Italian mini-job, la trovata di RenziIl piano del lavoro sta cominciando a prendere forma. Tra
le novità il nuovo modello contrattuale ultra-flessibile e la
retribuzione oraria per legge. Ma alla fine sarà il premier a decidere
tutto
di Salvatore Cannavò il Fatto 8.3.14
Matteo Renzi è al lavoro sul
Jobs Act. Lo ha fatto sapere lui stesso, di nuovo via Twitter, ieri
mattina alle 6,45. Sul piano del lavoro si gioca molto, per questo ha
deciso di mantenere saldamente la regia di tutta l’operazione. Lo hanno
capito nei giorni scorsi i sindacati quando sono stati convocati dal
ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, il quale ha dovuto ammettere di
non sapere nulla su quanto si sta discutendo nell’entourage del primo
ministro.
Ma il piano inizia ad avere i primi capitoli. E chi ha
partecipato agli incontri ne restituisce i dettagli. Come il contratto
unico di inserimento, anzi di “inclusione”, di cui si è già parlato; la
revisione del contratto a tempo determinato. Negli ultimi giorni è
spuntata anche l’idea di un “mini-job” all’italiana e di un salario
minimo legale, cioè la paga oraria sotto la quale nessun lavoro può
essere retribuito. Un piano che in parte ricicla il mercato del lavoro
esistente ma in parte lo modifica in profondità. Con la possibilità di
un buon impatto mediatico che è poi quello che a Renzi preme di più.
L’EX
SINDACO di Firenze ha deciso di farsi aiutare direttamente dal
responsabile economico del Pd, Filippo Taddei che, ovviamente, ha scelto
il profilo più basso possibile. “Esistono i ministri competenti, c’è un
governo in carica, io posso solo dare una mano” spiega al Fatto
rifiutandosi di aggiungere altro. Ma dell’altro c’è e se n’è discusso al
tavolo di coloro che stanno tessendo il filo della riforma. Tra loro,
il bocconiano Marco Leonardi, professore associato di Economia politica
alla Statale di Milano. Leonardi scrive su Lavoce.info fondata da Tito
Boeri, l’ideatore del contratto unico di inserimento, e punta a trovare
un compromesso tra il centrosinistra e il centrodestra di Angelino
Alfano e Maurizio Sacconi. A discutere con lui si è ritrovato anche
Patrizio Caligiuri, avvocato, PhD in diritto del lavoro, capo segreteria
dell’assessorato laziale al Lavoro ma in procinto di trasferirsi al
ministero della Pubblica amministrazione con Marianna Madia. A essere
coinvolto è anche Tiziano Treu, il “padre” del lavoro flessibile, che si
fa rappresentare, nelle riunioni ristrette da Luca Cafarelli, già
membro del Forum lavoro del Pd e attivo all’interno di Arel, il centro
studi di Treu ed Enrico Letta. È in questi consessi che il Jobs Act ha
iniziato a prendere forma. Al primo punto c’è il contratto unico di
inclusione, a tempo indeterminato, forma base del rapporto di lavoro che
nell’arco dei primi tre anni non vedrebbe contemplato l’articolo 18. In
cambio, si sta pensando a un risarcimento, in caso di licenziamento,
progressivo al progredire del contratto. Secondo tassello, il contratto a
tempo determinato, che dovrebbe rimanere limitato ad alcuni settori
(sicuramente il lavoro stagionale). In questo caso, la causale, cioè la
specifica delle ragioni dell’assunzione, utile ai fini del controllo da
parte del giudice, può non essere scritta per contratti di 36 mesi. Oggi
questa possibilità è prevista solo per il primo contratto fino a 12
mesi. Il terzo progetto, per andare incontro a Confindustria e a
Reteimprese (molto forte dopo la manifestazione di Roma), consisterebbe
nell’accorpamento in un’unica forma contrattuale delle tipologie minori
ma appetibili per le imprese. Il lavoro a chiamata o intermittente, il
lavoro autonomo occasionale e altre forme che potrebbero andare a
formare il mini-job all’italiana. Un “contrattino” super-flessibile,
magari da retribuire tramite i vaucher fino a 8mila euro di reddito
annuo. In ballo c’è anche un’altra idea, il salario minimo legale, che
fissa per legge la retribuzione minima oraria. Esiste in gran parte
d’Europa, il patto tra Spd e Cdu, lo prevede in Germania a 8,5 euro
l’ora. Obama l’ha aumentato negli Usa portandolo a 10,10 dollari (circa
7,50 euro). Nel tavolo renziano, si è parlato di 6 euro l’ora. Per i
sindacati “distruggerebbe i contratti nazionali”.
L’ULTIMO, grande,
capitolo, è la nuova Aspi (Naspi), l’indennità di disoccupazione da
estendere ad altri soggetti e basata sull’abolizione della Cassa in
deroga. Ma quest’ultima consente di mantenere il posto di lavoro, sia
pure sussidiato, a circa 130 mila lavoratori. La platea dei nuovi
beneficiari del Naspi – collaboratori, partite Iva, etc. – raggiunge il
milione di soggetti. I soldi non bastano. Su tutti questi punti Renzi
incontrerà un muro da parte dei sindacati, come dimostrano i continui
attacchi della Cgil. Solo il testo finale dirà se si tratta di una
montagna o di un topolino.
Il sociologo Luciano Gallino
“Vecchie idee: la disoccupazione rimane”
di Sal. Can. il Fatto 8.3.14
Mentre
lo raggiungiamo al telefono, il professor Luciano Gallino sta leggendo
un rapporto sul sistema sanitario in Grecia: “Un disastro assoluto, il
prodotto di politiche di austerità che produce risultati terrificanti”.
Quanto si vede finora con il nuovo governo sembra andare in quella
direzione. “Finora si è parlato molto, gli impegni sono tutti da vedere,
ma mi sembra che ci muova sulla linea degli ultimi 20-25 anni. E che
hanno solo aumentato la flessibilità e la precarietà del lavoro”.
Nessuna speranza su Renzi?
Direi che la sua domanda è una buona metafora del mio stato d’animo.
Cosa non la convince del piano del lavoro per come lo si conosce finora?
Sono
passati 20 anni dalle prime proposte Ocse sulla flessibilizzazione del
lavoro. Il risultato è che i precari sono aumentati a dismisura.
La riforma del “mercato del lavoro”
non può servire a ridurre la precarietà?
È
uscita una gran quantità di saggi che dimostrano come le riforme dei
contratti di lavoro non modificano, se non in peggio, la creazione di
posti di lavoro.
La tendenza che lei vede in atto, quindi, è la stessa dei precedenti governi?
Mi
sembra proprio di sì. In realtà non si è mai voluto analizzare in
profondità il motivo per cui le imprese chiedono maggiore flessibilità.
E qual è?
Non
solo evitare la grana dei licenziamenti , ma anche trasformare il
lavoro in un’appendice dei movimenti di capitale. La catena del valore
si è ormai internazionalizzata e la forza lavoro viene collocata in uno
stato di perenne transizione. Si pensi ai contratti a zero ore.
Contratti a zero ore?
Sì,
in Gran Bretagna ne sono stati stipulati circa un milione. Zero ore per
zero soldi. Il lavoratore firma un contratto che lo mette a
disposizione dell’impresa che lo può chiamare con un sms anche per poche
ore. Il lavoro diventa una sorta di rubinetto da aprire e chiudere a
piacimento.
Cosa pensa dei mini-job tedeschi?
Parliamo di
contratti da 15 ore alla settimana a 450 euro al mese. Se ne collezioni
almeno due riesci a raggiungere un reddito che si colloca sulla soglia
di povertà.
L’obiezione ricorrente è che è sempre meglio di niente.
È
una brutta obiezione, perché sarebbe come dire che se hai contratto una
brutta malattia in realtà potresti stare peggio. La forza della
Germania, il suo export, si fonda sull’impennata della produttività
senza aumenti retributivi. Il successo tedesco si fonda sulla pelle dei
lavoratori.
La sua idea per contrastare la precarietà e creare lavoro?
Riportare
la finanza al servizio dell’economia produttiva, creare occupazione
assumendo direttamente su progetti ad hoc. Con investimenti pubblici si
possono ristrutturare ospedali, interventi idrogeologici, etc.
Un modello keynesiano classico?
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