domenica 2 febbraio 2014
Le cronache di Joseph Roth dall'Italia fascista
Joseph Roth: La quarta Italia, a cura di Susi Aigner, Castelvecchi, Roma, pagg. 56, € 8,00
Risvolto
Nell’autunno del 1928, Joseph Roth è in Italia, inviato dal quotidiano
«Frankfurter Zeitung» per raccontare ai lettori tedeschi il Paese di
Mussolini. I suoi reportage, raccolti in seguito sotto il titolo La quarta Italia,
sono un piccolo capolavoro di giornalismo letterario, in perfetto e
singolare equilibrio tra ironia e profonda inquietudine. Roth racconta
la mancanza di senso del ridicolo nei rituali nel nazionalismo, il
pervasivo culto della personalità del Duce, il clima di delazione e lo
stato di polizia, l’asservimento della stampa e la censura, le
sotterranee forme di opposizione. Il suo sguardo si sofferma sui
particolari – l’abbigliamento di una camicia nera o l’ambigua gentilezza
del portiere d’albergo che lo spia – e adotta un tono leggero, a tratti
umoristico, dietro il quale però lascia emergere, sempre più netto, il
grido di allarme. Nella chiave di un pessimismo non ancora disperato,
Joseph Roth ci consegna così una lucida e impietosa testimonianza
sull’Italia del Ventennio.
L'Italia fascista vista da Roth
di Emilio Gentile Il Sole Domenica 2.2.14
Furono
molti gli stranieri che visitarono l'Italia negli anni del regime
fascista. Fra questi vi fu Joseph Roth. Lo scrittore austriaco, dopo
aver partecipato da volontario alla Grande guerra e aver assistito al
disfacimento dell'impero austro-ungarico, che evocò con ironica
nostalgia nei suoi romanzi, nel 1920 si trasferì a Berlino e divenne
giornalista della «Frankfurter Zeitung». Per incarico del giornale fece
numerosi viaggi all'estero. Nel 1926 fu in Russia e negli articoli
descrisse «l'imborghesimento della rivoluzione bolscevica», cioè la
trasformazione del «primo governo rivoluzionario del proletario nella
storia e nel mondo» in uno «Stato gigantesco», con le sue ferree
gerarchie, un vasta burocrazia di funzionari «buoni, coscienziosi,
mediocri ottimisti e dogmatici», e una immensa massa popolare istruita
nel conformismo ideologico. Dopo il terrore rosso nei primi anni della
dittatura, osserva Roth, in Russia imperava «il terrore ottuso,
silenzioso, nero della burocrazia, il terrore della penna e del
calamaio»: «Passato è il tempo delle gesta eroiche: questo è il tempo
dei diligenti lavori burocratici. Passato è il tempo delle epopee:
questo è il tempo delle statistiche» (J. Roth, Viaggio in Russia,
Adelphi 2001).
Due anni dopo, nell'autunno del 1928, per conto della
«Frankfurter Zeitung», Roth fece un viaggio in un altro Paese dominato
da un regime a partito unico, nella «quarta Italia», come egli la
chiamò, dove da sei anni governava Mussolini. La prima cosa che lo colpì
entrando in Italia alla stazione ferroviaria, come scrisse Roth nel suo
primo articolo pubblicato il 28 ottobre, la giornata in cui il regime
fascista celebrava la «marcia su Roma», fu un giovane milite fascista,
con la camicia nera, larghi pantaloni da cavallerizzo, gambali
splendenti, e alla cintura «una graziosa pistoletta simile più a un
ornamento che a un'arma». Il giovane esibiva un viso duro, che pareva
dire ai viaggiatori stranieri: «Guardatemi! Sono lo sguardo di un
fascista!».
Con sarcasmo, Roth descriveva il suo stupore nel vedere
ovunque la presenza di militari, come se si fosse ancora in tempo di
guerra: «Quanto entusiasmo guerresco in queste stazioni, dove arrivano
così tanti stranieri amanti di musei, nature pacifiche e agiate, per le
quali bisognerebbe schierare piuttosto esperti storici dell'arte!». E
accanto alle uniformi notò la presenza di «spie della polizia in
borghese», riconoscibili «da una concezione plebea dell'assenza di
eleganza» per un abbigliamento alquanto vistoso, che Roth considerava
rivelatore della loro funzione, che «non è sorveglianza, ma
intimidazione». Per questo, pur con «tutta la loro pericolosità» le spie
fascista gli apparivano infantili, come infantili erano «i disegni
primitivi che ritraggono Mussolini in posa cesarea» diffusi ovunque,
mentre «serio sembra essere soltanto l'olio di ricino».
Il confronto
con la Russia bolscevica era per Roth inevitabile, se non altro perché,
precisava, «quotidianamente in giornali, riviste e opuscoli il fascismo
viene paragonato al bolscevismo, la dittatura di Lenin alla dittatura di
Mussolini». Egli però riscontrava solo differenze. Per esempio, le spie
russe erano «discrete e invisibili»; il soldato della guardia rossa era
«semplice e massiccio», non «aveva il profilo da imperatore e una
pistola civettuola»; le immagini di Lenin erano fotografie a buon
mercato, che lo ritraevano con l'aspetto di un impiegato «e una cravatta
storta di pessima qualità». E se nella Russia bolscevica aveva avuto
l'impressione di essere accolto da una «pericolosa, dura inesorabilità»,
nell'Italia fascista, con i militi armati di pistolette, gli sembrò di
essere accolto «dal romanticismo trasparente di un film poliziesco»: «Mi
rifiuto di pensare che queste pistolette possano sparare. Eppure,
possono sparare», concludeva Roth, passando dal sarcasmo all'ironia.
Sempre
oscillando fra sarcasmo e ironia, il giornalista descrisse nei
successivi articoli gli aspetti tipici dell'Italia fascista:
l'onnipresente culto del duce; le strade quotidianamente percorse da
fascisti in marcia, che esprimevano «un'esaltazione di massa» mentre
sfilavano fra curiosi silenziosi; le manifestazioni di bambini con
l'uniforme dei «Balilla», trasformati in «una specie di miniature
militari», e allevati nel catechismo fascista «i cui credo più
importanti – citava Roth – suonano così: "Io sono l'Italia, la tua
padrona, il tuo Dio"; "Credo nel genio di Mussolini"; "E nel nostro
Santo Padre, il fascismo e nella comunione dei martiri"; "Nella
conversione degli Italiani e nella resurrezione dell'Impero. Amen!"».
Tutto ciò dimostrava che «al sentimento nazionalistico manca il senso
del ridicolo». Ma sarcasmo e ironia cedevano a una serietà drammatica
quando Roth parlava del noioso conformismo della stampa italiana,
costretta a esibire un «ottimismo obbligato», e soprattutto quando
descriveva la condizione dell'italiano comune, che viveva «nella
costante paura di poter diventare sospetto» ed essere consegnato
«completamente all'arbitrio della polizia».
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