Luca Ricolfi La Stampa 25.2.14
Sono in molti a pensare che in Italia, in Europa, più in generale nei
paesi avanzati, il problema della crescita sia diventato tale solo sette
anni fa, quando la grande crisi pose fine a un lungo periodo di
prosperità, se non di euforia. E infatti, fino ad allora, anche tra gli
studiosi il problema dominante è sempre stato un altro: non già come far
crescere i paesi ricchi, ma come far sì che anche i paesi poveri
potessero conoscere i benefici della crescita, fino a raggiungere i
livelli di benessere dei paesi ricchi.
Quel modo di ragionare, ora che molti paesi ex poveri galoppano come
gazzelle, e molti paesi ricchi strisciano lenti come lumache, ci pare
improvvisamente sbagliato. Ma in realtà era già sbagliato prima. Uno
sguardo d’insieme a mezzo secolo di storia delle economie avanzate (i
paesi Ocse), dalla fine degli anni 50 all’inizio della crisi, permette
infatti di notare due cose.
Primo. L’insieme delle economie avanzate è in rallentamento da mezzo
secolo, e il ritmo di rallentamento è di quasi un punto percentuale al
decennio. Detto crudamente: già prima della crisi del 2008-2013 le
economie avanzate erano a un passo dalla stagnazione. Un trend
perfettamente in linea con il «modello di Solow» (formulato fin dal
1956), ma stranamente ben poco notato dagli osservatori.
Secondo. Negli ultimi cinquant’anni, ogni periodo ha sempre avuto le sue
lumache e le sue gazzelle, con paesi che a mala pena riuscivano a
crescere a un ritmo dell’1% e paesi che correvano al ritmo del 5, 6, 7, e
persino 8%. E questo nonostante la comune appartenenza al club delle
economie avanzate.
Oggi si discute molto di exit strategy, ossia di come uscire dalla crisi
e tornare a crescere. Ma forse dovremmo cominciare a renderci conto che
la crescita era un enigma e un problema già prima della crisi. Se non
riusciamo a capire come mai già da diversi decenni stavamo crescendo
sempre più lentamente, e come mai certi paesi correvano tanto più in
fretta di altri, diventa ancora più arduo trovare una via di uscita.
Ecco perché, anziché perdermi nel labirinto degli anni di crisi
(2008-2013), ho provato a studiare che cosa stava succedendo prima di
essa, e più precisamente nell’ultimo e relativamente lungo periodo di
crescita ininterrotta dei paesi ricchi, ossia dal 1995 al 2007. I
risultati hanno stupito anche me, ma il più sorprendente è il seguente:
di tutte le forze che possono influenzare la crescita, favorendola o
ostacolandola, quella di gran lunga più importante, così importante che
da sola conta più di tutte le altre messe insieme, è semplicemente il
benessere che un paese ha raggiunto. Attenzione, però, il benessere
conta non perché stimola la crescita, bensì perché la spegne. A parità
di altre condizioni (tasse, istituzioni, capitale umano), un paese
cresce tanto di più quanto più è lontano dal benessere, e tanto di meno
quanto più alti sono gli standard di benessere che ha raggiunto.
Ma crescita significa precisamente aumento del reddito pro capite,
dunque del benessere. Di qui una conseguenza sconcertante: la crescita
genera dal proprio interno le forze che possono spegnerla. Questo
significa che un paese che voglia tornare a crescere, o crescere di più
che in passato, ha tante meno possibilità di riuscirci quanto più è
«arrivato», e deve quindi più che mai agire sulle altre forze e
contro-forze che influenzano la crescita: più investimenti in capitale
umano, migliori istituzioni di mercato, meno tasse sui produttori.
Resta la domanda: perché il benessere rallenta la crescita?
La risposta tradizionale è che non è il benessere in sé la causa del
rallentamento, ma è il fatto che i paesi con il maggiore benessere sono
anche quelli più vicini alla «frontiera tecnologica» (sono equipaggiati
con le migliori tecnologie), il che – contrariamente a quel che verrebbe
da pensare lì per lì – non costituisce un vantaggio ma un handicap. Se
io sono un paese arretrato, posso imitare i paesi più avanzati, ma se
sono già un paese avanzato, allora non ho nessuno davanti a me, nessuna
possibilità di copiare prodotti o importare tecnologie.
Questa spiegazione, sfortunatamente, pare essere incompatibile con i
dati. Dunque dobbiamo cercarne un’altra, o quantomeno completarla con
una spiegazione più ricca. Ebbene, a mio parere la ragione fondamentale
per cui il benessere frena la crescita è che, man mano che diventano
ricche, le società modificano radicalmente la propria cultura, come
rettili che cambiano pelle. Alcuni aspetti di tale modificazione sono
sotto gli occhi di tutti, altri sono meno evidenti, ma il punto è che
quasi tutti militano contro la crescita, e lo fanno per l’elementare
ragione che, in modo diretto o indiretto, innalzano i costi di
produzione.
Nelle società avanzate il lavoro costa di più, spesso molto di più, e
non solo perché sul lavoro grava ogni sorta di tasse e contributi, ma
semplicemente perché una società del benessere è una società che paga
bene i suoi lavoratori e minimizza il ricorso al lavoro nero. Nelle
società avanzate le imprese sostengono extra-costi enormi legati a
quello che, quantomeno nei casi virtuosi, è semplicemente il prezzo
della civiltà: leggi per la sicurezza sul luogo di lavoro, norme di
protezione dell’ambiente, regole di smaltimento dei rifiuti, obblighi di
certificazione, adempimenti e controlli a tutela dei consumatori, tutte
cose che nei paesi arretrati non ci sono, o esistono allo stato
embrionale. Nelle società avanzate, infine, l’offerta di lavoro è
relativamente scarsa, perché il valore del tempo libero è più alto, una
parte della disoccupazione è volontaria (i nativi lasciano i posti
peggiori agli immigrati), il bisogno di auto-miglioramento è più tenue. O
forse sarebbe meglio dire: quel bisogno è più circoscritto, più
concentrato su determinate fasce di popolazione, come gli immigrati e
gli strati più umili della società, i soli ancora disposti a compiere
sacrifici e a differire le gratificazioni, proprio come noi negli anni
50 e 60.
Ma una società in cui il tempo dell’intrattenimento supera quello del
lavoro, la popolazione inattiva eccede quella attiva, i settori
assistiti soffocano quelli che creano ricchezza, il bisogno di
protezione prevale sulla volontà di rischiare, una società, insomma, in
cui la cultura dei diritti ha preso definitivamente il sopravvento su
quella dei doveri, è una società che ha cambiato pelle. Una simile
società non può crescere, o non può crescere come un tempo, innanzitutto
perché ha perso l’energia per farlo.
Possiamo dolercene, perché preferivamo la vita dura ma attiva dell’era
dei miracoli economici. Oppure possiamo pensare tutto questo come
conquista di civiltà, come il segno che le nostre sono società
«arrivate» (una visione, quest’ultima, non estranea al pensiero di
Keynes, che l’ebbe a tratteggiare già nel 1928, nel saggio Prospettive
economiche per i nostri nipoti).
Quello che non possiamo fare, invece, è non vedere che il nostro mondo è
profondamente cambiato, e che il nemico numero uno della crescita è il
tipo di società che la crescita stessa ha prodotto. Una società che, nel
mio libro, ho provocatoriamente definito una «società signorile di
massa», perché la condizione signorile, il vivere senza produrre, vi
occupa uno spazio sempre più grande, e la condizione servile, il
lavorare duro per tutti gli altri, non ne è affatto scomparsa, come
attesta la condizione degli immigrati.
Sicché, dopo aver scritto che per tornare a crescere dobbiamo agire sui
tre motori fondamentali – qualità del capitale umano, buone istituzioni
economiche, poche tasse sui produttori – il dubbio che mi assale è se
tutto questo possa bastare, e se il nostro vero problema non sia
piuttosto il tipo di civiltà in cui accettiamo di vivere. Una civiltà
non così ricca da potersi fermare, appagata e soddisfatta di sé. Ma, al
tempo stesso, una civiltà in cui il parassitismo e la fuga dalla
responsabilità sono andati così avanti da compromettere ogni sogno di
migliorare le nostre vite.
Mi chiedo se non dovremmo, davvero, provare a voltar pagina.
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