lunedì 24 febbraio 2014
World History? La storiografia contemporanea tra eurocentrismo e relativismo postmoderno
L'impressione è che il suprematismo bianco rinasca in un metodo che tutto sottomette al progetto di globalizzazione capitalistica e che a questo rende funzionali tutte le differenze [SGA].
Cina, India, mondo arabo: le civiltà da rivalutare L’Europa non è stata l’unico centro del mondo
di Marco Meriggi Corriere La Lettura 23.2.14
La consuetudine di identificare la storia principalmente con le vicende e
le scansioni periodizzanti caratteristiche dell’Europa ha radici assai
profonde. E la cosa non stupisce, se si pensa che a dare i natali alla
moderna storiografia scientifica è stato il nostro continente, nel cuore
dell’Ottocento, subito valorizzandola come importante strumento di
legittimazione del dominio occidentale sul mondo. In quell’epoca
un’Europa contraddistinta dalla rivoluzione industriale e dalla
liberalizzazione delle istituzioni politiche costruì i propri grandi
imperi coloniali in Asia e in Africa, sottomettendo grandi civiltà e
elaborando il mito della propria «missione civilizzatrice» su scala
planetaria. Andare alla ricerca degli antefatti di una superiorità
allora tanto schiacciante da sembrare quasi genetica significò per gli
storici europei dare consacrazione definitiva all’idea di progresso
(materiale, civile, culturale) e ancorare in esclusiva la dimensione
della storia (cioè, in ultima analisi, dello sviluppo e della
trasformazione) alla civiltà occidentale, da contrapporre
orgogliosamente a quelle — reputate stagnanti e immobili — fiorite nelle
altre parti del globo.
La storia, come perlopiù la conosciamo, è dunque contraddistinta da un
vizio originario di eurocentrismo. E tende da un lato a servirsi di un
modello di periodizzazione che enfatizza alcune scansioni tutte interne
alla vicenda occidentale (Antichità/Medioevo/Età moderna/Età
contemporanea), dall’altro a inglobare nel proprio racconto altre
civiltà presentandole come semplici scenari periferici prima
dell’espansione, poi del dominio europeo. Essa si muove alla ricerca
delle possibili anticipazioni plurisecolari (o addirittura
plurimillenarie) di un rapporto di forza su scala planetaria che è stato
caratteristico dell’età contemporanea e sembra però oggi destinato a
una metamorfosi dagli esiti incerti.
Ma il mondo anteriore alla svolta ottocentesca, come la storiografia che
si ispira al metodo della World History ha durante gli ultimi decenni
cercato di dimostrare, era in realtà assai più policentrico di quello
nel quale si è svolto il nostro passato recente. E, se si considera la
scala globale in prospettiva plurisecolare, appare davvero problematico
continuare a assegnare una sorta di primato permanente all’Europa. Al
punto che, come ha scritto qualche anno fa Immanuel Wallerstein, per
accostarsi oggi proficuamente alla storia sarebbe opportuno dimenticare
preventivamente tutto ciò che in materia si è appreso a scuola.
Un’affermazione, naturalmente, paradossale, ma non priva di suggestioni
preziose. Perché da un lato è vero che a partire dal Cinquecento gli
europei furono i più efficaci tessitori di una trama di connessioni
planetarie di scala e intensità inedite, e offrirono un contributo
determinante alla costruzione di quel mondo a quattro (e, in seguito, a
cinque) parti che rimpiazzò la tradizionale ecumene tricontinentale
formata da Asia, Africa e Europa. Però è altrettanto vero che,
all’interno di questo nuovo spazio planetario interconnesso, le singole
grandi civiltà continuarono a seguire per lo più, come in passato, il
proprio filo. Facciamo qualche esempio.
Si tende a parlare, quando si narra dell’ondata di esplorazioni e poi
dell’espansione europea avviata all’inizio della (nostra) Età moderna da
Cristoforo Colombo e da Bartolomeo Diaz, di decollo di una inedita
globalizzazione, contraddistinta dalla supremazia europea su scala
planetaria. Ma ci si dimentica che in precedenza vi erano state, in
realtà, altre straordinarie esperienze di irradiazione territoriale e
culturale diffusa, di cui erano state protagoniste civiltà diverse dalla
nostra. La rete della globalizzazione araba, tra VII e XII secolo, era
giunta ad avvolgere spazi sconfinati, che si distendevano dalla penisola
iberica al cuore dell’Asia, transitando per le coste mediterranee
africane; e quella della globalizzazione islamica, a partire dal XIII
secolo, giunse a depositarsi anche su una porzione rilevante
dell’immenso subcontinente indiano, dilatandosi inoltre verso l’Asia
sud-orientale. Quando, tra l’XI e il XII secolo, le repubbliche marinare
di Venezia, Genova, Pisa, che da una prospettiva eurocentrica siamo
abituati a considerate le avanguardie protocapitalistiche della storia
mondiale dell’epoca, ebbero la possibilità di operare in quegli spazi,
prima sostanzialmente preclusi agli europei, lo fecero assumendo un
ruolo da comprimarie, all’interno di una rete i cui punti nodali si
trovavano nel cuore dell’Asia.
In quella rete la scienza, di cui gli arabi avevano raccolto il filo
greco-classico smarrito nel frattempo dall’Europa, intrecciandolo con le
raffinate conoscenze elaborate in India e in Cina e integrandolo con la
propria ulteriore speculazione, godeva di un invidiabile stato di
salute, mentre in Europa stentava a emanciparsi dalla teologia. A quella
araba si affiancò tra Due e Trecento — senza cancellarla — la
globalizzazione mongola, che Gengis Khan e i suoi successori
realizzarono a partire dalla dorsale della via della seta, un percorso
che attraversava, come ha scritto il geostorico Christian Grataloup, «la
più grande costruzione politica terrestre di ogni tempo». Vi si
incamminò, tra i tanti, anche il nostro Marco Polo, raggiungendo
Khanbaliq (l’odierna Pechino). Lì, due secoli più tardi, sopravvisse per
qualche tempo nei giardini della corte dei Ming una giraffa, che
l’ammiraglio Zheng He, capo della maestosa flotta imperiale cinese,
aveva trasbordato con successo in patria nei primi decenni del
Quattrocento, prelevandola dall’entroterra di quelle coste africane alle
quali più volte era approdato, nel corso di viaggi che lo portarono a
solcare gli immensi spazi di quello straordinario mare multiculturale,
multietnico, multireligioso — l’Oceano Indiano — che si distendeva tra
Africa e Asia. Ma Zheng He e la sua flotta non avevano fatto vela solo
verso l’Occidente. Orientando il timone in direzione nord, in quegli
stessi decenni si spinsero fino alla Kamchatka.
Non solo il mondo era policentrico, dunque, ma le sue parti dialogavano
intensamente tra loro, prescindendo dall’intermediazione europea. E la
stessa svolta cinquecentesca, se comportò un fenomeno di disseminazione
degli europei sul globo (in America, ovviamente; ma in proporzioni assai
più contenute anche in Asia; in misura quasi impercettibile, invece, in
Africa), non si tradusse, a lungo, nell’avvio dell’egemonia
occidentale. Sotto molti punti di vista, le grandi civiltà asiatiche
rimasero superiori a quella europea sino alla fine del Settecento. E gli
europei che visitavano quei luoghi ne erano, per lo più, pienamente
consapevoli.
Così, se quella tra Medioevo e Età moderna è una cesura che ha
naturalmente un senso per l’Europa e per la rimodulazione gerarchica dei
suoi valori, mentre meno (o addirittura nulla) ha da dirci in relazione
alla storia delle grandi civiltà asiatiche, diverso è indubbiamente il
rilievo che, su scala planetaria, assunse quella tra Sette e Ottocento,
per i motivi che abbiamo illustrato all’inizio. Diversamente da quello
che l’aveva preceduto, il mondo globale che prese allora forma lo fece
sotto il segno di una superiorità europea che si lasciava avvertire
tanto, in primo luogo, sotto il profilo degli armamenti, quanto sotto
quello della crescita diseguale della ricchezza e delle opportunità
materiali e civili.
Ma quel mondo da tempo ormai sta cambiando. E certo anche per questo la
metodologia della World History, basata sul riconoscimento del
pluralismo e del policentrismo culturale e insofferente delle rigidità
etnocentriche, ha oggi davanti a sé compiti importanti.
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