Quando sentite la parola "eretico", mettete mano alla pistola.
Si fosse limitato alla poesia, i danni sarebbero stati minori [SGA].
163 26-03-2014 la repubblica 38/39
Così la guerra mi separò da Leopardi
di Pietro Ingrao Repubblica 26.3.14
Leopardi ci veniva tra le mani in terzo liceo. In terzo liceo si
studiava la letteratura italiana, si arrivava alle soglie del Novecento,
il Novecento non si faceva, si arrivava di solito fino a Carducci. E
naturalmente in mezzo c’erano Foscolo, Manzoni e c’era Leopardi. Ricordo
di averlo letto con professori, anche di grande fascino, non in lingua
italiana. Mi fa piacere ricordare che ho avuto due professori di storia e
filosofia, che mi sono molto cari; caddero entrambi assassinati alle
Ardeatine: Pilo Albertelli, che ebbi in primo liceo, e Gioacchino
Gesmundo, che ebbi in terzo liceo. Poi – questo è il destino che non
sappiamo ancora raccontare – abbiamo cospirato con loro contro il
fascismo. Pagarono con la vita la loro lotta di resistenza. (...) Mi
ritrovai a discutere di Leopardi in un’occasione curiosa. Raccontare
adesso quella che è stata la straordinaria combinazione in quegli anni
di fascismo è un po’ difficile. E infatti spesso sorgono delle
incomprensioni. Ho parlato del mio amore della poesia? Be’, ho scritto
la mia prima poesia, avevo vent’anni, per poetare sulla nascita di
Littoria che era la città che il fascismo aveva fatto sulle Paludi
Pontine. Quindi, a suo modo una poesia fascista. Poi, lo dico subito per
salvarmi l’anima, sono passato alla cospirazione clandestina e ho
fatto la Resistenza. Ma ho vissuto anche quel momento.
Con quella
partecipai ai Littoriali, che era una gara, indetta dal fascismo, un po’
per controllare le nuove generazioni. C’era anche il concorso di poesia
che fu vinto da due poeti: uno, Sinisgalli, che entrava anche lui nel
coté leopardiano, ma in un altro senso, e un altro, Attilio Bertolucci
che era un’altra cosa. Ricordo però con nettezza questi incontri. Il
fascismo combinò quella cosa pensando di controllare la gioventù
italiana, però per me e per molti di noi fu la prima grande occasione in
cui ci incontrammo da tutt’Italia. Fino ad allora non ero mai arrivato
oltre Roma. Il mio borgo natio, per usare un termine leopardiano, e
Roma.
Arrivai a Firenze. Ricordo quando andai in un caffè famoso,
quello delle Giubbe rosse, che era il caffè dei letterati, ci andai
vestito da avanguardista a portare questa poesia su Littoria e a
consegnarla ad Eugenio Montale che era già il mio nume. E mi ricordo la
faccia stravolta che lui fece di fronte a questo tale. Però in quegli
incontri cominciai ad allargare (il mio orizzonte) ed anche il mio amore
per Leopardi. (...) Una cosa è bene che sia chiara. Tutto questo
avviene mentre nell’Europa in cui io cresco si stanno accumulando i
grandi temporaliche poi esploderanno nel nazismo e nella Seconda guerra
mondiale. Questa vicenda letteraria avviene molto a sé, in gruppi
ristretti, mentre ormai nell’Europa galoppa il vento terribile della
guerra che poi mi staccherà letteralmente da quelle poesie di Leopardi e
di Ungaretti e mi spingerà violentemente a metterli nel cassetto e ad
aprire altri libri. E insieme con i libri a cominciare a cospirare, a
entrare nella lotta politica durissima, in un momento in cui ci sembrava
che tutto il mondo andasse male e crollasse. (...) Una delle grandi
questioni che si discuteva allora, anche a proposito di Leopardi: i
fascisti rimproveravano tutta quest’area della cultura e della
letteratura italiana, di trincerarsi in quella che veniva chiamata la
“torre d’avorio”, cioè il privilegio degli intellettuali. E in questo
c’era una cosa sbagliata, perché si trattava di una vicenda culturale
seria.
Però c’era anche un altro aspetto che posso testimoniare
attraverso la mia esperienza diretta. Io volevo occuparmi di poesia e di
cinema, volevo studiare quelle cose che mi avevano appassionato, che mi
trascinavano. Però fui spostato violentemente da quei libri e da quel
tavolino e fui (fummo) proiettato, trascinato in un’altra scena e in
un’altra vicenda. (...) Il merito fondamentale della concezione eroica e
progressiva di Leopardi, secondo me, è quello di spezzare la lettura
crociana, la lettura calligrafica. In Walter Binni forse era al massimo
questa lettura di Leopardi eroico. Binni è uno che risale proprio alle
origini del primo Leopardi e lo stringe poi sulla Ginestra. Secondo me,
in questa interpretazione di Binni c’è un Leopardi troppo compatto. Però
Binni riapre il discorso su Leopardi, lo sposta fortemente dal
crocianesimo e lo concentra su questa lettura del poeta come grande
figura della storia dell’Ottocento e grande figura dell’Italia che rompe
con il cattolicesimo – Binni rivendica molto il Leopardi ateo – e lo
colloca in legame con tutta una parte della cultura francese a
cominciare dal sensismo. Però mette in ombra l’aspetto che viene
chiamato idillico, ma si potrebbe anche dire nostalgico, un po’
crepuscolare. E invece Binni vede Leopardi come grande figura eroica,
che interpreta il dramma vero dell’Italia e apre un discorso nuovo
sull’avvenire, sul riscatto di questo Paese. Il pessimismo radicale –
questo è un punto su cui Binni insiste – non significa rinuncia
all’azione, anzi, l’eroico sta proprio nella assoluta consapevolezza
della tragicità della vita e nella capacità di assumere questa
tragicità. Lui sposta la lettura idillica e fa di Leopardi tutta
un’altra storia, un altro personaggio. Secondo me con uno
spostamento nella scala dei valori della grande lirica leopardiana. In
questa lettura la poesia ad Angelo Mai diventa una tappa importante (e
questo lo fa anche Ungaretti). Poi mette come sommità della poetica
leopardiana La ginestra, come risultato poetico assoluto della grande
ricerca lirica leopardiana. Questo anche sulla base di una lettura forte
dello Zibaldone, un po’ meno, secondo me, delle Operette morali. Sento
in Binni un po’ sottovalutate le Operette morali, che invece hanno delle
pagine splendide, incantevoli. Questa è stata la lettura di Binni, che
lui ha sostenuta con un’estrema coerenza. Qualche volta gli ho accennato
i miei dubbi, ma lui su questo non cedeva. (...) Non per mettermi
l’animo in pace, ma ho dei dubbi sia sulla lettura che valorizza
estremamente il Leopardi idillico sia sull’altra, quella del Leopardi
eroico. Perché sono tutte e due delle letture ideologizzanti. E che
quindi, non dico che dimenticano il testo, dimenticano l’elemento
cognitivo che è nel testo. Cosa voglio dire con elemento cognitivo? Che
cosa il testo di poesia dice al di là della parola letterale proprio
perché è testo poetico e proprio perché – questo Ungaretti in alcuni dei
suoi studi lo dice – è fatto di significato della parola, ma anche di
suono. È anche gioco di sillabe, è anche trascolorare di frasi. Le due
letture cui ho fatto cenno in qualche modo esorbitano dal testo,
scavalcano il testo. In questo senso, sono un po’ ideologizzanti. E per
me rischiano di lasciare in ombra – questa è la cosa che mi preme di più
– quella che è proprio la grande novità delle lirica leopardiana. Cioè
il suo cogliere l’esperienza vitale nel suo farsi e nel suo
trascolorare. La ginestra non solo è meno compiuta linguisticamente, ha
dei punti più oscuri, ma nel suo modulo è troppo perentoria. Mentre
invece la grande scoperta leopardina è appunto quella di rendere questa
continua contraddizione che c’è nella vita umana. Ritengo che la poesia
più bella sua sia Le rimembranze.
Vi ricordate, comincia con “Vaghe
stelle dell’Orsa”: è un continuo trascolorare tra il ricordo
dell’esperienza sua immediata (di quella che è stata la sua vita
materiale, gli episodi della sua esistenza, le terrazze, i dipinti, i
giochi, i sollazzi, le sue speranze e così via) e la sorte dell’uomo, il
suo destino. Quella che a me sembra la grande novità straordinaria non è
poi tanto la conclusione terribile e crudele a cui lui arriva, quanto
questo rendere la tragicità della condizione umana in questa continua
trascolorazione, in queste continue oscillazioni».

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