venerdì 28 febbraio 2014
La Grande Bellezza
“Omar”
di Abu-Assad, rivale di Sorrentino come miglior film straniero vissuto
dalla popolazione come un simbolo di riscatto nazionale
di Maurizio Molinari La Stampa 28.2.14
A breve distanza dalla moschea Husseini, il piccolo ristorante Hashem
sforna i falafel apprezzati tanto dai militanti dei Fratelli Musulmani
che dal re Abdallah. Fra i pochi tavoli di legno il tema del giorno è
Omar, il thriller di Hany Abu-Assad in lizza per l’Oscar al miglior film
straniero e dunque il rivale più agguerrito della Grande Bellezza di
Paolo Sorrentino. Il motivo di tanta attesa per il verdetto dell’Academy
Awars lo spiega Mariah, 27 anni, seduta al tavolo con la coetanea
Farah: «Ad Amman e in Giordania siamo quasi tutti palestinesi e questa è
la prima pellicola che si presenta come tale» dice, riferendosi alla
scelta della produzione di indicare «Palestine» come nazione di origine.
La conversazione sul film di 96 minuti attira altri avventori del
ristorante che espone con orgoglio le immagini scattate al re durante le
sue frequenti visite. Luay, 50 anni, discende da una famiglia di
Ramallah, in Cisgiordania: «Io questo film non l’ho visto ma la notte
degli Oscar la mia intera famiglia starà attaccata davanti alla tv
sperando che ottenga il premio, perché a vincere saremmo tutti noi». Se
Paradise Now, realizzato sempre da Abu-Assad, nel 2006 fu il primo film
palestinese a guadagnarsi una nomination, questa volta Omar sembra avere
maggiore possibilità di farcela anche grazie ad una trama più
articolare: non il dialogo aspro fra due possibili kamikaze, ma una
storia d’amore intrecciata con la sfida fra tre ragazzi palestinesi e un
agente dello Shin Bet , il servizio di sicurezza interno israeliano.
«Ciò che conta per noi è che questo film è il primo a candidarsi come
palestinese - spiega Farah - è un’emozione simile a quella che abbiamo
vissuto quando l’Assemblea dell’Onu ha votato nel 2012 a favore dello
Stato di Palestina». Lasciando il centro in direzione di Abdoun si
arriva al Taj Mall dove le comitive di liceali e universitari vanno la
sera a vedere i film americani nel cinema multisale, per poi cenare nel
«food court» al piano terra. Adel, 18 anni, ha visto il trailer di Omar
sul computer: «E’ un film che mi rende orgoglioso, racconta una storia
palestinese come le viviamo noi palestinesi di ultima generazione, se la
giuria lo premierà sarà un risultato storico». I suoi amici fanno a
gara nel voler esternare cosa provano. Laila, nata a Firenze e fan di
Francesco Totti, dice: «Amo l’Italia, so che voi tifate per un vostro
film ma questa volta spero che a vincere sia Omar, voi fate tanti film
di valore e avrete presto altre opportunità, per noi invece un’occasione
come questa potrebbe non ripetersi più”. Rina: «Siamo tutti un po’
emozionati, quest’Oscar è diverso dagli altri perché qui in Giordania i
palestinesi sono la grande maggioranza». Khaldun: «Se Omar vincerà sarà
festa grande nelle città e nei campi profughi, anche in Libano e perfino
in Siria, nonostante la guerra e le stragi».
Ciò che colpisce è come nessuno, al Taj Mall come da Hashem, sfrutti la
sfida dell’Oscar per inveire contro Israele. I toni non sono quelli
della resistenza ideologica o della condanna appassionata
dell’occupazione. Ciò che prevale è la speranza di «ottenere un
riconoscimento come palestinesi» sottolinea Zeid. E Tana, sorseggiando
Coca Cola, annuisce: «Come cittadini giordani abbiamo passaporti,
documenti e riconoscimenti, esistiamo, ma siamo anche palestinesi e in
quanto tali sembriamo una specie di fantasmi. Questo Oscar può
contribuire a cambiare le cose». E’ uno stato d’animo diffuso e il
Jordan Times lo riassume così: «Lo Stato di Palestina ancora non esiste
ma ad Hollywood ha già un film finalista nella corsa agli Oscar». Hany
Abu-Assad sembra consapevole della posta in palio: «Sono particolarmente
orgoglioso del fatto che Omar lo abbiamo prodotto con fondi
palestinesi, attori palestinesi e tecnici quasi tutti palestinesi, non
mi occupo di nazionalismo, voglio fare dei film che guardino oltre il
conflitto, al bisogno di avere tutti pari diritti».
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