Usciva nell’aprile 1924 il saggio con cui Gobetti tentò l’ultima battaglia contro il fascismo
di Angelo D’Orsi La Stampa 30.3.14
Ricordare i novant’anni della Rivoluzione liberale, l’aureo libretto di Piero Gobetti (apparso nell’aprile del 1924) significa ancora una volta affacciarsi sul «prodigioso giovinetto» (l’etichetta, celebre, è di Norberto Bobbio). Il volume era una raccolta di articoli apparsi nell’omonimo settimanale, il cui il primo numero era uscito il 12 febbraio 1922 (l’ultimo il 1° novembre ’25). Piero non aveva neppure ventun anni, essendo nato il 19 giugno 1901. Era la sua seconda rivista, dopo le prove di Energie nove, avviata, diciassettenne, ai tempi del liceo; una terza, intitolata, con scelta significativa, all’illuminista piemontese Baretti, apparve il 23 dicembre 1924, e fu continuata da un gruppo di amici, dopo l’improvvisa morte del fondatore, sino alla fine del 1928. Nel frattempo c’era stato il rapporto con Antonio Gramsci, e la collaborazione come critico teatrale all’Ordine nuovo, nel 1921-22, ma già nel 1920 Piero aveva guardato agli operai in lotta nella Torino industriale come a un contropotere nascente, speranza della rivoluzione italiana, che peraltro egli, suscitando sconcerto tanto tra i liberali quanto tra i socialisti, si ostinava a chiamare «liberale».
La rivoluzione liberale settimanale fu lo stendardo di una disperata intransigenza, proprio quando a molti la vittoria fascista pareva inevitabile: una delle voci più forti e coraggiose dell’antifascismo militante, che denunciò la viltà del ceto politico e l’abiezione di quello intellettuale «vile razza bastarda», pronta a saltare sul carro del vincitore. Gobetti tuttavia non smise i panni a lui congeniali dell’organizzatore culturale, mettendo a frutto l’esperienza fiorentina della Voce, rifiutando però il cinismo di Prezzolini (famoso lo scontro fra i due: a Prezzolini che teorizzava la «società degli apoti», una sorta di prefigurazione del nostro «cerchiobottismo», Gobetti rispondeva proponendo, contro il fascismo, «la compagnia della morte»). Ma tutta l’opera di Gobetti non sarebbe pensabile al di fuori di Torino, la «città seria» lodata da Gramsci, la città «positiva», permeata dalla cultura del rigore, dove la «civiltà dei produttori» raggiungeva il suo culmine; la città dove l’università mostrava una vocazione civile, in un fecondo interscambio con la politica, il giornalismo, l’editoria. Fu una fabbrica di menti eccelse la facoltà giuridica dove Piero si laureò nel ’22, con «il maestro dei maestri», Gioele Solari (nella stessa sessione, con Solari, troviamo Alessandro Passerin d’Entrèves, e, negli anni seguenti, una straordinaria schiera, che annovera Bobbio e Firpo).
Non scelse l’accademia, Piero, troppo grande era il fervore politico; ma volle essere studioso, oltre che giornalista e editore: «Penso a un editore come a un creatore», scriveva. E all’editoria affidava il compito di suscitare «un intero movimento di idee». Le intimidazioni, le censure, le percosse si intensificavano: Mussolini ordinò di «rendere difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Poche settimane prima del delitto Matteotti, nell’aprile 1924, nella «Biblioteca di studi sociali diretta da R. Mondolfo», apparve presso l’editore Cappelli di Bologna l’opera che oggi ricordiamo: 162 pagine. Il sottotitolo, Saggio sulla lotta politica in Italia, era un’esplicitazione del significato che l’autore annetteva al libro: l’ultima dichiarazione di guerra al fascismo che infatti la raccolse, distruggendo quasi tutte le copie nel magazzino dell’editore. Ma era anche il tentativo di capire la genesi del movimento mussoliniano, il punto finale dei mali dell’Italia, la sua triste «autobiografia».
Gobetti stabiliva un canone interpretativo sovente riproposto, specie in epoca recente quando da più parti si è creduto di vedere nel berlusconismo una nuova «autobiografia della nazione». La capacità di sintetizzare in formule efficaci le sue analisi, tanto da apparire una sorta di formidabile copywriter («Risorgimento senza eroi», «paradosso dello spirito russo», e la stessa «rivoluzione liberale»), ha favorito la fortuna di Gobetti, lasciandoci una spigolosa e insieme feconda eredità di un pensiero non giunto a compimento, gravido di spunti, tensioni e paradossi. Nessun suo coetaneo ha inciso così profondamente, sia pure in modo erratico, non tanto nel proprio tempo, quanto in quello a venire.
All’epoca il lavoro febbrile dell’«allievo maestro» (così Augusto Monti, avviando la costruzione del mito), aveva già permeato il tessuto culturale torinese, tanto che si può parlare di un’«aura gobettiana», che ritroviamo in tante iniziative culturali nella città che, orfana dei due dioscuri (Gramsci e Gobetti), sarebbe rimasta per qualche tempo una capitale intellettuale. Questo è il lascito fondamentale gobettiano; ma, sul piano etico-politico, la sua battaglia, condotta sulle colonne del settimanale - poi riprese nella loro parte meno d’occasione nel libro che con felice intuizione ne ripeteva il titolo - è quella più fascinosa, se ancora oggi, per esempio, nell’università che fu sua (quantum mutata ab illa!), un gruppo di studenti avvia un seminario autogestito dedicato al pensiero di Gobetti. Nel ’68 si facevano su Marcuse e i «francofortesi»… È forse proprio la tensione morale che anima tutte le sue pagine, oltre che la stessa vicinanza ideale (un giovane che si contrappone ai vecchi, un «provocatore» che dà scandalo con la formula quasi ossimorica della «rivoluzione liberale», un irregolare rispetto alla cultura e alla politica), a suggestionare i suoi coetanei di un secolo dopo, in tempi di «silenzio degli intellettuali».
Straordinaria Ada che gli mandava tanta vita
Una biografia della moglie: dopo la sua morte seppe ricominciare e combatté nella Resistenza
di Paolo Di Paolo La Stampa 30.3.14
C’è stato così tanto, così tanta vita dentro questa vita, che varrebbe almeno cinque romanzi. Cinque romanzi per i suoi cinque talenti: Ada Gobetti musicista, dirigente politica, pedagogista, giornalista, scrittrice. La ragazza dal temperamento romantico appassionata al canto. Piero, il ragazzo di cui è innamorata, le regala uno spartito di Wagner, ma lei preferisce Verdi. Lentamente, senza strappi, lui la porta lontano: verso la filosofia e la letteratura; lei ne soffre, però lo segue. Poi, c’è la giovane donna ferita da un immane dolore: il giovane marito geniale muore a Parigi nemmeno venticinquenne. Ha subìto diverse vessazioni fasciste, si è trovato costretto a lasciare l’Italia appena diventato padre. Lei, sul diario del febbraio 1926, alla notizia della morte di Piero, scrive: «Non è possibile. Non deve essere possibile… Amore mio, creatura, vita mia, non ti sono stata vicina là, nella stanza dell’albergo, nella stanza della clinica, quando più avresti avuto bisogno di me».
Ada è trafitta, ma riesce a rialzarsi: ha poco più di vent’anni, si occupa del bambino, insegna a scuola, traduce dall’inglese, coltiva l’amicizia con Croce - c’è una fotografia bellissima che li ritrae l’uno accanto all’altra: è il 1939, camminano su una strada sterrata fra gli alberi di un bosco piemontese. Ada si è risposata con Ettore Marchesini, che di lì a poco sarà tra i fondatori del Partito d’Azione. Lei stessa entrerà nella lotta partigiana, tutt’altro che da spettatrice: su una minuscola agenda, tra il ’43 e il ’45, prende appunti «in un inglese criptico»: daranno vita a quel Diario partigiano che Einaudi sta per rimandare in libreria (pp. XIX-444, € 15) e offre un autoritratto involontario. Quello di una donna energica, coraggiosa, con un forte senso pratico e un’etica che non conosce cedimenti.
È una storia di giorni tesi eppure carichi di speranza, una storia di armi nascoste, di biciclette che corrono, di uova cucinate in fretta; di angoscia, anche, negli istanti più duri e rischiosi, la «strana sensazione di vuoto nei nervi e nel cuore» quando non ha notizie del figlio Paolo, partigiano anche lui, e non smette di nevicare. Non c’è una sola pagina retorica, non un istante di recita: una donna le chiede a un certo punto di occuparsi di un’organizzazione femminile, «Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà». Lei annota: «Non mi piace; in primo luogo è troppo lungo, e poi perché “difesa della donna” e “assistenza”? Non sarebbe più semplice dire volontarie della libertà anche per le donne?».
Straordinaria Ada. La sua intelligenza e la sua sensibilità saltano fuori da ogni pagina, le sue osservazioni sono semplici e acute, i ritratti efficaci, le descrizioni vivide. Ma Ada è scrittrice già nelle lettere d’amore per Piero, raccolte da Ersilia Alessandrone Perona nel 1991 in quel libro commovente che è Nella tua breve esistenza. Di Ada scrittrice si occupa uno dei saggi raccolti in Ada Gobetti e i suoi cinque talenti (appena edito da Claudiana, pp. 136, € 14,90): Emmanuela Banfo e Piera Egidi Bouchard ricompongono per tessere, attraverso studi e testimonianze, il generoso eclettismo di Ada. Il periodo in cui fu vicesindaco di Torino, il lavoro pedagogico, l’invenzione del Giornale dei genitori, che poi fu diretto da Gianni Rodari; l’attenzione ai cambiamenti sociali: muore nel marzo del ’68 e non si sottrae al confronto con l’Italia che cambia e con le richieste dei giovani («I giovani ci chiedono aiuto e non reprimende»).
«L’ho vista anche piangere, qualche volta - racconta l’amica Bianca Guidetti Serra -, però erano momenti che passavano subito. Allora lei si sedeva al pianoforte e cantava». Ecco: di Ada Gobetti scaldano ancora la fiducia nella vita e negli altri, lo spirito solare, la schiettezza, l’impegno politico risolto non come questione professionale, ma - lo ricorda Goffredo Fofi - come fatto esistenziale. È tra quegli esseri umani che si darebbe molto per aver conosciuto. Non a caso, la frase più romantica che sia mai uscita dalla penna di quell’incredibile ragazzo torinese degli Anni Venti, chiuso di carattere, precocemente proiettato nel lavoro intellettuale, è scritta per Ada: «Una lettera di Didì è la vita sai? Quindi mandami tanta vita». E lei, che sapeva e capiva tutto, dopo la morte di lui: «E penso che tu non vorresti che ti si piangesse, ma che si considerasse la tua vita un capolavoro e un esempio». Anche quella di Ada - semplice, generosa, materna - lo è.
Rivoluzione liberale Usi e abusi di uno slogan (s)fortunato
di Massimiliano Panarari La Stampa 30.3.14
Tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia. È un po’ questa la condizione della malmaritata «rivoluzione liberale», calata dalla nobile sfera delle idee liberalsocialiste alla assai più prosaica politica reale della Seconda Repubblica, dove, tra usi e abusi, e di slittamento semantico in scivolamento propagandistico, ha finito per mutare di significato.
La formula, nel 1994, viene rilanciata da Silvio Berlusconi, e la bandiera liberal-rivoluzionaria passa così a destra (dove c’è chi annovera Piero Gobetti tra gli ideologi del cosiddetto «gramsciazionismo»). C’era in effetti parecchio di «rivoluzionario» (e postmoderno) per la politica nostrana nella spinta propulsiva del berlusconismo, ma il tasso di liberalismo lasciava alquanto a desiderare, configurandosi come una promessa non realizzata, analogamente a quella a cui si erano invece molto applicati, e ben da prima, i radicali di Marco Pannella, i quali affermavano di utilizzare i loro referendum come grimaldelli proprio per innescare e far esplodere l’insurrezione liberale (e liberista).
A sinistra, nel maggio del 1995, era stato Massimo D’Alema, durante il suo «viaggio iniziatico» presso la City di Londra, ad annunciare una rivoluzione liberale prossima ventura guidata dal Pds; di qui, la reazione di Norberto Bobbio che, dalla prima pagina della Stampa, ritenne opportuno evidenziare l’incompatibilità tra «democrazia» e «rivoluzione», mettendo in guardia dal rischio di ricadere in qualche luogo comune e preoccupandosi pure di quale fine avesse fatto l’antica radice socialista di quel partito. Da allora lo slogan ricompare un giorno sì e l’altro pure nel dibattito politico e culturale nazionale, dall’economista Luigi Zingales a Paolo Guzzanti (direttore dell’omonimo web magazine, «organo del PlI»), da Mario Monti ad Angelino Alfano. Perché non possiamo non dirci liberali (anche se, poi, facciamo un’enorme fatica a esserlo davvero…).
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