lunedì 3 febbraio 2014
Evergreen
Carlo M. Cipolla: Allegro ma non troppo. Le leggi fondamentali della stupidità umana, disegni di Tullio Pericoli, il Mulino
Risvolto
Un 'divertissement', un guizzo anarchico dell'intelligenza.
E' così che crediamo di poter definire queste pagine nelle quali Carlo
M. Cipolla abbandona gli austeri panni dello studioso e, giocando sul
filo del paradosso e dell'assurdo, costruisce due brevi saggi: il primo
che delinea un'ilare parodia della storia economica e sociale del
Medioevo; il secondo in cui si elabora una sorta di scherzosa teoria
generale della stupidità umana. Due piccoli capolavori di giocoso
funanbolismo intellettuale, che ci propongono una pausa di eccentricità e
comicità tanto più preziosa nei tempi frenetici e stressanti in cui
viviamo.
Una nuova edizione di “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla ripropone un tema che attraversa la letteratura
La logica dello stupido
Da Voltaire a Flaubert, storia di un catalogo infinito
di Piergiorgio Odifreddi Repubblica 3.2.14
«Infinito è il numero degli stolti», sentenziò l'Ecclesiaste (I, 15).
«Due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, ma
sull'universo ho ancora dei dubbi», precisò Einstein, additando almeno
un punto di convergenza tra il pensiero religioso e quello scientifico.
Più che calcolarne il numero, che può essere infinito solo in senso
figurato, conviene cercare di capire la natura dello “stupido”, che in
latino significava “stupìto”, “sbalordito”, “stupefatto”, “stordito”,
“attonito”. Per estensione, lo stupido è un incapacitato ad agire, o
almeno ad agire correttamente, perché la realtà ha su di lui un effetto
di stordimento che lo rende, appunto, temporaneamente o perennemente
“instupidito”.
Lo stupido può essere generalista o specialista, a seconda che la sua
stupidità si estenda all’universo mondo, o rimanga confinata a qualche
sua parte. Mentre il primo tipo è unico, come il mondo stesso, il
secondo è variegato, tanto quanto lo sono le sue parti. E gli scrittori
satirici o sarcastici, da Giovenale a Kafka, hanno bersagliato i vari
tipi e sottotipi a turno.
Il primo a trattare l’argomento in maniera teorica è stato Walter Pitkin, nel 1932. La sua lunga
Breve introduzione alla storia della stupidità enuncia tre leggi
fondamentali: 1) Il numero degli stupidi è infinito. 2) Il potere è
quasi tutto nelle mani di gente più o meno stupida. 3) Capacità e
stupidità individuali vanno spesso a braccetto.
Una formulazione più elaborata della teoria è stata proposta
dall’economista Carlo M. Cipolla, nelle argute Leggi fondamentali della
stupidità umana.
Il suo breve saggio, uscito per la prima volta in inglese nel 1976, e
tradotto in italiano dal Mulino nel 1988 come Allegro ma non troppo, è
stato appena ripubblicato in una bella edizione illustrata da Tullio
Pericoli. Quanto alle celebri leggi di Cipolla, esse sono: 1) Il numero
degli stupidi viene sempre sottostimato. 2) La probabilità che un
individuo sia stupido, è indipendente da qualunque altra sua
caratteristica. 3) Lo stupido causa danni ad altri senza trarne
vantaggio per sé, o traendone addirittura svantaggio. 4) Il potenziale
nocivo degli stupidi viene sempre sottovalutato. 5) Tra i vari tipi di
persone, gli stupidi sono i più pericolosi.
La terza legge di Cipolla è in realtà una definizione dello stupido, le
cui variazioni permettono di definire gli altri tipi di persone
menzionati nella quinta legge. Precisamente, intelligente è chi trae
vantaggio per sé, facendone trarre anche ad altri. Sprovveduto, chi
causa danni a sé, procurando vantaggio ad altri. Bandito, o sfruttatore,
chi trae vantaggio per sé, causando danni ad altri.
È in questo senso preciso che lo stupido, che causa danni a sé e agli
altri, è pericoloso: anzi, il più pericoloso dei tipi possibili. Perché,
all’opposto dell’intelligente, che ottimizza i vantaggi, lo stupido li
pessimizza, ottimizzando ossimoricamente i danni. Che poi lo stupido sia
anche il tipo più diffuso, oltre che il più pericoloso, è la
dimostrazione che il nostro è il peggiore dei mondi possibili, con buona
pace di Pangloss e degli stupidi come lui.
La più completa ostensione letteraria della stupidità si trova però non
nel Candide di Voltaire, ma in Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert.
Nelle intenzioni dell’autore, il suo ultimo e incompiuto
romanzo doveva essere composto di due volumi: la storia dei due
protagonisti, appunto Bouvard e Pécuchet, e uno Stupidario da essi
raccolto. In realtà, quando Flaubert morì nel 1877 aveva quasi concluso
il primo volume, e del secondo rimangono solo alcuni frammenti.
La divisione tra i due volumi non è comunque così netta. La storia,
infatti, è soltanto una flebile scusa per snocciolare una specie di
Bignami o Garzantina universale che spazia sui campi più disparati,
affrontati uno per capitolo: l’agricoltura, le scienze naturali,
l’archeologia, la storia, la letteratura, la politica, l’amore, la
filosofia, la religione, la pedagogia e le riforme sociali (per fortuna,
la matematica viene risparmiata).
Non è ben chiaro se per Flaubert la stupidità risieda, da un lato, negli
argomenti stessi, o nella loro enunciazione popolare. E, dall’altro
lato, nell’incapacità di Bouvard e Pécuchet di fare un uso sensato del
sapere che via via acquisiscono, o nell’impossibilità di poterlo fare.
Probabilmente tutte le cose insieme, visto che Flaubert voleva usare
come sottotitolo della sua opera La sconfitta del metodo nelle scienze.
E che in una lettera a Louis Bouilhet scrisse: «La stupidità sta nel
voler concludere. Siamo un filo, e vogliamo conoscere la trama”.
Non è nemmeno ben chiaro se Flaubert si considerasse un osservatore
esterno della stupidità, o un suo fruitore interno. Lui stesso dichiarò a
Maxime Du Camp: «Voglio produrre una tale impressione di stanchezza e
noia, che leggendo questo libro si possa credere che sia stato fatto da
un cretino». E Raymond Queneau osservò, nell’introduzione al libro
ristampata in
Segni, cifre e lettere, che «le meditazioni di Bouvard sulla filosofia e
sul mondo, le sue critiche alla religione o agli atteggiamenti
filosofici, sono proprio quelle dello stesso Flaubert».
Quest’ultimo avrebbe dunque potuto dire Monsieur Bouvard c’est moi, come
d’altronde l’aveva già detto per Madame Bovary. E in effetti lo disse,
con altre parole: «Bouvard e Pécuchet mi riempiono a tal punto, che sono
diventato loro! La loro stupidità è la mia, e ne scoppio». D’altronde,
fin da bambino era stato considerato L’idiota di famiglia, come nel
titolo della biografia che gli dedicò Jean-Paul Sartre. E, ovviamente,
lo stupido ha molto a che fare con l’“idiota”, che in greco non indicava
altro che un “privato”: cioè, figurativamente, qualcuno che vive in un
mondo personale tutto suo, invece che in quello pubblico di tutti.
Dunque, stupidi non sono solo i protagonisti di Bouvard e Pécuchet, ma
anche l’autore. E le stupidaggini che gli uni e l’altro raccolgono
nell’abbozzo del loro enciclopedico Stupidario, non sono altro che i
luoghi comuni, le idee alla moda e le sciocchezze che tutti pensano e
ripetono. In fondo, è impossibile farne un catalogo completo, perché
esso coinciderebbe con l’archivio di Echelon, che registra le
conversazioni e le corrispondenze dell’intera popolazione mondiale. E se
qualcosa gli scappa, non c’è da preoccuparsi, perché lo si ritroverà
riproposto nei libri, sui giornali, nei programmi radiotelevisivi e in
rete.
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