Serge Latouche fu in un lontano passato trotzkista. Poi operò una revisione della teoria dell'imperialismo e da lì giunse a criticare il concetto di sviluppo. Ma dietro tutto ciò c'è - a volte consapevole, a volte no - la critica heideggeriana della modernità, dell'oggettivismo, del produttivismo, ecc. ecc. La cosa curiosa è che dopo essere diventato il guru della sinistra radicale ex comunista oggi attragga sempre più anche i socialdemocratici, la cui crisi non è minore della nostra [SGA].
Serge Latouche:
Incontri di un
«obiettore di crescita», trad. di Stefano Salpietro, pp. 144, euro 12,
Jaca Book
Risvolto
«Crescita, crescita»: è la parola magica pronunciata a sazietà per salvarci da crisi che non cessano di succedersi. Questo per la pretesa dell’uomo di credere di poter sfruttare senza limiti i suoi simili e il pianeta e di aver creato un modello destinato a generare sempre maggior ricchezza, sempre maggiore felicità.
Tuttavia, a partire dalle tesi di Nicholas Georgescu-Roegen, noi sappiamo che ciò non è possibile, mentre Ivan Illich e André Gorz ci hanno insegnato che è possibile un altro schema di società, capace di rispettare insieme l’ambiente e l’uomo. Gli «incontri» di Latouche sono con gli indios latinoamericani, con l’autarchia italiana tra le due guerre, con i precursori della decrescita, con la mercificazione dei viaggi alle Seychelles, con l’Africa, con la Cina e con i dibattiti e le esperienze in corso in Europa. L’opera ha un andamento quasi biografico con il susseguirsi di avvenimenti, esperienze e riflessioni.
Lunga vita grazie al limite
Da Serge Latouche un’altra parola chiave per la sua teoria
di Giacomo Battistoni l’Unità 6.2.14
INTERPRETE DEI MAESTRI «LIBERTARI» DEL SECONDO NOVECENTO COME IVAN
ILLICH, ANDRÉG ORZ, CORNELIUS CASTORIADIS E JACQUES ELLUL, critico
radicale dell’«impostura dello sviluppo», Serge Latouche è il principale
sostenitore della decrescita. Usato come ariete concettuale per
demolire il muro di certezze che protegge la fede nell’economia, il
rituale del consumo e il culto del denaro, quello di decrescita è un
termine che anche Latouche, professore emerito di Economia
all’Università di Parigi-sud, sembra ormai voler abbandonare. Sostituito
con «abbondanza frugale», rimane comunque fondamentale per comprendere
l’elemento centrale della sua proposta teorica e politica: il limite. Un
limite che va opposto alla hybris consumistica, al mito dell’abbondanza
materiale, alla tecnica prometeica, e che deve orientare la
decolonizzazione di un immaginario viziato da economicismo, tecnicismo
ed espansionismo. La decolonizzazione dell’immaginario, spiega nel suo
ultimo libro tradotto in italiano, Incontri di un «obiettore di
crescita» (trad. di Stefano Salpietro, pp. 144, euro 12, Jaca Book), «è
un processo di terapia collettiva lenta e graduale». Abbiamo
intervistato Latouche alla vigilia dell’incontro veneziano su «Cambiare
strada. Per una riconversione sociale ed ecologica».
Professor Latouche, lei ha scritto che tutto il suo lavoro mira a
contestare l’invenzione dell’economia, un’invenzione insieme teorica,
storica e semantica. La crisi che stiamo attraversando può favorire
quell’ «uscita dall’economia» da lei auspicata?
«La crisi non solo favorisce l’uscita dall’economia, ma la rende l’unica
vera soluzione a lungo termine. Stiamo vivendo una crisi che non è solo
economico-finanziaria, ma ecologica, sociale, culturale. È la crisi
della stessa civiltà occidentale. Siamo di fronte all’«ora della verità»
per il sistema economico capitalista mondializzato. Non possiamo
prevedere l’apice della crisi, ma sappiamo che se restassimo sulla
strada percorsa finora non andremmo oltre il 2030, come d’altronde
prevedono il quinto rapporto dell’Ipcc (il Panel intergovernativo sui
cambiamenti climatici, ndr) e il terzo rapporto del Club di Roma.
In Incontri di un «obiettore di crescita» lei ricorda che nella medicina
ippocratica la «krisis» è la svolta decisiva nell’evoluzione della
malattia. Eppure, nelle terapie proposte non sembra esserci una svolta
simile. Come si fa a evitare ciò che definisce come «falsa alternativa»
tra austerità deflazionista e rilancio scriteriato dei consumi?
«Lo si può fare con la decrescita, costruendo un’alternativa che
equivale ad uscire dalla società dei consumi, dal capitalismo e da un
paradigma forse ancora più vecchio del capitalismo, quello
dell’illimitatezza. Il paradigma della dismisura ha fondato l’Occidente:
tutte le civiltà hanno cercato di limitare la dismisura, di
controllarla (senza riuscirci, ma provandoci), mentre quella occidentale
è l’unica ad aver incoraggiato la dismisura. Anche oggi che sappiamo
che il pianeta è allo stremo facciamo di tutto per continuare a
crescere, sfruttando perfino le ultime gocce di petrolio». Al paradigma
dell’illimitatezza lei contrappone il paradigma del limite, a cui ha
dedicato anche un libro, «Limite» e la proposta della decrescita…
«Quella del limite è una questione molto concreta, legata anche alle
questioni di cui parleremo a Venezia, come quella delle grandi navi.
Dopo l’incidente dell’isola del Giglio, si è capito bene come sia folle e
pericoloso costruire e far navigare delle navi mastodontiche, con 5.000
passeggeri, vere e proprie città ambulanti. Eppure continuiamo a
produrle. In Francia in questi giorni c’è un clima trionfale perché una
grande azienda di Saint-Nazaire (la Chantiers de l’Atlantique, ndr) si è
aggiudicata la commessa per una nave di dimensioni enormi. Le navi
sempre più grandi, come i grattacieli sempre più alti, esemplificano
bene la tendenza dell’uomo occidentale ad andare sempre oltre, spinto
dalla ricerca del profitto e dall’ideologia del “sempre di più”».
Il sociologo e ambientalista Wolfgang Sachs adopera spesso una metafora
per indicare la necessità del limite e del passaggio all’economia post-
fossile: dal modello della petroliera a quello della barca a vela… «È
una metafora che funziona. Ci dice che bisogna programmare una
riconversione ecologica, soprattutto per il settore energetico.
Probabilmente abbiamo già superato il picco di Hubbert, quel punto della
produzione massima del petrolio dopo il quale la produzione non può che
diminuire. La strada più ragionevole è risparmiare energia, favorire la
riconversione ecologica, sviluppare le energie rinnovabili. Invece si
fa il contrario: in questi giorni in Francia c’è un acceso dibattito
perché un ministro vuole autorizzare - contro la legge - l’estrazione
del gas di scisto, una tecnica altamente inquinante». Nel 1990, nella
sua «Lettera a San Cristoforo», Alexander - pioniere dell’ecologismo
politico in Itala –scriveva che «il cuore della traversata che ci sta
davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del “di più” a una
del “può bastare” o del “forse è già troppo”».
Si direbbe un precursore della decrescita… «Langer aveva identificato
benissimo i problemi da affrontare e le vie per risolverli. Quel che è
incredibile è che il suo pensiero sia stato totalmente dimenticato,
perfino in Italia, dove in pochi oggi parlano ancora di lui. Anche per
questo mi sono impegnato nella direzione di una collana editoriale per
Jaca Book dedicata ai precursori della decrescita. Ci saranno volumi su
Enrico Berlinguer, che parlava di austerità, su Alexander Langer e su
molto altro». Di limiti però nessuno vuol sentir parlare, neanche tra
gli economisti meno ortodossi. Lei ha definito Joseph Stiglitz un’anima
bella, sostenendo che la vecchia ricetta keynesiana del rilancio dei
consumi e degli investimenti non è auspicabile. Perché?
«In Francia i “produttivisti” più accaniti sono di sinistra. Vogliono
rilanciare a tutti i costi la crescita. A destra si invoca la crescita
speculativa, a sinistra quella più “industriale”, ma sempre di crescita
si tratta. La terapia keynesiana, all’origine dei “trenta gloriosi”,
funzionava bene negli anni ’60, oggi non più, anche perché appena c’è un
minimo di ripresa i prezzi delle materie prime salgono e le imprese
rimangono strangolate. Non nego che si debba uscire dalla crisi,
puntando alla piena occupazione, ma non lo si può fare con l’illusione
della crescita infinita».
A sinistra lo «sviluppismo» ha fatto pendant con l’idea che la crescita
economica portasse di per sé maggiore giustizia sociale, che potesse
risolvere le disuguaglianze. Un’altra idea da archiviare?
«È un’illusione che va avanti da molto tempo. Eppure già il giovane Marx
riteneva che si producesse abbastanza, perlomeno nei paesi occidentali,
e che il problema fosse di condividere meglio, diversamente. Per
evitare le difficoltà sociali della ripartizione, si è però preferito
fare una sorta di compromesso storico con i capitalisti, per produrre di
più. Alla base, c’è il mito della torta: si pensava che ingrandirla
avrebbe garantito a tutti delle fette sufficientemente grandi. Ma mentre
la torta si ingrandiva, diventava sempre più inquinata. Oggi è
avvelenata».
Usciredall’economiaperleisignificacriticarelarazionalitàeconomica, in
favore di quella ragionevolezza mediterranea di cui parla ne «Il mondo
ridotto a mercato e poi ne «La Sfida di Minerva». Di cosa si tratta?
«Sin dall’inizio, da Adam Smith e David Ricardo, gli economisti hanno
costruito una macchina economica sull’immagine della fisica newtoniana,
che è razionale, matematica, meccanica, reversibile. La vita però non si
svolge nella sfera matematica, e obbedisce alle leggi della
termodinamica, in particolare a quella dell’entropia: la storia non è
reversibile, la società non è una macchina di natura meccanica. Ecco
perché è necessario recuperare ciò che i greci chiamavano phronesis, un
concetto che Cicerone traduce come prudenza e che ame piace definire
ragionevolezza ». La razionalità economica ha modificato il modo in cui
intendiamo la natura, facendone un «dato o stile di cui bisogna
appropriarsi» e sui cui esercitare le armi «della tecno-scienza
prometeica, cieca e senza anima». Rispetto alla «hybris»
tecnoscientifica lei suggerisce di iniziare il «tecnodigiuno» di cui
parlava Ivan Illich. Come farlo? «Il paradigma prometeico della
razionalità cartesiana e baconiana sfrutta e distrugge la natura, e per
definizione non ha limiti. Il suo opposto è il “tecnodigiuno”, difficile
da esercitare. Ognuno può provarci per conto suo, ma al livello
sistemico lo faremo soltanto per necessità, quando le risorse saranno
terminate. Intanto, ci vuole un cambiamento radicale dell’immaginario,
che è già iniziato, come dimostrano le esperienze di alcuni paesi
dell’America Latina, con il recupero della tradizione amerindiana. Tutte
le civiltà hanno un tesoro di saggezza da recuperare, costruito intorno
al limite. È un tesoro che va recuperato ».
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