. Eccolo il mare in fondo alla grande rada, un grigio popolo di onde pronto all’ira, un mare duro, sgraziato, estraneo depositario di una antica tirannica forza. Il forte di Costantino e il suo grande cartello rosso e blu: onore alla marina russa, dietro i gabbioni di travi di ferro delle gru. Nella rada sud, una di quelle che la Russia affitta a caro prezzo dall’Ucraina, un nero sommergibile salpa, il ronzio delle eliche, il richiamo malinconico e selvaggio delle sirene, i rimorchiatori neri e piatti che, impennacchiati di fumo, scavano un triangolo schiumoso davanti alle prue di altre navi da guerra.
Cosa c’è di più sovietico di Sebastopoli? Fino a Gorbaciov era una città chiusa, proibita persino ai russi. Parla ancora a gran voce, della Russia sovietica, delle sue glorie e dei suoi orrori, nel ferro, nella pietra, nella rabbia degli uomini. Anche qui l’uomo davanti allo Stato onnipotente è stato rimpicciolito, la sua vita è diventata una vergogna continua, uno sminuimento incessante, la sua impotenza è sigillata e non deve più scegliere. La stagnazione eternamente provvisoria, confortevole, pigra che continua anche nella rassegnazione.
Merkulov fa grandi gesti di richiamo, urla, la gente si incolonna, scalpiccio di piedi, un litaniare languido: «A Simferopoli, la capitale della Crimea, la bandiera russa sventola sul Parlamento, i nostri sono entrati stanotte. I bus stanno arrivando, vieni anche tu, andiamo… andiamo a fermare i tatari, gli alleati di Kiev se tentano di riconquistarla».
Il convoglio parte: canti, urla, attesa febbrile. Superiamo i posti di blocco agli ingressi della città: la replica di quanto fanno nell’ovest quelli di Maidan. Sfilano immense distese di frutteti abbandonati, ovunque capanne di calcare tirate su in fretta, innumerevoli, che sembrano non essere mai state utilizzate. Merkimov mastica amaro: «Sono i tatari… ricevono le terre come compenso per la deportazione in Uzbekistan nel 1944, montano le casupole per far vedere che è terra occupata… Sono furbi i tatari. I loro capi regolano le assegnazioni, controllano gli aiuti che arrivano dalla Turchia... sono furbi i tartari». Centomila famiglie deportate, non tutte sono ancora tornate.
Andrj non ha un momento di tregua: guarda gli immensi depositi scavati nelle montagne per le munizioni e là, là ancora i cippi che Potenkin aveva piantato sul percorso della visita della sua amante imperiale, Caterina. «Tutto è nostro qui, nostro per sempre».
Urla dal fondo del bus: «Yanukovich ha ordinato ai soldati e ai marinai di Sebastopoli di mettersi ai suoi ordini, dice che il presidente è sempre lui». Risate, schiamazzi. «Fascista, traditore, settanta miliardi di dollari ha rubato».
«La radio dice che ci sono già i blindati russi a Temistenkoye, arriveranno prima di noi!». Il villaggio è lì, vuoto.
Ecco Simferopoli: grigi casamenti brezneviani, dal cielo gocciola la disperazione. Si scende, ci si incolonna, bandiere in testa, gladi cavalli rampanti, aquile plananti, cori: «Crimea, Russia». Il palazzo del governo sembra vuoto, una modesta barricata di mobili all’ingresso, pochi poliziotti tristi, nell’anima come sedimenti di tetri pensieri. I tatari, oggi, misteriosamente non ci sono.
Chiamo il loro capo, Refat Ciubarov: che fate, dove siete? Vi sfidano. «La situazione è in movimento, non dico niente». L’oscurità cala. Sul palazzo sventola sempre la bandiera russa. «Il 25 maggio con le elezioni presidenziali ci sarà un referendum per allargare l’autonomia!».
A tutto volume parte un inno, solenne, impetuoso come una preghiera. È quello che gli altoparlanti nella piazza rossa urlarono quando i soldati tedeschi arrivarono davanti a Mosca. Non ci si può toglier di dosso la materia del Tempo.
2 commenti:
Ho delle amiche originarie dell'Ucraina orientale, appartenenti al gruppo russofono. Il problema di comprendere è tutto nostro, è un guaio europeo. Loro hanno memoria e sanno da che parte stare. L'impressione di accerchiamento è il risultato del martellamento mediatico, ma esse e le loro famiglie non nutrono il minimo timore che la contrapposizione sia essenzialmente storica ed inevitabile: non è la pubblicità di Raiuno o di die Zeit alla rivoluzione fascista in atto che cambierà gli equilibri. Le stupidate che dicono in tv si acquistano col canone e ce le dobbiamo tenere. Qualche milioncino di italiani dalla mente troppo impegnata per approfondire eviterà così di parteggiare per il "nemico".
E chi se ne frega! Questo "nemico", come la storia insegna, risponde solo nel momento più opportuno. Io penso che la risposta sarà energica e risolutiva. Georgia docet.
Quanto a noi italiani... ma... tra poco, per ricordare, ci resteranno soltanto i libri.
Se devono rispondere, rispondano in fretta prima che tocchi a Minsk.
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