lunedì 24 febbraio 2014
La democrazia quando i buoi sono fuggiti dalla stalla
Ultra Democrazia
Aspettative crescenti destinate a rimanere deluse. Diritti sempre nuovi da soddisfare Così gli eccessi rischiano di travolgere l’Occidente La studiosa Dominique Schnapper spiega perché
di Anais Ginori Repubblica 23.2.14
PARIGI. Un lento scivolare dalla tolleranza all’indifferenza, dalla
libertà alla licenza, dalla critica al relativismo assoluto,
dall’uguaglianza all’egualitarismo. Il rischio incombente per le
democrazie è “l’ultrademocrazia”, esasperazione dei principi che hanno
costruito le società moderne, fino a capovolgerli. Nel nuovo saggio
L’Esprit Démocratique des Lois,pubblicato nella collezione Nrf di
Gallimard, la politologa e sociologa Dominique Schnapper sostiene che la
democrazia deve essere protetta prima di tutto da se stessa e da un
nuovo “fondamentalismo democratico” attraverso il quale il cittadino si
comporta più che altro da individuo, trasformando in vizi privati le
pubbliche virtù. Secondo l’intellettuale francese, figlia di Raymond
Aron, il “vivere civile” non è solo minacciato dagli abusi di potere,
dall’incremento delle disuguaglianze, dalla violazione dei diritti
fondamentali o da nuove discriminazioni. Le democrazie che hanno vinto
sui totalitarismi nel Novecento, entrano nel ventunesimo secolo con il
rischio di essere vittime del proprio successo e delle smisurate
ambizioni interiorizzate da quello che Schnapper chiama
l’homodemocraticus.
Quali sono i “nemici interni” della democrazia di cui parla?
«Mai nella storia dell’umanità, le società democratiche sono state così
libere, tolleranti, ricche. Ma proprio questa straordinaria evoluzione
potrebbe provocare una “corruzione” dei principi democratici che
paventava Montesquieu in uno dei capitoli de Lo spirito delle leggi.
Il termine corruzione non va inteso in senso morale, ma come disfunzione
di valori. Significa tradire i principi fondativi del “governo
repubblicano”, altra espressione di Montesquieu che profetizzava il
rischio di “leggi che rendono liberi di essere contro le leggi”».
È per questo che ha ripreso il titolo dell’opera di Montesquieu?
«Ovviamente non ho la presunzione di fare un seguito ideale di un testo
così importante e definitivo. Ma ho ripreso le tesi di Montesquieu per
tentare di capire delle dinamiche del presente. Aveva per esempio
immaginato una democrazia “estrema” che si sarebbe contrapposta alla
democrazia “regolata”. Oggi vediamo che l’aspirazione democratica arriva
a spingere gli individui fino al rifiuto di regole e limiti. Le nostre
democrazie alimentano un desiderio illimitato di benessere e protezione
materiale, sociale, morale. Il sentimento di cittadinanza è stato ormai
interiorizzato con effetti in qualche modo perversi. I pensatori greci
condannavano l’hybris, forma di orgoglio degli uomini che cercano di
superare i propri limiti, comportandosi come dèi. La democrazia spinge
alla ricerca diun miglioramento perenne, anche perché dalle prime
rivoluzioni del Seicento ad oggi abbiamo assistito a un continuo
progresso dei diritti democratici».
L’aumento delle disuguaglianze non è già un tradimento della promessa democratica?
«È un’illusione pensare che l’uguaglianza politica, sancita dalla
democrazia, si possa trasformarsi in uguaglianza materiale. Lo Stato
sociale è condannato a non soddisfare le crescenti richieste e quindi a
essere fonte di frustrazioni e umiliazioni. Le risposte dello Stato sono
in ritardo e per natura limitate rispetto a quanto chiedono i cittadini
o, per meglio dire, gli “aventi diritto”. Al di là della crisi
economica che attraversiamo, esiste uno scarto strutturale tra
aspettative e realtà della democrazia sociale ».
Così si spiega anche la sfiducia crescente nella politica e nelle istituzioni?
«Non stiamo assistendo alla scomparsa delle norme e delle istituzioni,
ma a una nuova tensione con gli individui democratici che pretendono di
scegliere le regole alle quali sottoporsi, scegliendo la propria
sovranità. Quando parlo di istituzioni mi riferisco anche a scuola,
giustizia, sindacati, religioni e tutte le istanze statali e partigiane
che regolano le pratiche sociali nello spazio pubblico.
L’homo democraticus ha prima abolito le norme imposte dalla volontà
divina, poi ha rifiutato le norme imposte dalla Natura. Ora la
contestazione punta contro regole stabilite, ovvero contro la storicità
di norme ereditate dalle generazioni precedenti. Ma è una transizione
molto delicata perché la democrazia si basa su una comunità di individui
che condividono una visione del mondo, è questa l’unica forma di
trascendenza repubblicana ».
Anche il diritto di critica ha superato ogni limite?
«Le società democratica è imperfetta, come tutte le società umane, anche
se ha la particolarità di sottoporsi all’analisi critica dei suoi
membri. Insieme al rischio di democrazia estrema, c’è anche quello di
una critica estrema. La contestazione è legittima se si concentra sulle
decisioni politiche e sulle persone, non lo è se attacca le istituzioni.
Bisogna evitare un fondamentalismo democratico, prediligendo la
critica relativa alla critica radicale, cercando di contestualizzare i
costi sociali e politici delle decisioni, riferendosi al passato e ad
altri esempi nel presente. È facile cedere alla denuncia radicale,
spesso più visibile sui media e nel mondo intellettuale. Eppure è la
critica ragionata e ragionevole, prosaica e autocritica, che forma
l’ordine democratico, in tutta la sua modestia».
Come rispondere alle richieste di democrazia diretta o di nuove forme di rappresentanza?
«La democrazia deve rimanere aperta a ogni discussione e contributo ma
le decisioni spettano a organismi rappresentativi e democraticamente
eletti. Solo il voto e il suffragio universale permettono ai cittadini
più marginali della società di esprimersi alla pari di tutti. La
cosiddetta democrazia diretta rischia invece di favorire la tirannia di
piccoli gruppi, in particolare di quelli che urlano più forte degli
altri».
Sottolineare i rischi della “Ultrademocrazia”, non rischia di favorire movimenti reazionari?
«Le posizioni reazionarie sono velleitarie per definizione. Né gli
individui né le società possono tornare indietro nel passato. Inoltre,
avere un approccio reazionario non permette di comprendere quel che sta
accadendo. Le democrazie devono rimanere aperte, liberali, senza
chiudersi in false nostalgie. I cittadini devono battersi per difendere
lo spirito originale della democrazia, nei suoi valori “regolati” e non
“estremi”, per riprendere Montesquieu. Le democrazie non sono condannate
alla sconfitta perché il destino collettivo non è mai deciso in
anticipo. Da sempre, i democratici si trovano a dover costruire un mondo
improbabile».
La dittatura delle minoranze è il vero pericolo di oggi
di Roberto Esposito Repubblica 23.2.14
Negli ultimi decenni le forme di rappresentanza hanno subito molte
contestazioni E così adesso si reclama in misura esasperata
l’espressione diretta della volontà popolare
Cosa deve intendersi per “ultrademocrazia”? Diversamente dalla
postdemocrazia a suo tempo teorizzata da Crouch e Dahrendorf, il
concetto implica che la democrazia non è affatto esaurita, anche se
sottoposta a una costante deformazione che la mette in pericolo. La tesi
di Dominique Schnapper è che lo stress crescente cui essa appare
sottoposta non venga dall’esterno – dagli ultimi totalitarismi o dai
nuovi fondamentalismi – ma sia l’esito della sua stessa logica, spinta
alle estreme conseguenze. Rispetto a coloro che hanno parlato di limiti
della democrazia, o di “promesse non mantenute”, l’argomento viene
adesso rovesciato. Proprio per aver cercato di mantenere le proprie
promesse fino in fondo, la democrazia rischia di avvitarsi in un
cortocircuito dal quale non è facile uscire.
Se si guarda in maniera non superficiale a quanto accade, è evidente che
le contraddizioni che oggi insidiano i regimi democratici vadano
ricondotte al suo stesso dispositivo logico. I due paradigmi che della
democrazia costituiscono gli assi portanti – e cioè quelli di sovranità e
di rappresentanza – fin dall’inizio non si articolano senza difficoltà.
Come integrare l’idea di “volontà generale”, formulata da Rousseau,
agli interessi, spesso in contrasto, degli individui che la compongono?
Cosa fa dell’insieme di singoli cittadini un medesimo popolo sovrano?
Dopo che a lungo l’apparato statale ha rischiato di soffocare la libertà
individuale, da tempo assistiamo ad uno sbilanciamento del principio
democratico verso il polo contrario. Ma con un esito altrettanto
problematico. In un caso come nell’altro – sia per eccesso di sovranità
statale che per eccesso di individualismo – a mettere in crisi le nostre
democrazie è l’estremizzazione unilaterale di un vettore presente nel
suo corredo genetico.
Lo stesso vale per la dialettica tra rappresentanza e partecipazione. Il
meccanismo rappresentativo costituisce l’unica maniera, negli Stati
moderni, di veicolare la volontà popolare all’interno delle istituzioni.
Ma, come è stato ben presto chiaro, è impossibile trovare un modo di
collegare stabilmente i rappresentanti alle intenzioni dei
rappresentati. È ovvio che un certo grado di autonomia dei primi sia
necessaria per liberarli da vincoli clientelari o interessi particolari.
Ma il tracadimento, tutt’altro che raro, delle aspettative degli
elettori che ne è scaturito ha di gran lunga oltrepassato il limite,
diventando una delle prime cause della disaffezione generale nei
confronti della politica.
Anche in questo caso, per comprensibile reazione, l’ago dell’opinione
pubblica tende da tempo ad oscillare in direzione opposta. A un eccesso
di democrazia rappresentativa si contrappone adesso l’elogio di quella
diretta. Se la rappresentanza, come è interpretata dai partiti, appare
scarsamente affidabile, è necessario tornare ad una forma di
partecipazione diretta, legando senza mediazioni la decisione politica
alla volontà dei cittadini. Lo strumento individuato, a questo fine, è
oggi la rete. Che si tratti di un canale essenziale anche per la
politica è fuori discussione. Tuttavia il suo uso indiscriminato non
accanto, ma contro, le altre procedure di deliberazione minaccia di
spingere la prassi democrati- al di là dei suoi confini. Mai come in
questo caso si può parlare di “ultredemocrazia”, intendendo con tale
espressione il controeffetto che un’opportunità, non controllata nella
sua misura, può determinare. Il rischio di un’utilizzazione
spregiudicata del web – come lo sperimentiamo in questi giorni in Italia
– è duplice. Intanto sta nell’ambivalenza costitutiva del medium.
Che da un lato è veicolo di libertà, dall’altro di controllo. Esso
include, ma anche esclude, secondo gli interessi di chi ne gestisce il
funzionamento. Il secondo possibile effetto perverso della rete riguarda
il suo uso in termini populisti. Attraverso di essa il leader può
influenzare, utilizzandola ai propri fini, l’opinione pubblica. Ma anche
farsene plasmare al punto di esserne governato anziché cercare di
governarla.
Ancora una volta un eccesso di democrazia rischia di metterne in
discussione i presupposti costitutivi. Alla base di tale contraddizione
vi è, ancora, il rapporto tra il tutto e le parti. Abbiamo imparato da
Tocqueville cosa sia la tirannide della maggioranza. Ma adesso, con un
rovesciamento speculare, rischiamo di sperimentare la tirannide della
minoranza. E possibile, e fino a che punto, che una forza politica
minore impedisca, con ogni mezzo, alla maggioranza di governare? O,
spostandoci in altro ambito, può una modestissima percentuale di
elettori svizzeri portare all’approvazione di un documento, come quello
sulla limitazione dell’immigrazione, contrario ai valori e agli
interessi dell’intera Comunità europea? Non è anche questo un esito
ultrademocratico della democrazia?
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