Storia dei fatti umani
Un nuovo volume con tutte le edizioni della «Scienza nuova» opera a cui il filosofo napoletano lavorò per tutta la sua vitadi Maria Bettetini Il Sole Domenica 14.9.14
Con un curriculum vitae così, Giambattista Vico non potrebbe certo oggi aspirare alla carica di Ministro o Rettore, forse nemmeno Preside. Nato a Napoli in via San Biagio dei Librai il 23 giugno del 1668, figlio appunto di un libraio, quest'uomo di genio, oggetto negli ultimi tempi di attenzioni interdisciplinari, a sette anni cadde e si fratturò il cranio. Le previsioni mediche lo volevano morto o stolido, ma riuscì a seguire la scuola di grammatica dei Gesuiti. Presto però la abbandonò, cercò di studiare da solo, sconfitto tornò dai Gesuiti, che di nuovo lasciò annoiato per studiare Suarez per conto suo. Inutile dire che si iscrisse all'università da privatista e si laureò in giurisprudenza, pur nutrendo interessi soprattutto filosofici. Il giovane Vico si dedicò a studi sempre privati, per vivere insegnò, tentò senza riuscire di avere un posto come segretario in Municipio, si ammalò di tisi, ottenne per un pelo una cattedra di retorica, ma perse il concorso per quella di diritto, a cui teneva tanto.
Gianbattista Vico deve mantenere padre e fratelli, ai quali dal 1699 si aggiungono la moglie Caterina e via via otto figlioli. Scrive su commissione, insegna, pubblica. Alcuni suoi testi vanno perduti, altri sono di tono celebrativo, ma la mole di opere scientifiche a noi giunte è davvero imponente. Fisica, metafisica, filosofia del diritto, i suoi autori di riferimento sono Platone (e i Neoplatonici), Tacito, Bacone, Grozio (da lui chiamato «Ugon capo»), è evidente l'attenzione per il rapporto tra civiltà e presenza divina, vita sociale e valore della storia. Dopo l'ennesimo concorso universitario andato male, nel 1723, sorpreso e amareggiato, Vico dedica alla scrittura tutte le energie che il mantenimento della famiglia gli lascia. Esce così nel 1725 la prima versione dei Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni o più brevemente la Scienza nuova. A quest'era Vico lavorò per tutto il corso della vita, con un'edizione del 1730 integralmente riscritta, anche a seguito di critiche ricevute, e infine quella postuma, rivista del tutto se pur senza grandi modifiche, pubblicata nel 1744, a pochi mesi dalla sua morte, dal figlio Gennaro cui aveva già lasciato il posto di insegnante di retorica. Anche questa sorta di cattedra in eredità fa comprendere come fino all'ultimo Vico dovette occuparsi della famiglia, colpita tra l'altro negli anni da malattie e disgrazie.
Ora le tre edizioni della Scienza nuova sono disponibili grazie a quella che oggi si definisce sezione napoletana dell'Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno, già Centro di studi vichiani. Fu Pietro Piovani, illustre storico della filosofia, a incoraggiare un'edizione critica delle opere di Vico, e in trent'anni sono stati pubblicati, da suoi allievi e da allievi loro, nove volumi del Vico italiano e latino, tra i quali le edizioni della Scienza Nuova: quella del 1730, a cura di Fulvio Tessitore e Manuela Sanna e quella del 1744 a cura di Paolo Cristofolini e sempre Manuela Sanna. Non c'è ancora una edizione critica della Scienza del 1925 e finché non sarà pronta si propone ancora quella di Fausto Nicolini, del quale si conoscono i tentativi di normalizzazione, e quindi di mancato rispetto, del testo vichiano. Nel frattempo i curatori hanno presentato una doppia uscita editoriale, per Bompiani le tre edizioni in un unico volume, con in nota solo le citazioni delle fonti dirette, introdotte da un saggio di carattere teoretico di Vincenzo Vitiello. In volumi unici, invece, le singole edizioni della Scienza, ultima quella del 1744 per le Edizioni di Storia e Letteratura, con commenti e apparati più specialistici. Insomma, un librone con i tre testi alla portata del pubblico colto, i volumi separati per i professionisti della storia della filosofia. Tutti comunque, anche i non specialisti, concorderanno nel trovare la prosa di Vico piana e comprensibile, penalizzata da quelli che a noi suonano arcaismi, ma invece erano parte del parlare quotidiano in lingua volgare. Spesso oggi si utilizzano invece gli arcaismi per vezzo, come fiori che dovrebbero innalzare il tono di discorsi già complessi.
Veniamo dunque alla Scienza di Vico, definita anche storia ideale eterna o storia delle umane idee o filosofia dell'autorità: perché «nuova»? Perché, contrapponendosi a Cartesio, Spinoza, Leibniz, Vico intende come principio della conoscenze non il lavoro di un intelletto astratto e purificato, ma i fatti così come si presentano a noi nel presente e nel passato. Il primo «fatto» che appare a ogni umano è il desiderio di vivere eternamente, che rinvia a una forza superiore alla natura, quel Dio che non occorre porre altrimenti in discussione. La religione non è dunque campo della fede, ma principio di spiegazione razionale dell'inizio della storia. Una storia che inizia dal «sapere volgare» e non dalle pensate filosofiche, «la sapienza volgare del genere umano, la quale cominciò dalle religioni e dalle leggi, e si perfezionò e si compiè con le scienze con le discipline e con le arti». Sintetizzerà Foscolo qualche decennio più tardi: «Dal dì che nozze e tribunali ed are / Dier alle umane belve esser pietose / Di sè stesse e d'altrui, toglieano i vivi / All'etere maligno».
Quel giorno per Vico è l'inizio della Storia, che viene poi raccontata nei libri seguenti come un indistinto procedere di fatti e di pensieri, di miti, di arti. Come in una seconda Città di Dio, gli eventi storici sono ricollocati secondo un ordine biblico e filologico, a partire dal Diluvio Universale, scanditi nelle tre età, degli dei, degli eroi, degli uomini. Si affidano agli dei (plurale) gli uomini che non sanno ancora usare della ragione e ascoltano i sensi, onorano eroi gli uomini che imparano a usare della forza, sanno agire per ragion di Stato, usano della fantasia come di una forza conoscitiva e credono per certo il vero perché dotati di quel «senso comune» che permette di trovare gli stessi desideri, vizi e virtù in ogni umano. Gli uomini entrano poi nell'età degli uomini quando infine sanno darsi delle leggi e dei tribunali, e sanno indagare il vero con la ragione.
I filosofi? Non sempre utili, per esempio Talete, il primo, «cominciò da un principio troppo sciapito – dall'acqua – forse perché aveva osservato con l'acqua crescer le zucche». Che insolente questo Vico. I posteri l'avranno anche riconosciuto, ma con questo atteggiamento e questo cv, lo dicevamo, oggi come allora sarebbe bocciato ai concorsi.
È la legge che ci rende civili
Nella concezione vichiana il legislatore deve riflettere il retroterra culturale di un popolo, difendere gli interessi comunitari e l'utilità socialedi Gennaro Sangiuliano Giambattista Vico/2
Per Giambattista Vico, la legge, o meglio l'ordinamento giuridico, che presiede uno Stato e un popolo, è il metro capace di misurare l'avanzamento della civiltà umana. Lo dimostra chiaramente nella sua opera fondamentale La Scienza Nuova laddove ripercorre gli snodi di alcune legislazioni fondamentali dell'antichità attraverso le quali è possibile operare una hermeneutica historiae. La Legge Publilia, ad esempio, «un punto massimo d'istoria romana» segnò il passaggio dalla repubblica aristocratica a quella popolare.
Laureato in legge, profondo conoscitore dei giuristi francesi e olandesi, con una breve esperienza nell'avvocatura, Vico, indaga a fondo sul rapporto fra legge e cultura, perché la legislazione non è altro che l'organizzazione normativa di una comunità e ne riflette il sentire comune, il retroterra culturale. Tema decisivo, non privo di implicazioni delicate se si pensa ai pericoli di una cultura egemone che vuole imporre i suoi postulati attraverso la legge. Argomento rimasto intatto nel suo valore del quale si occupano i Saggi scelti – Giambattista Vico a Vatolla (Edizioni Palazzo Vargas, pagg. 144, € 10,00) curati e introdotti da Gianpiero Paolo Cirillo che affronta il rapporto fra politica, governo e amministrazione nella formazione dello Stato moderno. Il tema del delicato rapporto fra cultura e diritto, e quindi delle relazioni fra diritto e filosofia, trova in Vico una soluzione che influenzerà a lungo tutto il pensiero a lui successivo.
L'originalità è nell'aver affermato la storicità del diritto, nell'inquadrare il fatto come accadimento storico che diventa fatto normativo. Gli istituti giuridici devono corrispondere agli interessi comunitari che li hanno espressi e mantenere l'utilità sociale.
Il giurista nella concezione di Vico deve elaborare una dimensione assiologica tenendo presente il trascendentale storico di una comunità, individuare «l'intelligenza dei valori» di un popolo, impostazione poi rimarcata da Giovanni Gentile nei suoi studi vichiani. «Quando il giurista si accosta al tema della cultura, lo fa con una sorta di complesso di inferiorità, che forse gli deriva dalla consapevolezza che, anche nell'ipotesi in cui egli crei una teoria giuridica del tutto nuova e appagante, non ci si trovi di fronte ad un atto creativo in senso proprio», avverte Cirillo, che chiarisce come il «rapporto tra il giurista e l'uomo di cultura è un rapporto servente». Ma il giurista può essere esso stesso persona colta capace di ricercare quel «senso comune delle Nazioni», la «primitiva sapienza dei popoli», elementi che Vico ritiene punto di partenza dell'attività del legislatore e di quella interpretativa. Nell'opera De uno universi juris principio et fine uno ricorda, quindi, come la conoscenza della storia sia fondamentale per la produzione della legge.
Del resto, la Scienza Nuova è "nuova" perché apre al riconoscimento della storia delle idee, dei costumi e degli usi dei popoli puntando ad armonizzare senso e ragione. Il sorgere della legge, disegnato dal diritto dei filosofi, è il rinvenimento di questo ordine che ha tratti metafisici capaci di coniugarsi con la verità del fatto.
L'attualità di Vico è anche nella determinazione del delicato rapporto fra ordinamenti nazionali e organismi sovranazionali diventati, in alcuni casi invadenti. «Il problema da affrontare oggi – scrive Cirillo – è quello di individuare degli strumenti con cui i governi e le burocrazie interne possano fronteggiare lo strapotere che le comunità internazionali esercitano attraverso la tecnicizzazione delle norme».
In una lettera scritta nel 1787 da Napoli Wolfgang Goethe definì Giambattista Vico l'Altvater della sapienza, intuendo il debito che la cultura germanica avrebbe contratto con la filosofia vichiana.
Prima ancora che un grande filosofo, l'autore della Scienza Nuova fu un giurista a tutto tondo, un teorico del diritto che rifiuta una legge universale ed astratta in nome di una legge profondamente ancorata alla cultura di un popolo.
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