lunedì 10 febbraio 2014

Pierre Bourdieu: le lezioni sullo Stato e i corsi inediti su Manet e la rivoluzione simbolica nell'arte contemporanea

Pierre Bourdieu: Sullo Stato, corso al Collège de France, vol. I, 1989-1990, Feltrinelli

Risvolto
‟Lo Stato è un Giano bifronte di cui risulta impossibile enunciare una proprietà positiva senza evocarne, contestualmente, un’altra negativa, una proprietà hegeliana senza una marxista, una proprietà progressista senza una regressiva e oppressiva.”
Che cos’è lo Stato? Che cosa si intende quando si parla di Stato, di atti di Stato, di ragion di Stato? Per alcuni lo Stato è un’istituzione creata per servire il bene comune, per altri, all’opposto, un apparato concepito per il mantenimento dell’ordine pubblico. Secondo Pierre Bourdieu, lo Stato è il nome che diamo a una serie di principi nascosti, invisibili, dell’ordine sociale e insieme del dominio. Lo Stato è il detentore della violenza, non solo fisica, come pensava Max Weber, ma anche simbolica legittima, e l’ordine pubblico che garantisce non si basa semplicemente sulle forze di polizia e militari, bensì anche sul consenso. Lo Stato è un’illusione ben fondata, quel luogo che esiste essenzialmente perché crediamo che esista. Bisogna partire da qui per capirne le reali funzioni e le effettive dinamiche. La questione dello Stato, sebbene ne attraversi e tenga insieme tutta l’opera, non è diventata oggetto di un libro specifico di Bourdieu, che le ha però consacrato tre anni del suo insegnamento al Collège de France. Concentrandosi sull’analisi della genesi dello Stato le sue lezioni contribuiscono a chiarire il mistero di questa entità illusoria che compie atti ufficiali, dotati di autorità, attribuendosene il mandato, e che costituisce lo spazio per i conflitti tra diversi campi la cui posta in gioco è la rispettiva posizione di potere. Il corso, ricchissimo di riferimenti a vari ambiti disciplinari, alla letteratura classica in materia e alle ricerche contemporanee, consente oltretutto di leggere un ‟altro” Bourdieu, che espone con grande chiarezza il proprio pensiero nel suo stesso farsi e la propria metodologia di ricerca. In un momento di crisi delle istituzioni statali quale il presente quest’opera, già accolta come un classico in Francia, offre gli strumenti critici necessari per una comprensione più lucida e profonda degli ambiti del dominio.

Pierre Bour­dieu: Manet. Une révo­lu­tion sym­bo­li­que, Seuil, pp. 782, euro 32

Risvolto
Comment s’opère une révolution symbolique et comment réussit-elle à s’imposer ? À travers le cas exemplaire d’Édouard Manet, c’est à cette question que s’est confronté Pierre Bourdieu dès les années 1980 et à laquelle il a consacré les dernières années de son enseignement au Collège de France. Ce deuxième volume des cours inédits du sociologue, accompagnés d’un livre resté inachevé, marque ainsi l’aboutissement d’une réflexion centrale dans son œuvre.
Située en pleine crise de l’Académie, à un moment où la croissance du nombre des peintres remettait en cause la tutelle de l’État sur la définition de la valeur artistique, la rupture inaugurée par Manet a abouti à un bouleversement de l’ordre esthétique. La nouvelle vision du monde qu’elle a engendrée a imprimé sa marque jusqu’à nos jours. En abordant la genèse des tableaux de Manet comme une série de prises de position qui sont autant de défis lancés à l’académisme conservateur des peintres pompiers, au populisme des réalistes, à l’éclectisme commercial de la peinture de genre et même aux « impressionnistes », Bourdieu montre qu’une telle révolution est indissociable des conditions d’émergence des champs de production culturelle.
Nel campo dell’eccentricità 
Pierre Bourdieu. Le variegate e sempre respinte genealogie culturali del teorico francese
Benedetto Vecchi, il Manfesto 8.2.2014
Pierre Bour­dieu ha sem­pre tenuto a sot­to­li­neare la sua estra­neità alle diverse «scuole di pen­siero» che hanno domi­nato la scena cul­tu­rale, e acca­de­mica, in Fran­cia. A chi lo voleva strut­tu­ra­li­sta, rispon­deva attin­gendo a piene mani in campi teo­rici side­ral­mente lon­tani dallo strut­tu­ra­li­smo. A chi lo voleva webe­riano, rispon­deva con l’elogio di Emile Dur­kheim. A chi, infine, lo dipin­geva come un mar­xi­sta «mime­tico», osten­tava il rife­ri­mento a volte osses­sivo degli «errori» — que­sto il ter­mine che amava usare — di Marx nell’analisi della società capitalistica. 
Lo fa anche nel primo dei due volumi pub­bli­cato da Fel­tri­nelli che rac­co­glie le lezioni sullo stato tenute al Col­lège de France tra la fine degli anni Ottanta e il 1992 (a quando la pub­bli­ca­zione del secondo volume?). In quelle lezioni, l’«inventore» della nozione di «campo» non rispar­mia cri­ti­che a Marx e a Louis Althus­ser, che allo Stato aveva dedi­cato non poca atten­zione. Inu­tile ricor­dare anche le dichia­ra­zioni di indif­fe­renza verso Michel Foucault. 
Que­sta osten­tata osti­lità verso chi cer­cava nei grandi nomi del pen­siero cri­tico pos­si­bili genea­lo­gie della sua «prassi teo­rica» è dovuta sicu­ra­mente a un fat­tore che attiene alla sua riser­va­tezza, alla sua ten­sione a misu­rarsi con temi che nor­mal­mente sia la filo­so­fia — Bour­dieu aveva avuto una for­ma­zione filo­so­fia — che la socio­lo­gia — «tec­nica» di ana­lisi sco­perta in età matura — con­si­de­ra­vano ai mar­gini delle loro disci­pline. E nel cata­pul­tare al cen­tro della scena aspetti fino ad allora con­si­de­rati mar­gi­nali intro­du­ceva espres­sioni che in molti hanno con­si­de­rato o crip­ti­che o «gio­chi lin­gui­stici». È stato così per la nozione di campo che di «prassi teo­rica». Il primo ter­mine poteva indi­care di tutto un po’, ma negli scritti di Bour­dieu emerge invece la capa­cità di appunto sve­lare le rela­zioni di dipen­denza del sin­golo dalla strut­tura sociale, la «prassi teo­rica» sot­to­li­nea la dimen­sione sociale della conoscenza.
Bour­dieu è stato un intel­let­tuale eccen­trico, che pre­fe­riva sof­fer­marsi su alcuni «det­ta­gli» della vita sociale e attra­verso quelli far emer­gere appunto le strut­ture sociali e di potere vigenti. Un’eccentricità che costi­tui­sce una indi­ca­zione di metodo e, al tempo stesso, il por­tato più rile­vante di un’eredità intel­let­tuale da met­tere final­mente a verifica.

Oltre il recinto del senso comune 
Pierre Bourdieu. La pubblicazione postuma dell’opera dedicata a Manet illustra come funzionava l’atelier teorico dello studioso. Un uso accorto dei testi per far emergere un punto di vista chiaro contro la «rivoluzione conservatrice» in corso in Francia
Anna Boschetti, il Manifesto 8.2.2014 
Forse nes­suno dei molti testi, sem­pre accu­ra­ta­mente rifi­niti, pub­bli­cati in vita da Pierre Bour­dieu dà l’idea del suo modo di pen­sare e di lavo­rare quanto il volume postumo Manet. Une révo­lu­tion sym­bo­li­que (Seuil, pp. 782, euro 32) in cui è riu­nito ciò che rimane di una ricerca inter­rotta dalla morte: un mano­scritto incom­piuto e la tra­scri­zione di due cicli di lezioni. Que­sto stu­dio di caso, dedi­cato a rico­struire il pro­cesso attra­verso cui la pit­tura fran­cese è entrata nella moder­nità, met­tendo in discus­sione il sistema acca­de­mico, era con­si­de­rato da Bour­dieu una delle sfide più impor­tanti e dif­fi­cili che avesse affron­tato, come mostra la lunga e tor­men­tata gesta­zione. L’aveva ini­ziato verso la metà degli anni Ottanta, poi, impe­gnato su altri fronti, l’aveva abban­do­nato. Ci era tor­nato in due corsi con­se­cu­tivi al Col­lège de France (1998–1999 e 1999–2000), l’aveva nuo­va­mente sospeso per dedi­care l’ultimo anno alla socio­lo­gia della scienza, infine nell’autunno del 2001 aveva ripreso il vec­chio mano­scritto, deciso a rie­la­bo­rarlo e a pub­bli­carlo. Non gli era stato ancora dia­gno­sti­cato il male di cui sarebbe morto pochi mesi dopo. 
Pre­oc­cu­pa­zioni con­giun­tu­rali ave­vano cer­ta­mente con­tri­buito a far­gli ripren­dere que­sto lavoro. Ricor­dare quanto era stata dif­fi­cile ed eroica l’emancipazione della pit­tura dal potere acca­de­mico e sta­tale era un modo indi­retto per difen­dere l’autonomia della cul­tura, in tutte le sue forme, dall’arte alla scienza, con­tro la «rivo­lu­zione con­ser­va­trice» che secondo Bour­dieu era in atto nella società francese. 
Il potere del simbolico 
Nel corso su Manet Bour­dieu sot­to­li­nea l’attualità della sua ana­lisi, denun­ciando in par­ti­co­lare il popu­li­smo di cui si ser­vono i con­ser­va­tori, alla fine dell’Ottocento come nel 2000, per scre­di­tare la riven­di­ca­zione di auto­no­mia delle ricer­che arti­sti­che e scien­ti­fi­che che non sono imme­dia­ta­mente acces­si­bili ai pro­fani. In effetti molti degli intel­let­tuali fran­cesi che dalla metà degli anni Set­tanta si sono impo­sti all’attenzione media­tica (dai «nou­veaux phi­lo­so­phes» a Jac­ques Ran­cière e Bruno Latour) si sono ser­viti di argo­menti popu­li­sti per squa­li­fi­care i loro più famosi pre­de­ces­sori: Lévi-Strauss, Lacan, Althus­ser, Fou­cault, Der­rida e, in par­ti­co­lare, Bour­dieu. I nuovi guru hanno pre­teso dema­go­gi­ca­mente di farsi por­ta­voce del senso comune, accu­sando di arro­ganza sia la visione strut­tu­rale, che spiega il sog­getto rico­struendo il sistema di rela­zioni in cui è inse­rito, sia i «mae­stri del sospetto», col­pe­voli di aver fatto emer­gere l’impensato che si cela in ogni discorso. 
Ma non si può capire l’interesse che que­sta ricerca pre­senta per chiun­que desi­deri cono­scere meglio il pen­siero di Bour­dieu se non si con­si­dera la scom­messa teo­rica che rap­pre­sen­tava per lui. In quest’enorme can­tiere, aperto su più fronti, ha messo alla prova tutti gli stru­menti e i saperi acqui­siti in oltre quarant’anni di lavoro. Il libro offre la pos­si­bi­lità di entrare in uno straor­di­na­rio labo­ra­to­rio e di cogliere il pen­siero nel suo farsi. 
Fin dall’inizio della sua car­riera Bour­dieu aveva foca­liz­zato la sua atten­zione sulla dimen­sione sim­bo­lica della realtà: il senso e il valore che diamo alle cose, anche quelle che con­si­de­riamo «mate­riali», dipen­dono dalle nostre cate­go­rie di per­ce­zione, con­vin­zioni, emo­zioni. Rite­neva che la tra­di­zione socio­lo­gica non avesse ela­bo­rato stru­menti ade­guati per ren­dere conto di quest’aspetto fon­da­men­tale. Marx aveva sot­to­li­neato nella prima delleTesi su Feuer­bach il «lato attivo» della realtà umana, ma non aveva svi­lup­pato quest’intuizione, essendo pre­oc­cu­pato di sot­to­li­neare soprat­tutto, con­tro l’idealismo, il peso dei fat­tori eco­no­mici. Emile Dur­kheim e soprat­tutto Max Weber ave­vano aperto la strada, con i loro studi sulla reli­gione. Ma Bour­dieu voleva ela­bo­rare un modello che per­met­tesse di spie­gare la cul­tura (in tutte le sue acce­zioni) di uni­versi com­plessi e dif­fe­ren­ziati come la società contemporanea. 
Modelli della trasformazione 
Nei lavori sul sistema di inse­gna­mento e nella Distin­zione Bour­dieu si è inter­ro­gato soprat­tutto sui mec­ca­ni­smi di ripro­du­zione della cul­tura, per cer­care di spie­gare il grande para­dosso della sto­ria umana, il fatto che l’ordine sim­bo­lico tende a essere accet­tato come evi­dente, natu­rale, anche da quelli che ne sono vit­time. Ha mostrato che le strut­ture men­tali sono for­giate dalle strut­ture sociali, attra­verso la scuola e la fami­glia, e ten­dono quindi ad accor­darsi con la visione domi­nante. Al tempo stesso non ha mai smesso di inter­ro­garsi sulle con­di­zioni che hanno reso pos­si­bile, in alcune con­giun­ture sto­ri­che, la tra­sfor­ma­zione dei prin­cipi di visione e di divi­sione del mondo. Lungi dal pro­porre una visione ras­se­gnata, la sua opera muove dalla con­vin­zione che la cono­scenza dei deter­mi­ni­smi sociali sia il solo stru­mento di cui l’uomo dispone per ten­tare di «defa­ta­liz­zare» il mondo. 
Bour­dieu ha così pro­gres­si­va­mente ela­bo­rato un modello mul­ti­fat­to­riale di spie­ga­zione del cam­bia­mento. Lo stu­dio di una «rivo­lu­zione sim­bo­lica» riu­scita era un modo per met­tere alla prova que­sto modello. Si trat­tava non solo di indi­vi­duare i fat­tori strut­tu­rali di una con­ver­sione men­tale col­let­tiva, ma di spie­gare i mec­ca­ni­smi e gli esiti del cam­bia­mento, gra­zie alla sua teo­ria dell’azione, da lui desi­gnata sin­te­ti­ca­mente con le nozioni com­ple­men­tari di habi­tus e di campo. Avendo l’ambizione di pro­vare la vali­dità gene­rale delle sue ipo­tesi, Bour­dieu con­si­de­rava come una sfida par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tiva e un punto d’onore riu­scire a ren­dere conto del fun­zio­na­mento dell’arte e della let­te­ra­tura, oggetti verso i quali sus­si­ste ancora oggi un atteg­gia­mento reli­gioso, che pre­tende di sot­trarli alla cono­scenza razio­nale, come se non faces­sero parte del mondo sociale. Per­ciò era impor­tante per lui non limi­tarsi ad ana­liz­zare aspetti «esterni» come il mer­cato e il pub­blico, ma mostrare che la nozione di campo per­met­teva di spie­gare socio­lo­gi­ca­mente anche gli aspetti più spe­ci­fici di que­sti uni­versi par­ti­co­lari: l’eroico disin­te­resse dimo­strato da scrit­tori e arti­sti incom­presi dalla mag­gior parte dei con­tem­po­ra­nei come Bau­de­laire, Flau­bert, Mal­larmé, Rim­baud, Cour­bet, Manet, Cezanne, Van Gogh; gli aspetti tec­nici e for­mali delle opere; la genesi dei canoni este­tici e delle gerar­chie di valore. 
La quan­tità di piste che apre que­sto libro postumo atte­sta la fecon­dità del modello teo­rico e insieme la dismi­sura del lavoro che esso richiede. Men­tre in altre ricer­che Bour­dieu ha potuto con­tare su un’équipe di col­la­bo­ra­tori, qui ha pro­ce­duto da solo, e con­si­de­rando il pro­gramma deli­neato nel mano­scritto si capi­sce come in una lezione arrivi a con­fes­sare il suo sgo­mento di fronte all’impresa in cui si è imbar­cato. L’indice dà l’idea della «mis­sione impos­si­bile» che si è impo­sto, nell’esigenza di ana­liz­zare siste­ma­ti­ca­mente il fun­zio­na­mento dei diversi campi e set­tori che hanno un ruolo nella rivo­lu­zione della pit­tura: il sistema acca­de­mico; il campo artistico;il campo della cri­tica; i mer­canti e i col­le­zio­ni­sti; le inno­va­zioni este­ti­che e pit­to­ri­che. Secondo la sua teo­ria, per spie­gare le pra­ti­che (rap­pre­sen­ta­zioni, discorsi, opere) occor­reva fare un lavoro senza pre­ce­denti: rico­struire, per ognuno di que­sti mondi (com­presa la pro­du­zione cri­tica della poste­rità), la strut­tura delle posi­zioni non­ché le tra­iet­to­rie e le pro­prietà degli agenti. Inol­tre, men­tre nelle Regole dell’arte Bour­dieu si era con­cen­trato sul caso fran­cese, qui si pone in una pro­spet­tiva com­pa­ra­tiva, per spie­gare l’eccezione che rap­pre­senta la Fran­cia, per la forza del sistema acca­de­mico e per la radi­ca­lità della rivo­lu­zione com­piuta dagli innovatori. 
L’insidia del determinismo 
Nes­suno dei capi­toli può dirsi finito. Alcuni sono note per un’immensa ricerca da fare. A volte Bour­dieu avanza ipo­tesi che pos­sono appa­rire discu­ti­bili o troppo peren­to­rie. Ma si trova qui un esem­pio con­creto e pre­zioso della com­plessa costru­zione di oggetto che esige l’applicazione della «teo­ria dei campi». Le domande che Bour­dieu si pone e le ipo­tesi che ela­bora sono tra­spo­ni­bili. Il libro mostra quanto siano frut­tuose que­ste tra­spo­si­zioni, per esem­pio facendo emer­gere ciò che acco­muna il fun­zio­na­mento del sistema acca­de­mico ai tempi di Manet e quello delle Gran­des éco­les francesi. 
L’aspetto forse più affa­sci­nante e istrut­tivo è lo sforzo costante di rifles­si­vità. La medi­ta­zione sui pro­blemi teo­rici e meto­do­lo­gici, sull’uso dei con­cetti, sul lavoro di ricerca occupa più di metà dei corsi e coin­volge pro­fon­da­mente, gra­zie alla pas­sione e one­stà intel­let­tuale con cui l’illustre socio­logo spiega quello che cerca di fare e con­fessa le sue dif­fi­coltà. A pro­po­sito di que­stioni fon­da­men­tali (come la distin­zione tra «corpo» acca­de­mico e «campo» arti­stico, o il rap­porto rottura/continuità nel cam­bia­mento) si notano esi­ta­zioni e pro­gres­sive cor­re­zioni che atte­stano la fedeltà all’ethos scien­ti­fico. Col­pi­sce in par­ti­co­lare lo sforzo di vigi­lanza epi­ste­mo­lo­gica sui deter­mi­ni­smi insi­diosi cui ogni ricer­ca­tore è espo­sto. Nel mano­scritto, per esem­pio, rac­co­manda a se stesso: «non fare il poeta, bel discorso sug­ge­stivo». E (rife­ren­dosi al con­fronto con altri stu­diosi): «Sfug­gire all’effetto campo: 1) non cer­care l’originalità 2) non accon­ten­tarsi di con­trap­porsi. Supe­rare conservando»”Questo breve pro­me­mo­ria rias­sume un segreto essen­ziale del pen­siero di Bour­dieu, che si è costruito, come ha detto e scritto spesso, con e con­tro Marx, Dur­kheim, Weber e innu­me­re­voli altri autori, appro­prian­dosi le acqui­si­zioni e cor­reg­gendo gli errori. Ha sem­pre giu­di­cato anti­scien­ti­fica e nefa­sta la logica dico­to­mica che riduce tutto a alter­na­tive sem­plici. Qui riba­di­sce con forza la per­sua­sione che la cono­scenza può pro­gre­dire solo pra­ti­cando un «eclet­ti­smo razio­nale». E quest’impresa, incom­piuta, forse, anche per­ché inter­mi­na­bile, lo con­ferma attra­verso le pro­spet­tive che apre e i pro­blemi che pone a quanti vor­ranno pro­se­guirla e superarla.

Il rivoluzionario Manet Quel picnic sull’erba che trasformò la società 
In Francia viene pubblicato postumo il corso di Pierre Bourdieu dedicato al pittore ottocentesco
di Giancarlo Bosetti Repubblica 17.2.14
Esce postuma la ricerca di Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese scomparso nel 2002, su Édouard Manet (1832-1883): è un esempio di “socioanalisi” della traiettoria di un pittore rivoluzionario nella Parigi di metà Ottocento. La raccolta delle fonti è sterminata e riguarda tutto: le critiche d’arte e le alleanze di Manet contro e con i critici, la competizione con Courbet e il realismo, l’attacco all’art pompier e all’accademia, i suoi distinguo dagli impressionisti e il suo “fare scandalo” per conto proprio. Ma l’analisi di Bourdieu riguarda anche il “capitale” dell’artista e il suo habitus. Manet è un figlio dell’élite parigina, è un erede che rifiuta l’eredità del padre magistrato, ma la tesaurizza per trasferirla in un altro spazio di valori. La sua fu vera, vincente, rivolta, contro il Salon, l’istituzione statale da cui fu inizialmente rifiutato, al Louvre, ma si impose poi nel nuovo corso che cambiò per sempre il Salon.
Come fu possibile? Ci voleva più che il genio di un pittore.
Ora i corsi tenuti da Bourdieu tra il ’98 e il 2000 al Collège de France sono finalmente a disposizione nelle quasi 800 pagine (Manet. Une révolution symbolique, Seuil) curate dal gruppo di Raison d’agir, fatte di trascrizioni vivaci, appunti e anche di un lungo manoscritto inedito. Bourdieu era enormemente attratto dalla svolta pittorica provocata dall’autore del Déjeuner sur l’herbe, come lo era stato dalla svolta letteraria di Gustave Flaubert. Per Bourdieu questi due grandi autori erano gli esempi più limpidi di una “rivoluzione simbolica” capace di generare (o rovesciare) un “campo”, parola chiave del lessico bourdieusano. Il “campo” non designa solo l’area disciplinare in cui gli individui operano, esso è il terreno delle battaglie in cui si stabiliscono le gerarchie interne a una disciplina, a un ambiente culturale, a una professione, l’arena in cui si decide che cosa è rilevante e che cosa no. E il padre e la madre di tutti i “campi” è secondo Bourdieu, fin dalle origini, quello della religione, costituitosi nella competizione tra sciamani e profeti in lotta tra loro, per l’affermazione del primato nel potere simbolico, per decidere che cosa è ortodossia e che cosa eresia. Nelle battaglie culturali la somiglianza con la religione è molto più di una analogia. Chi vince è “consacrato” nei musei, anche se ha cominciato come “eretico” e ha battuto gli “integrati dominanti”, chi perde è fuori, resta un “marginale escluso”.
Niente è più come prima, dopo Manet. Se oggi ammiriamo il Déjeuner o il Bar aux Folies Bergères, più dei ritratti di Fantin-Latour o delle curatissime scene mitologiche di Bouguereau non è semplicemente perché Manet “è più bravo” di loro, ma perché ha trionfato nella sua arena, ha sconvolto la scena che ha trovato e ha costruito ex novo il “campo”. Se oggi i quadri che scuotevano Parigi nel 1862, al Salon alternativo dei “rifiutati”, sono diventati “banali” fino ad essere riprodotti sulla carta delle pasticcerie, le pagine di Bourdieu fanno il percorso inverso e “debanalizzano” la rivoluzione di cui anche il nostro sguardo di oggi è il prodotto. E ricostruiscono le incertezze e la violenza della lotta di allora.
Quando nel 1863 esce il Déjeuner (l’opera più commentata nella storia della pittura dopo la Gioconda), le reazioni sono di violenza inaudita: Manet sfida regole considerate auto-evidenti, rompe un ordine simbolico, dedica un quadro di grandi dimensioni, adatte a fatti solenni o religiosi, a un soggetto di “genere”, volgare: donne nude, ragazze di bassa condizione, amore mercenario (come anche nella successiva Olympia), accanto a studenti borghesi vestiti. Un cumulo di incongruenze: ambientazione pastorale per una scena salace; mancanza di prospettiva; le figure sembrano incollate; il personaggio sulla destra sembra parla-re, ma nessuno lo ascolta; non c’è – dicevano i critici – un senso, una “gerarchia morale”.
E invece il tema c’era: era la sfida all’accademia. Era una “pittura sulla pittura”. Nell’insieme appare come un sacrilegio e Bourdieu legge in parallelo le critiche a Manet e quelle che si scatenarono, tra i cattolici conservatori, contro la riforma del catechismo e l’abolizione del latino. Stessa indignazione. Manet subì l’attacco feroce del “populismo estetico” – forma perenne di conservatorismo – che si scatenò contro di lui come cinquant’anni fa in Italia i cinegiornali e le riviste popolari deridevano l’arte astratta, Picasso, Fontana, Manzoni. L’opera di Manet sfida l’arte “consacrata” non solo per la gioia di provocarla, ma perché vuole a sua volta consacrarsi.
Ha potuto vincere anche grazie all’accumulazione del “capitale” sociale necessario per l’impresa: Manet era il migliore della scuola d’arte di Thomas Couture, l’equivalente delle Grandes Écoles; frequenta l’elitario Collège Rollin dove conosce il suo futuro biografo Antonin Proust; entra nei salotti dove stringe rapporti con Nadar, Baudelaire, Monet (con cui detestava essere confuso), Gambetta, Delacroix, Théophile Gautier; conosce Berthe Morisot, pittrice, sua modella e poi moglie del fratello Eugène, e con lei trova un altro salotto fondamentale, dove passa il resto della Parigi che conta; si allea con l’influente Zola, che lo aiuterà a produrre una svolta tra i pesi massimi della critica: Thoré e Castagnary. Quell’accumulo di “capitale” gli ha dato la capacità di “mantenere la distanza dal ruolo”, e di “tenere” (anche se non funziona mai, nota Bourdieu, senza vere sofferenze anche nei grandi e anche nel successo).
Si sa che Bourdieu si auto analizzava per evitare di cadere nell’illusione biografica: «Manet c’est moi?» come per Flaubert Madame Bovary. Rischio sempre in agguato per tutti gli autori. Certo è difficile confondere due traiettorie così diverse: quella del sociologo di umili origini, figlio di un impiegato postale dei Pirenei, poi “consacrato” al Collège de France, e quella di un dandy che esce dalla noblesse d’état (guardare per capire il ritratto che gli fece Fantin-Latour) e che riesce a unire i due poli sociali dei ricchi banchieri e dei poveri bohémien con il suo habitus divaricato, clivé, capace di imporre il suo carisma nell’elegante Cafè Tortoni, nelle brasserie dei pittori squattrinati e al Louvre. Ma certo le sofferenze e i “rimossi” sociali mettono in gioco tutti, a tutte le latitudini della mappa, non meno di quelli edipici di cui si è occupato Freud.

Nessun commento: