lunedì 10 febbraio 2014
Pierre Bourdieu: le lezioni sullo Stato e i corsi inediti su Manet e la rivoluzione simbolica nell'arte contemporanea
Pierre Bourdieu: Sullo Stato, corso al Collège de France, vol. I, 1989-1990, Feltrinelli
Risvolto
‟Lo Stato è un Giano bifronte di cui risulta impossibile enunciare una proprietà positiva senza evocarne, contestualmente, un’altra negativa, una proprietà hegeliana senza una marxista, una proprietà progressista senza una regressiva e oppressiva.”
Che cos’è lo Stato? Che cosa si intende quando si parla di Stato, di atti di Stato, di ragion di Stato? Per alcuni lo Stato è un’istituzione creata per servire il bene comune, per altri, all’opposto, un apparato concepito per il mantenimento dell’ordine pubblico. Secondo Pierre Bourdieu, lo Stato è il nome che diamo a una serie di principi nascosti, invisibili, dell’ordine sociale e insieme del dominio. Lo Stato è il detentore della violenza, non solo fisica, come pensava Max Weber, ma anche simbolica legittima, e l’ordine pubblico che garantisce non si basa semplicemente sulle forze di polizia e militari, bensì anche sul consenso. Lo Stato è un’illusione ben fondata, quel luogo che esiste essenzialmente perché crediamo che esista. Bisogna partire da qui per capirne le reali funzioni e le effettive dinamiche. La questione dello Stato, sebbene ne attraversi e tenga insieme tutta l’opera, non è diventata oggetto di un libro specifico di Bourdieu, che le ha però consacrato tre anni del suo insegnamento al Collège de France. Concentrandosi sull’analisi della genesi dello Stato le sue lezioni contribuiscono a chiarire il mistero di questa entità illusoria che compie atti ufficiali, dotati di autorità, attribuendosene il mandato, e che costituisce lo spazio per i conflitti tra diversi campi la cui posta in gioco è la rispettiva posizione di potere. Il corso, ricchissimo di riferimenti a vari ambiti disciplinari, alla letteratura classica in materia e alle ricerche contemporanee, consente oltretutto di leggere un ‟altro” Bourdieu, che espone con grande chiarezza il proprio pensiero nel suo stesso farsi e la propria metodologia di ricerca. In un momento di crisi delle istituzioni statali quale il presente quest’opera, già accolta come un classico in Francia, offre gli strumenti critici necessari per una comprensione più lucida e profonda degli ambiti del dominio.
Pierre Bourdieu: Manet. Une révolution symbolique, Seuil, pp. 782, euro 32
Risvolto
Comment s’opère une révolution symbolique et comment réussit-elle à s’imposer ? À travers le cas exemplaire d’Édouard Manet, c’est à cette question que s’est confronté Pierre Bourdieu dès les années 1980 et à laquelle il a consacré les dernières années de son enseignement au Collège de France. Ce deuxième volume des cours inédits du sociologue, accompagnés d’un livre resté inachevé, marque ainsi l’aboutissement d’une réflexion centrale dans son œuvre.
Située en pleine crise de l’Académie, à un moment où la croissance du nombre des peintres remettait en cause la tutelle de l’État sur la définition de la valeur artistique, la rupture inaugurée par Manet a abouti à un bouleversement de l’ordre esthétique. La nouvelle vision du monde qu’elle a engendrée a imprimé sa marque jusqu’à nos jours. En abordant la genèse des tableaux de Manet comme une série de prises de position qui sont autant de défis lancés à l’académisme conservateur des peintres pompiers, au populisme des réalistes, à l’éclectisme commercial de la peinture de genre et même aux « impressionnistes », Bourdieu montre qu’une telle révolution est indissociable des conditions d’émergence des champs de production culturelle.
Nel campo dell’eccentricità
Pierre Bourdieu. Le variegate e sempre respinte genealogie culturali del teorico francese
Benedetto Vecchi, il Manfesto 8.2.2014
Pierre Bourdieu ha sempre tenuto a sottolineare la sua estraneità alle diverse «scuole di pensiero» che hanno dominato la scena culturale, e accademica, in Francia. A chi lo voleva strutturalista, rispondeva attingendo a piene mani in campi teorici sideralmente lontani dallo strutturalismo. A chi lo voleva weberiano, rispondeva con l’elogio di Emile Durkheim. A chi, infine, lo dipingeva come un marxista «mimetico», ostentava il riferimento a volte ossessivo degli «errori» — questo il termine che amava usare — di Marx nell’analisi della società capitalistica.
Lo fa anche nel primo dei due volumi pubblicato da Feltrinelli che raccoglie le lezioni sullo stato tenute al Collège de France tra la fine degli anni Ottanta e il 1992 (a quando la pubblicazione del secondo volume?). In quelle lezioni, l’«inventore» della nozione di «campo» non risparmia critiche a Marx e a Louis Althusser, che allo Stato aveva dedicato non poca attenzione. Inutile ricordare anche le dichiarazioni di indifferenza verso Michel Foucault.
Questa ostentata ostilità verso chi cercava nei grandi nomi del pensiero critico possibili genealogie della sua «prassi teorica» è dovuta sicuramente a un fattore che attiene alla sua riservatezza, alla sua tensione a misurarsi con temi che normalmente sia la filosofia — Bourdieu aveva avuto una formazione filosofia — che la sociologia — «tecnica» di analisi scoperta in età matura — consideravano ai margini delle loro discipline. E nel catapultare al centro della scena aspetti fino ad allora considerati marginali introduceva espressioni che in molti hanno considerato o criptiche o «giochi linguistici». È stato così per la nozione di campo che di «prassi teorica». Il primo termine poteva indicare di tutto un po’, ma negli scritti di Bourdieu emerge invece la capacità di appunto svelare le relazioni di dipendenza del singolo dalla struttura sociale, la «prassi teorica» sottolinea la dimensione sociale della conoscenza.
Bourdieu è stato un intellettuale eccentrico, che preferiva soffermarsi su alcuni «dettagli» della vita sociale e attraverso quelli far emergere appunto le strutture sociali e di potere vigenti. Un’eccentricità che costituisce una indicazione di metodo e, al tempo stesso, il portato più rilevante di un’eredità intellettuale da mettere finalmente a verifica.
Oltre il recinto del senso comune
Pierre Bourdieu. La pubblicazione postuma dell’opera dedicata a Manet illustra come funzionava l’atelier teorico dello studioso. Un uso accorto dei testi per far emergere un punto di vista chiaro contro la «rivoluzione conservatrice» in corso in Francia
Anna Boschetti, il Manifesto 8.2.2014
Forse nessuno dei molti testi, sempre accuratamente rifiniti, pubblicati in vita da Pierre Bourdieu dà l’idea del suo modo di pensare e di lavorare quanto il volume postumo Manet. Une révolution symbolique (Seuil, pp. 782, euro 32) in cui è riunito ciò che rimane di una ricerca interrotta dalla morte: un manoscritto incompiuto e la trascrizione di due cicli di lezioni. Questo studio di caso, dedicato a ricostruire il processo attraverso cui la pittura francese è entrata nella modernità, mettendo in discussione il sistema accademico, era considerato da Bourdieu una delle sfide più importanti e difficili che avesse affrontato, come mostra la lunga e tormentata gestazione. L’aveva iniziato verso la metà degli anni Ottanta, poi, impegnato su altri fronti, l’aveva abbandonato. Ci era tornato in due corsi consecutivi al Collège de France (1998–1999 e 1999–2000), l’aveva nuovamente sospeso per dedicare l’ultimo anno alla sociologia della scienza, infine nell’autunno del 2001 aveva ripreso il vecchio manoscritto, deciso a rielaborarlo e a pubblicarlo. Non gli era stato ancora diagnosticato il male di cui sarebbe morto pochi mesi dopo.
Preoccupazioni congiunturali avevano certamente contribuito a fargli riprendere questo lavoro. Ricordare quanto era stata difficile ed eroica l’emancipazione della pittura dal potere accademico e statale era un modo indiretto per difendere l’autonomia della cultura, in tutte le sue forme, dall’arte alla scienza, contro la «rivoluzione conservatrice» che secondo Bourdieu era in atto nella società francese.
Il potere del simbolico
Nel corso su Manet Bourdieu sottolinea l’attualità della sua analisi, denunciando in particolare il populismo di cui si servono i conservatori, alla fine dell’Ottocento come nel 2000, per screditare la rivendicazione di autonomia delle ricerche artistiche e scientifiche che non sono immediatamente accessibili ai profani. In effetti molti degli intellettuali francesi che dalla metà degli anni Settanta si sono imposti all’attenzione mediatica (dai «nouveaux philosophes» a Jacques Rancière e Bruno Latour) si sono serviti di argomenti populisti per squalificare i loro più famosi predecessori: Lévi-Strauss, Lacan, Althusser, Foucault, Derrida e, in particolare, Bourdieu. I nuovi guru hanno preteso demagogicamente di farsi portavoce del senso comune, accusando di arroganza sia la visione strutturale, che spiega il soggetto ricostruendo il sistema di relazioni in cui è inserito, sia i «maestri del sospetto», colpevoli di aver fatto emergere l’impensato che si cela in ogni discorso.
Ma non si può capire l’interesse che questa ricerca presenta per chiunque desideri conoscere meglio il pensiero di Bourdieu se non si considera la scommessa teorica che rappresentava per lui. In quest’enorme cantiere, aperto su più fronti, ha messo alla prova tutti gli strumenti e i saperi acquisiti in oltre quarant’anni di lavoro. Il libro offre la possibilità di entrare in uno straordinario laboratorio e di cogliere il pensiero nel suo farsi.
Fin dall’inizio della sua carriera Bourdieu aveva focalizzato la sua attenzione sulla dimensione simbolica della realtà: il senso e il valore che diamo alle cose, anche quelle che consideriamo «materiali», dipendono dalle nostre categorie di percezione, convinzioni, emozioni. Riteneva che la tradizione sociologica non avesse elaborato strumenti adeguati per rendere conto di quest’aspetto fondamentale. Marx aveva sottolineato nella prima delleTesi su Feuerbach il «lato attivo» della realtà umana, ma non aveva sviluppato quest’intuizione, essendo preoccupato di sottolineare soprattutto, contro l’idealismo, il peso dei fattori economici. Emile Durkheim e soprattutto Max Weber avevano aperto la strada, con i loro studi sulla religione. Ma Bourdieu voleva elaborare un modello che permettesse di spiegare la cultura (in tutte le sue accezioni) di universi complessi e differenziati come la società contemporanea.
Modelli della trasformazione
Nei lavori sul sistema di insegnamento e nella Distinzione Bourdieu si è interrogato soprattutto sui meccanismi di riproduzione della cultura, per cercare di spiegare il grande paradosso della storia umana, il fatto che l’ordine simbolico tende a essere accettato come evidente, naturale, anche da quelli che ne sono vittime. Ha mostrato che le strutture mentali sono forgiate dalle strutture sociali, attraverso la scuola e la famiglia, e tendono quindi ad accordarsi con la visione dominante. Al tempo stesso non ha mai smesso di interrogarsi sulle condizioni che hanno reso possibile, in alcune congiunture storiche, la trasformazione dei principi di visione e di divisione del mondo. Lungi dal proporre una visione rassegnata, la sua opera muove dalla convinzione che la conoscenza dei determinismi sociali sia il solo strumento di cui l’uomo dispone per tentare di «defatalizzare» il mondo.
Bourdieu ha così progressivamente elaborato un modello multifattoriale di spiegazione del cambiamento. Lo studio di una «rivoluzione simbolica» riuscita era un modo per mettere alla prova questo modello. Si trattava non solo di individuare i fattori strutturali di una conversione mentale collettiva, ma di spiegare i meccanismi e gli esiti del cambiamento, grazie alla sua teoria dell’azione, da lui designata sinteticamente con le nozioni complementari di habitus e di campo. Avendo l’ambizione di provare la validità generale delle sue ipotesi, Bourdieu considerava come una sfida particolarmente significativa e un punto d’onore riuscire a rendere conto del funzionamento dell’arte e della letteratura, oggetti verso i quali sussiste ancora oggi un atteggiamento religioso, che pretende di sottrarli alla conoscenza razionale, come se non facessero parte del mondo sociale. Perciò era importante per lui non limitarsi ad analizzare aspetti «esterni» come il mercato e il pubblico, ma mostrare che la nozione di campo permetteva di spiegare sociologicamente anche gli aspetti più specifici di questi universi particolari: l’eroico disinteresse dimostrato da scrittori e artisti incompresi dalla maggior parte dei contemporanei come Baudelaire, Flaubert, Mallarmé, Rimbaud, Courbet, Manet, Cezanne, Van Gogh; gli aspetti tecnici e formali delle opere; la genesi dei canoni estetici e delle gerarchie di valore.
La quantità di piste che apre questo libro postumo attesta la fecondità del modello teorico e insieme la dismisura del lavoro che esso richiede. Mentre in altre ricerche Bourdieu ha potuto contare su un’équipe di collaboratori, qui ha proceduto da solo, e considerando il programma delineato nel manoscritto si capisce come in una lezione arrivi a confessare il suo sgomento di fronte all’impresa in cui si è imbarcato. L’indice dà l’idea della «missione impossibile» che si è imposto, nell’esigenza di analizzare sistematicamente il funzionamento dei diversi campi e settori che hanno un ruolo nella rivoluzione della pittura: il sistema accademico; il campo artistico;il campo della critica; i mercanti e i collezionisti; le innovazioni estetiche e pittoriche. Secondo la sua teoria, per spiegare le pratiche (rappresentazioni, discorsi, opere) occorreva fare un lavoro senza precedenti: ricostruire, per ognuno di questi mondi (compresa la produzione critica della posterità), la struttura delle posizioni nonché le traiettorie e le proprietà degli agenti. Inoltre, mentre nelle Regole dell’arte Bourdieu si era concentrato sul caso francese, qui si pone in una prospettiva comparativa, per spiegare l’eccezione che rappresenta la Francia, per la forza del sistema accademico e per la radicalità della rivoluzione compiuta dagli innovatori.
L’insidia del determinismo
Nessuno dei capitoli può dirsi finito. Alcuni sono note per un’immensa ricerca da fare. A volte Bourdieu avanza ipotesi che possono apparire discutibili o troppo perentorie. Ma si trova qui un esempio concreto e prezioso della complessa costruzione di oggetto che esige l’applicazione della «teoria dei campi». Le domande che Bourdieu si pone e le ipotesi che elabora sono trasponibili. Il libro mostra quanto siano fruttuose queste trasposizioni, per esempio facendo emergere ciò che accomuna il funzionamento del sistema accademico ai tempi di Manet e quello delle Grandes écoles francesi.
L’aspetto forse più affascinante e istruttivo è lo sforzo costante di riflessività. La meditazione sui problemi teorici e metodologici, sull’uso dei concetti, sul lavoro di ricerca occupa più di metà dei corsi e coinvolge profondamente, grazie alla passione e onestà intellettuale con cui l’illustre sociologo spiega quello che cerca di fare e confessa le sue difficoltà. A proposito di questioni fondamentali (come la distinzione tra «corpo» accademico e «campo» artistico, o il rapporto rottura/continuità nel cambiamento) si notano esitazioni e progressive correzioni che attestano la fedeltà all’ethos scientifico. Colpisce in particolare lo sforzo di vigilanza epistemologica sui determinismi insidiosi cui ogni ricercatore è esposto. Nel manoscritto, per esempio, raccomanda a se stesso: «non fare il poeta, bel discorso suggestivo». E (riferendosi al confronto con altri studiosi): «Sfuggire all’effetto campo: 1) non cercare l’originalità 2) non accontentarsi di contrapporsi. Superare conservando»”Questo breve promemoria riassume un segreto essenziale del pensiero di Bourdieu, che si è costruito, come ha detto e scritto spesso, con e contro Marx, Durkheim, Weber e innumerevoli altri autori, appropriandosi le acquisizioni e correggendo gli errori. Ha sempre giudicato antiscientifica e nefasta la logica dicotomica che riduce tutto a alternative semplici. Qui ribadisce con forza la persuasione che la conoscenza può progredire solo praticando un «eclettismo razionale». E quest’impresa, incompiuta, forse, anche perché interminabile, lo conferma attraverso le prospettive che apre e i problemi che pone a quanti vorranno proseguirla e superarla.
Il rivoluzionario Manet Quel picnic sull’erba che trasformò la società
In Francia viene pubblicato postumo il corso di Pierre Bourdieu dedicato al pittore ottocentesco
di Giancarlo Bosetti Repubblica 17.2.14
Esce postuma la ricerca di Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese scomparso nel 2002, su Édouard Manet (1832-1883): è un esempio di “socioanalisi” della traiettoria di un pittore rivoluzionario nella Parigi di metà Ottocento. La raccolta delle fonti è sterminata e riguarda tutto: le critiche d’arte e le alleanze di Manet contro e con i critici, la competizione con Courbet e il realismo, l’attacco all’art pompier e all’accademia, i suoi distinguo dagli impressionisti e il suo “fare scandalo” per conto proprio. Ma l’analisi di Bourdieu riguarda anche il “capitale” dell’artista e il suo habitus. Manet è un figlio dell’élite parigina, è un erede che rifiuta l’eredità del padre magistrato, ma la tesaurizza per trasferirla in un altro spazio di valori. La sua fu vera, vincente, rivolta, contro il Salon, l’istituzione statale da cui fu inizialmente rifiutato, al Louvre, ma si impose poi nel nuovo corso che cambiò per sempre il Salon.
Come fu possibile? Ci voleva più che il genio di un pittore.
Ora i corsi tenuti da Bourdieu tra il ’98 e il 2000 al Collège de France sono finalmente a disposizione nelle quasi 800 pagine (Manet. Une révolution symbolique, Seuil) curate dal gruppo di Raison d’agir, fatte di trascrizioni vivaci, appunti e anche di un lungo manoscritto inedito. Bourdieu era enormemente attratto dalla svolta pittorica provocata dall’autore del Déjeuner sur l’herbe, come lo era stato dalla svolta letteraria di Gustave Flaubert. Per Bourdieu questi due grandi autori erano gli esempi più limpidi di una “rivoluzione simbolica” capace di generare (o rovesciare) un “campo”, parola chiave del lessico bourdieusano. Il “campo” non designa solo l’area disciplinare in cui gli individui operano, esso è il terreno delle battaglie in cui si stabiliscono le gerarchie interne a una disciplina, a un ambiente culturale, a una professione, l’arena in cui si decide che cosa è rilevante e che cosa no. E il padre e la madre di tutti i “campi” è secondo Bourdieu, fin dalle origini, quello della religione, costituitosi nella competizione tra sciamani e profeti in lotta tra loro, per l’affermazione del primato nel potere simbolico, per decidere che cosa è ortodossia e che cosa eresia. Nelle battaglie culturali la somiglianza con la religione è molto più di una analogia. Chi vince è “consacrato” nei musei, anche se ha cominciato come “eretico” e ha battuto gli “integrati dominanti”, chi perde è fuori, resta un “marginale escluso”.
Niente è più come prima, dopo Manet. Se oggi ammiriamo il Déjeuner o il Bar aux Folies Bergères, più dei ritratti di Fantin-Latour o delle curatissime scene mitologiche di Bouguereau non è semplicemente perché Manet “è più bravo” di loro, ma perché ha trionfato nella sua arena, ha sconvolto la scena che ha trovato e ha costruito ex novo il “campo”. Se oggi i quadri che scuotevano Parigi nel 1862, al Salon alternativo dei “rifiutati”, sono diventati “banali” fino ad essere riprodotti sulla carta delle pasticcerie, le pagine di Bourdieu fanno il percorso inverso e “debanalizzano” la rivoluzione di cui anche il nostro sguardo di oggi è il prodotto. E ricostruiscono le incertezze e la violenza della lotta di allora.
Quando nel 1863 esce il Déjeuner (l’opera più commentata nella storia della pittura dopo la Gioconda), le reazioni sono di violenza inaudita: Manet sfida regole considerate auto-evidenti, rompe un ordine simbolico, dedica un quadro di grandi dimensioni, adatte a fatti solenni o religiosi, a un soggetto di “genere”, volgare: donne nude, ragazze di bassa condizione, amore mercenario (come anche nella successiva Olympia), accanto a studenti borghesi vestiti. Un cumulo di incongruenze: ambientazione pastorale per una scena salace; mancanza di prospettiva; le figure sembrano incollate; il personaggio sulla destra sembra parla-re, ma nessuno lo ascolta; non c’è – dicevano i critici – un senso, una “gerarchia morale”.
E invece il tema c’era: era la sfida all’accademia. Era una “pittura sulla pittura”. Nell’insieme appare come un sacrilegio e Bourdieu legge in parallelo le critiche a Manet e quelle che si scatenarono, tra i cattolici conservatori, contro la riforma del catechismo e l’abolizione del latino. Stessa indignazione. Manet subì l’attacco feroce del “populismo estetico” – forma perenne di conservatorismo – che si scatenò contro di lui come cinquant’anni fa in Italia i cinegiornali e le riviste popolari deridevano l’arte astratta, Picasso, Fontana, Manzoni. L’opera di Manet sfida l’arte “consacrata” non solo per la gioia di provocarla, ma perché vuole a sua volta consacrarsi.
Ha potuto vincere anche grazie all’accumulazione del “capitale” sociale necessario per l’impresa: Manet era il migliore della scuola d’arte di Thomas Couture, l’equivalente delle Grandes Écoles; frequenta l’elitario Collège Rollin dove conosce il suo futuro biografo Antonin Proust; entra nei salotti dove stringe rapporti con Nadar, Baudelaire, Monet (con cui detestava essere confuso), Gambetta, Delacroix, Théophile Gautier; conosce Berthe Morisot, pittrice, sua modella e poi moglie del fratello Eugène, e con lei trova un altro salotto fondamentale, dove passa il resto della Parigi che conta; si allea con l’influente Zola, che lo aiuterà a produrre una svolta tra i pesi massimi della critica: Thoré e Castagnary. Quell’accumulo di “capitale” gli ha dato la capacità di “mantenere la distanza dal ruolo”, e di “tenere” (anche se non funziona mai, nota Bourdieu, senza vere sofferenze anche nei grandi e anche nel successo).
Si sa che Bourdieu si auto analizzava per evitare di cadere nell’illusione biografica: «Manet c’est moi?» come per Flaubert Madame Bovary. Rischio sempre in agguato per tutti gli autori. Certo è difficile confondere due traiettorie così diverse: quella del sociologo di umili origini, figlio di un impiegato postale dei Pirenei, poi “consacrato” al Collège de France, e quella di un dandy che esce dalla noblesse d’état (guardare per capire il ritratto che gli fece Fantin-Latour) e che riesce a unire i due poli sociali dei ricchi banchieri e dei poveri bohémien con il suo habitus divaricato, clivé, capace di imporre il suo carisma nell’elegante Cafè Tortoni, nelle brasserie dei pittori squattrinati e al Louvre. Ma certo le sofferenze e i “rimossi” sociali mettono in gioco tutti, a tutte le latitudini della mappa, non meno di quelli edipici di cui si è occupato Freud.
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