Fabio Chiusi La Lettura
giovedì 6 febbraio 2014
Rivoluzione macchinistica digitale, disoccupazione, esercito industriale di riserva: un nuovo esempio di contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione
Con l'immediata relativa mistificazione. Come se la tecnologia non fosse dipendente dal modo di produzione. Di fronte a castronerie così sesquipedali, che Marx ed Engels avevano confutato già quasi due secoli fa, c'è da rabbrividire: le scienze sociali borghesi sembrano adagiate sugli allori della strapotenza del capitale e divengono la parodia di se stesse [SGA].
Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee: The Second Machine Age. Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies, Norton & Company
La seconda età delle macchineNeoliberismo e rivoluzione digitale nel libro di Brynjolfsson e McAfeedi Enrico Franceschini Repubblica 6.2.14
LONDRA Stiamo vivendo nella “seconda età delle macchine”. E sono loro a
portarci via i posti di lavoro. Fino a non molto tempo fa c’era una
risposta di prammatica alle domande sul perché in Occidente il gap
ricchi-poveri sia paurosamente aumentato negli ultimi trent’anni, e la
diseguaglianza tra l’1 per cento e il 99 per cento della popolazione in
Europa e Stati Uniti sia sempre più evidente: tutta colpa di Reagan e
della Thatcher. Ma se la ragione di questo profondo mutamento sociale
fosse un’altra? È la tesi di un libro che fa molto discutere sulle due
sponde dell’Atlantico: si intitola The Second Machine Age, gli autori
sono due accademici, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, e la loro tesi è
che la responsabilità di quanto è avvenuto sia da imputare più al
progresso tecnologico, in particolare alla rivoluzione digitale, che a
reaganismo e thatcherismo. È l’argomento del giorno nella pagina degli
editoriali diFinancial Times e New York Times, firmato da commentatori
autorevoli come Martin Wolf sul quotidiano britannico e David Brooks su
quello americano, come sulle copertine dell’Economist e delNew
Statesman.
Tra fine anni Settanta e inizio Ottanta il presidente repubblicano e la
premier conservatrice, paladini del neoliberalismo, tagliarono le tasse,
ridussero la spesa pubblica, avviarono la deregulation dei mercati
finanziari, creando economie più dinamiche ma più diseguali. La spinta
neoliberista, sostanzialmente proseguita da Clinton e Blair, può avere
contribuito alla globalizzazione, che ha portato maggiore benessere a
miliardi di persone nei paesi in via di sviluppo, ma è indubbio che ha
fatto indietreggiare la classe media occidentale. Tuttavia la politica
del laissez-faire reaganiano o thatcheriano non è stata adottata in modo
uniforme in tutto l’Occidente, notano gli autori del libro: eppure il
gap ricchi- poveri è aumentato in maniera analoga pressoché ovunque.
Negli ultimi tre decenni la diseguaglianza è cresciuta in Svezia,
Finlandia e Germania più di quanto sia avvenuto negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna.
La stagnazione del reddito dei ceti medi, sostengono i due economisti,
in effetti non è cominciata nella Washington di Reagan o nella Londra
della Thatcher, bensì in California, dove nel 1980 Bill Gates e Steve
Jobs muovevano i primi passi della rivoluzione digitale. È stato questa
svolta tecnologica a infliggere una botta senza precedenti alle masse,
afferma il loro studio.
La gente ha sempre temuto che nuove tecnologie rendessero obsoleto il
lavoro umano e riducessero l’occupazione, ma finora era sempre avvenuto
il contrario: la rivoluzione commerciale del ’700 e quella industriale
dell’800 hanno creato più lavoro, non meno, e diffuso più benessere. Ma
la rivoluzione digitale è differente. Con essa i posti di lavoro
diminuiscono, anziché aumentare. Il libro cita un caso tipico. La Kodak,
fondata nel 1880, al suo apice aveva quasi 150mila dipendenti.
Instagram, lanciato nel 2010, ne aveva in tutto quattro. Nel 2012 è
stato venduto a Facebook per un miliardo di dollari, e Facebook, con un
valore immensamente più grande di quanto la Kodak abbia mai avuto,
impiega appena 5mila persone. Almeno una decina delle quali sono ricche
dieci volte di più di George Eastman, fondatore della Kodak.
Ecco perché la “seconda età delle macchine” è anche un’era di crescente
diseguaglianza. Bastano aziende di pochi programmatori o ingegneri
elettronici per creare servizi utili a miliardi di persone e in grado di
generare miliardi di utili. Tanti mestieri stanno scomparendo,
rimpiazzati dalle macchine: si è cominciato con i lavori più umili,
dalla cassiera di supermercato all’impiegato di banca, presto potrebbe
essere il turno di avvocati e altri professionisti. Il libro dei due
studiosi americani non offre una soluzione al problema: al momento non
c’è molto, concludono gli autori, che i leader politici possano fare per
invertire la tendenza. Una recente storia di copertina dell’Economist
giunge alla stessa conclusione: “Cosa può fare la tecnologia ai lavori
di domani”, s’intitolava, accompagnata dall’immagine di un tornado che
sconvolge un ufficio di impiegati seduti alla scrivania.
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Fabio Chiusi La Lettura
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