Cesare Segre:
Opera critica, a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile, con un saggio introduttivo
di Gian Luigi Beccaria, Meridiani Mondadori
Risvolto
Il Meridiano si propone di mettere in rilievo la figura esemplare di uno
studioso convinto che ai testi ci si debba accostare per interrogarli e
per goderne, comunque rispettandoli, e che non debbano essere
utilizzati per altri fini. La ricchissima autoantologia, strutturata in
dodici sezioni, raccoglie per ciascuna delle "aree di curiosità" i saggi
che rappresentano i vertici dell'attività di Segre nelle diverse
discipline: si va così dalle motivazioni per cui segre dall'originaria
vocazione di un critico stilistico si sia spostato su posizioni di tipo
strutturalistico-semiologico, ai suoi studi sul Medioevo, ai problemi
della filologia, a studi su stile e sintassi dei prosatori italiani,
all'analisi delle fonti, alla dinamica delle varianti d'autore, allo
studio della linea espressionistica sulla scia di Contini, ai "mondi
altri", ai meccanismi della narrazione smontati grazie all'approccio
semiologico, all'arte, per concludere con il rapporto tra etica e
letteratura. Il volume è curato da due brillanti allievi di Segre,
Alberto Conte e Andrea Mirabile; l'introduzione è firmata dal critico
Gianluigi Beccaria.
Cesare Segre, la filologia come strada per la verità
Senza un vincolo etico la letteratura diventa il nulladi Massimo Raffaeli Corriere 3.2.14
Sembrerebbe un paradosso il fatto che uno studioso, anche se di rango
internazionale, possa essere ritenuto innanzitutto un testimone del suo
tempo. Filologo romanzo, linguista, teorico e critico della letteratura,
Cesare Segre lo è da almeno cinquant’anni e a partire da una semplice
domanda che per lui, tuttavia, deve essere stata primordiale: che cosa è
un testo, che cosa implica di volta in volta una determinata trama di
segni, perché essi sono scritti e per chi?
Formatosi nel pieno di un
secolo che, nonostante fosse il secolo degli orrori, ha perseguito la
separatezza o l’autosufficienza della letteratura, Segre l’ha sempre
intesa come il tramite di un pensiero e come un vincolo etico fra lo
scrittore e il lettore: il che vuol dire che per Segre la letteratura o è
un atto integrale di responsabilità umana o è solo una astuta
contraffazione e, come oggi è di moda, un maquillage estetico. Infatti
il «Meridiano» Mondadori a lui dedicato, una scelta della sua produzione
curata in maniera impeccabile, ha il titolo essenziale di Opera critica
(a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile, con un saggio introduttivo
di Gian Luigi Beccaria, pp. 1.696, € 60, in libreria da domani 4
febbraio) dove il sostantivo e l’aggettivo, frontalmente, mantengono lo
stesso rilievo.
Critica per Segre corrisponde all’atto di lettura di un
testo la cui interpretazione è a sua volta il risultato o il movente di
una collocazione nello spazio-tempo: critica e filologia, in altri
termini, convergono con strumenti diversi sul punto fermo che è sempre il testo, captato nella sua genesi solo per essere accompagnato nella sua evoluzione interna così come nella ricezione o nella trasmigrazione da cultura a cultura.
Ciò spiega un metodo, o piuttosto una costante inventiva intellettuale, che se da un lato realizza l’utopia un tempo vagheggiata da Giorgio Pasquali, l’intesa perfetta di critica e filologia, dall’altro rivela sia la natura prismatica dell’intelletto sia la vocazione dialogica dello studioso: Segre (che usa i metodi «come mezzi e non come dogmi», scrive Beccaria nella introduzione al «Meridiano» ) è nello stesso tempo il firmatario di esemplari edizioni critiche di classici della nostra tradizione, quali la Chanson de Roland e l’Orlando furioso , è il teorico della letteratura che, confrontandosi per primo in Italia con lo strutturalismo, ha saputo liberarlo dalla presunzione cartesiana e ancorarne l’acume analitico alla concretezza dei testi, è uno storico della lingua e delle funzioni letterarie di lungo periodo (basti pensare ai lavori pionieristici su poeti e prosatori del Duecento, sull’arte della traduzione o «volgarizzamento» medievale), Segre è infine il saggista che ci ha insegnato a leggere non pochi autori della tarda modernità, da Antonio Machado a Gabriel Garcia Marquez, da Michail Bachtin a Witold Gombrowicz e Eugenio Montale, non esclusi alcuni lirici di grande originalità espressiva, come Virgilio Giotti e Franco Scataglini, a lungo vulnerati da incomprensione e oblìo.
Perciò anche Opera critica allude alla forma di un prisma a dodici facce, tante quante sono le sezioni in cui riordina i testi scelti da una bibliografia imponente, dove spiccano una ventina di volumi fra cui Lingua, stile e società (1963), I segni e la critica (‘69), Le strutture e il tempo (’74), Semiotica filologica (79), Intrecci di voci (’91), fino a un ciclo di partiture, da Notizie dalla crisi (’93) al recente Critica e critici (2012), in cui lo studioso riflette sullo stato di attuale miseria o di vera e propria dismissione della critica, lacerata fra clausura accademica e trasandato giornalismo, perciò inerme o arresa allo spirito del tempo che è il Pensiero Unico. Quanto a questo, non solo appare una vistosa anomalia ma paradossalmente una garanzia il fatto che uno studioso di simile caratura sia stato, alla lettera, un autodidatta: espulso in quanto ebreo nel ’38 dalla comunità dei vivi, i suoi veri maestri (il filologo Santorre Debenedetti, il linguista Benvenuto Terracini, da ultimo Gianfranco Contini) egli ha dovuto incontrarli non per vanità accademica ma per necessità esistenziale, per un motivo di sopravvivenza intellettuale e morale prima che materiale, ricevendone l’esempio, ancora una volta, sul terreno della storia e delle sue micidiali turbolenze.
La storia è peraltro e da sempre l’orizzonte d’attesa della sua attività nell’ottica che rovescia un paradigma secolare (quello dello storicismo che riduce i testi letterari a meri pretesti, liquidandoli o liofilizzandoli) e ne riconosce viceversa la specificità in una trama a maglie strettissime dove il segno della poesia o della prosa sono marcati, volta a volta, da codici culturali, conflitti politico-sociali, liturgie istituzionali o, più in generale, da un sapere solidificato in senso comune, se infatti un fortunato manuale di letteratura per le scuole superiori, redatto anni fa con la sua allieva pavese Clelia Martignoni, Segre ha voluto intitolarlo semplicemente Testi nella storia : è il solo titolo pensabile per chi sa che rovesciando i due termini ogni lettura andrebbe in folle, mancando il proprio oggetto, e ogni giudizio critico si muterebbe in un rilievo generico, retorico, o, come tuttora accade spesso, in un alibi puramente ideologico. Quanto a questo, chi ha detto che anche in materia di testi il buon dio si nasconde nei dettagli non sapeva di lodare la metodica asciutta, già implacabile, di uno studioso che nemmeno venticinquenne, nel ’52, seppe dare un quadro dell’autunno del Medioevo muovendo da semplici rilievi linguistico-stilistici sulla sintassi del Trecentonovelle del Sacchetti.
Non è casuale che, nonostante l’abitudine al dialogo e l’inquietudine teorica siano dati elettivi e addirittura teorizzati da Segre, il suo lettore percepisca sempre sulla pagina, anche la più tecnica, un senso di totale indipendenza, di rovello cognitivo e talora di perfetta solitudine, quella dell’individuo che non ambisce ad altro se non a rendere completa testimonianza. Tanto meno è casuale che la piena maturità, nei modi di un drammatico adempimento, abbia riportato Segre sui passi dell’amatissimo Primo Levi e, per necessaria diramazione, sugli autori che trattano della Shoah.
È quanto si raccoglie nell’ultima sezione di Opera critica e sotto un titolo che vale l’insegna di una vita, Etica e letteratura , dove risalta più che mai lo stile netto e senza un fronzolo, preciso al millimetro eppure indenne da ogni gergo, una lingua bianca e traslucida, tutta pensiero e sintassi, la cui sola posta è la comunicazione e perciò il rispetto del lettore. In una intervista apparsa sul «Corriere della Sera» il 16 settembre del 1987 (ora nel volume di Corrado Stajano, Maestri e Infedeli. Ritratti del Novecento, Garzanti 2008), alla domanda di Stajano su che cosa facesse di un uomo un filologo, rispose: «Deve possedere una passione autentica per il reperimento della verità da raggiungere anche con i mezzi più umili e faticosi».
Per questo Cesare Segre tuttora rifiuta di pronunciare una parola tanto temeraria, verità , senza associarla alla umiltà della filologia . Chiuse l’intervista dicendo di sentirsi Philologus in aeternum , filologo in eterno, e non avrebbe potuto definire meglio sé stesso.
Segre, viaggio nel testo alla ricerca della verità
Esce il Meridiano dedicato al grande critico e filologo In una collettività è la lingua che dà un senso al mondoGian Luigi Beccaria La Stampa 7 febbraio 2014
Cesare Segre ha compiuto un lungo cammino fra le vicende culturali del Novecento, e come dopo intrepida traversata, continua ad affrontare con immutata passione e autorevole presenza i dibattiti del nuovo millennio. Intorno ai poli lingua e cultura, lingua e società, da cui aveva preso le mosse, ha concentrato l’indagine teorica e sperimentale di una semiotica filologica, con al centro la lingua, il più potente sistema modellizzante, quello che dà un senso al mondo, «dato che il mondo, prima di esser nominato, descritto, interpretato, non è che caos: il senso del mondo è il nostro discorso del mondo, e il discorso del mondo è possibile solo entro una collettività».
Ha pubblicato un’imponente serie di volumi, anche a scadenze molto ravvicinate. In gran parte di essi prassi critica e riflessione teorica s’incrociano e convivono, la teoria è controllata dall’atto critico che immediatamente la segue. Sono libri in cui non predomina esclusiva la passione per i concetti. Segre ha trattato di metodi e principi soltanto operativamente, con la dimostrazione che si svolge in concreto sui testi, e i metodi sono usati piuttosto come mezzi e non come dogmi, strumenti utili per descrivere e per capire a fondo l’oggetto della ricerca. La maestria di Segre sta in sostanza nell’aver preparato libri di critica e di semiotica fondati tutti sulla conferma sperimentale di ipotesi di lavoro, che dimostrano la loro validità nell’applicazione a testi di autori ed epoche diverse. Sta qui la effettiva «scientificità» del suo operare.
Segre ha saputo esperimentare e trarre giovamento dai vari metodi succedutisi nel tempo: stilistica, critica delle varianti, critica verbale, semiotica, narratologia. L’«insaziabilità metodologica», la «stanchezza per la routine», l’«avidità del nuovo» (come scrive nella sua autobiografia, Per curiosità) dipendono dalla sua indomabile curiositas. Ma si tratta anche di un’eredità dei suoi maestri. Egli ha protratto in tanti altri più giovani un insegnamento di fondo: la volontà, intendo, di guardare al di là di un metodo singolo assunto come una sorta di passepartout. Anche per questo i suoi libri si sono succeduti nel tempo come un sempre rinnovato dialogo con compagni di lavoro, allievi e lettori, capaci di seguire con naturalezza le tappe successive del dialogo stesso, il suo allargarsi e il suo progressivo approfondirsi e articolarsi.
Ha dialogato con tutte le discipline umanistiche anche perché, delle pratiche viventi entro l’arco delle possibili opzioni culturali e tecniche (dalla linguistica alla semiotica, dalla retorica alla neo retorica, dallo strutturalismo all’ermeneutica delle forme simboliche, dalla filologia alla psicanalisi testuale), Segre sa bene che nessuna di queste può ambire al titolo di critica totale. Le molte esperienze, gli episodi culturali determinanti, le varie scuole del Novecento che ha conosciuto discusso o attraversato spesso da protagonista gli hanno mostrato che le «scienze» umanistiche non possono ridursi alle loro tecniche. Non sono gli strumenti del mestiere che rendono scientifici gli esiti critici sull’oggetto artistico, che riescono a violarne il segreto.
Ma non è tanto per questo punto di vista si propone oggi a lettori anche non specialisti un’antologia di pagine di Segre. Direi piuttosto che, in un mondo come l’odierno in cui tutto è uguale a tutto, in cui ha maggior forza l’opinione della verità, è importante mettere in rilievo la figura esemplare di uno studioso che ha cercato con fiducia di attingere al reale, allo scopo di acquisire delle verità salde.
Non ha di conseguenza trovato consonanze con i trionfi di un postmoderno che ha abbracciato l’idea «confusa» che tutto è interscambiabile col suo contrario. L’indistinzione e il pensiero decostruente non sono nelle sue corde rigorosamente «temperate». Ha continuato a sostere con forza, nella prassi e nella teoria, che il discrimine non è tra metodi e ideologie, «ma soltanto fra chi accosta i testi per interrogarli e per goderne, comunque rispettandoli, e chi li accosta per altri fini».
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