venerdì 21 febbraio 2014
Religioni e antropomorfismo
La voce degli Dei Quando l’Assoluto parla con l’uomo
Le risposte dei filosofi agli interrogativi sul mistero della comunicazione divina
di Maurizio Bettini Repubblica 21.2.14
«E Dio disse, la luce sia. E la luce fu». Così recita la Genesi. Ma come
bisogna intendere quel «disse»? O meglio, con quale “voce” Dio avrebbe
pronunziato quella fatidica frase? Il problema non era sfuggito ad
Agostino, che commentando il testo biblico si premurava di spiegare
quanto segue: «Non dobbiamo intendere che Dio avesse detto “fiat lux”
con una voce che proveniva dai polmoni, e neppure tramite la lingua e i
denti». Evidentemente rifiutava che si attribuissero a Dio capacità
linguistiche di tipo umano, proponendo così una visione antropomorfica
della divinità. Non si poteva accettare che Dio fosse dotato di “voce”
come un qualsiasi mortale. D’altra parte, però, la Genesi affermava
esplicitamente che Dio “disse” la fatidica frase, il Creatore aveva
effettivamente “pronunziato” quelle parole. Come se la cavava dunque
Agostino? Da esperto conoscitore della retorica, ossia ricorrendo a un
brillante ossimoro: in quella circostanza, spiegava, Dio aveva
parlato ineffabiliter, cioè letteralmente “senza dire”. Potenza di un
avverbio, capace di attribuire a Dio la virtù del dire senza parlare. La
voce divina è una voce / non voce, ineffabile.
Il problema che si
era posto Agostino, comunque, era ben più antico di lui, e riguardava
non solo il Dio di Ebrei e Cristiani, ma anche gli dèi dei cosiddetti
pagani. La divinità, qualunque essa sia, parla? E se parla, che voce ha?
E ancora: ammesso che la divinità abbia una voce, qual è la lingua in
cui si esprime? Dato però che, a fronte di simili ricorrenti domande,
sta una divinità che si ostina a restare muta, oltre che invisibile,
potremmo riformulare la questione in questo modo: quale voce, o meglio
quali voci, sono state “prestate” alla divinità nel mondo antico? Se
Agostino gliene dava una sottilmente ineffabilis, come se la sono cavata
altri di fronte allo stesso dilemma?
Restiamo in compagnia dei
filosofi, per primi gli epicurei. Costoro avevano una visione
decisamente antropomorfica degli dèi, li volevano in tutto e per tutto
di forma umana. La qual cosa suscitava le ironie degli scettici («questo
implica forse che fra gli dèi qualcuno ha il nasone, qualcun altro ha
un neo sulla guancia, qualcun altro è strabico?»); ma implicava anche
una risposta positiva alla domanda sulla voce divina. Non v’è dubbio,
diceva infatti l’epicureo Filodemo nel Primo secolo a. C., non solo gli
dèi hanno una voce, ma dialogano anche fra loro. Infatti,
argomentava, non potremmo pensare che essi fossero felici e
incorruttibili, come in effetti sono, se non parlassero e non
comunicassero gli uni con gli altri, ma fossero invece simili a uomini
muti. E anzi, continuava, per Zeus! Bisogna anche ritenere che gli dèi
non solo parlano, ma parlano greco, e che emettono suoni forniti di
significato, ben articolati, i più corretti, così come usano in Grecia
le persone colte. Nella formulazione di Filodemo il problema della voce
degli dèi assumeva dunque un’inattesa inflessione etnocentrica - o
forse, trattandosi di Greci, c’era da aspettarselo. Quale altra lingua
avrebbero mai potuto parlare gli dèi, infatti, se non quella
dell’Ellade? Di sicuro non le lingue dei barbari, i quali non a caso si
chiamano così proprio perché “balbettano”. E certo un greco non poteva
concepire di onorare una divinità che balbettava il greco o parlava
comunque una lingua che, alle sue orecchie, assomigliava troppo a un
balbettio.
Sul versante opposto rispetto agli epicurei, però, stavano
i filosofi scettici, che sul problema della voce degli dèi
argomentavano in tutt’altro modo. D’accordo, dicevano, sostenere che il
dio sia afono è assurdo e ripugna alle opinioni correnti. Però, se il
dio è dotato della capacità di parlare, allora dispone anche di voce e
di organi fonatori, come polmoni trachea lingua e bocca - ma questo sì
che è assurdo! Se così fosse, infatti, non sarebbe più dio. E comunque,
anche ammettendo che il dio disponga di voce, allora si esprime per
forza in qualche lingua - già, ma quale? La lingua greca o una lingua
barbara? La greca. Ma se è la greca, quale precisamente? Quella ionica,
quella eolica, quella dorica, o quale mai altra? Certo non le userà
tutte. Dunque il dio non ne usa nessuna. La conclusione che gli scettici
traevano da loro argomentare sulla voce degli dèi era dunque la
seguente: si tratta di una questione priva di fondamento.
Della voce
della divinità, o meglio del modo in cui gli dèi comunicano, si era però
occupato anche Platone, ovviamente con ben altra fantasia. Nel
Simposio, per esempio, Diotima aveva sostenuto che fra gli dèi e gli
uomini agiva un daimon, un demone. Era lui che permetteva il dialogo fra
questi interlocutori che non potevano entrare in relazione: gli dèi
infatti non si “mescolano” con i mortali. Fra dèi e uomini starebbe
dunque una sorta di interprete soprannaturale, capace di mediare, o
meglio di tradurre, il parlare degli uni in quello degli altri. Ecco
spiegato, per esempio, perché nei sogni gli umani odono talora la voce
degli dèi che li ammoniscono. È il daimon che interpreta per loro la
voce degli dèi, così com’è ancora il daimon che trasmette agli dèi le
preghiere che gli umani formulano nel loro linguaggio.
Fin qui i
filosofi. Ma a parte loro, che cosa pensava della voce degli dèi la
gente comune? Probabilmente non si poneva neppure il problema. O
perlomeno, dava per scontato che gli dèi una qualche voce l’avessero,
visto che a volte essi parlavano nei sogni, così come si narrava di voci
misteriose che erano state udite da qualcuno. Ma soprattutto gli dèi
parlavano, eccome, nelle invenzione della poesia e del teatro. Tanto
poteva bastare a un greco che non fosse stato filosofo. Neppure Omero,
del resto, si preoccupa di definire con quali modalità si realizza il
parlare delle varie divinità nei poemi. Atena, Zeus, Afrodite, Poseidone
parlano, e basta, alla maniera di tutti gli altri personaggi. Come
sanno i lettori dell’Iliade e dell’Odissea, gli dèi dell’Olimpo
interloquiscono tranquillamente fra loro, a volte anche in modo molto
animato, senza che mai venga sottolineato l’eventuale carattere speciale
del loro dialogo. E anche quando le divinità interagiscono con gli
uomini, il loro parlare non esce mai dalle normali modalità del discorso
omerico, esse si esprimono alla maniera di tutti gli altri. Il fatto è
che il problema della verosimiglianza linguistica non stava
particolarmente a cuore alla letteratura antica. Lo stesso Omero, per
esempio, si preoccupa forse che i Troiani, di per sé, dovrebbero parlare
una lingua diversa da quella degli Achei? Omero non fa ingiustizie: a
tutti, Greci e Troiani, uomini e dèi, egli “presta” la stessa parola,
senza barriere di linguaggio. Sono le meraviglie della poesia.
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