lunedì 17 marzo 2014

La storiografia italiana contemporaneista nel secondo dopoguerra


Guido Panico: Nobiltà e miserie di Clio. Gli abusi della storia contemporanea, Franco Angeli, Milano, pagg. 142, € 18,00

Risvolto

Il volume ripercorre alcuni sentieri della polemica intorno all’idea, assai diffusa, dell’egemonia della cultura gramsciana in Italia. Un’opzione che avrebbe determinato una versione di parte della storia del Novecento, impedendo un’obiettiva ricostruzione dei fatti. Un’idea fondata, in primo luogo, sull’assimilazione tra le idee politiche degli storici e le loro sensibilità di metodo e di prospettive storiografiche. Il volume ripercorre alcuni sentieri della polemica intorno all’idea, assai diffusa, dell’egemonia della cultura gramsciana in Italia. Un’opzione che avrebbe determinato una versione di parte della storia del Novecento, impedendo un’obiettiva ricostruzione dei fatti. Un’idea fondata, in primo luogo, sull’assimilazione tra le idee politiche degli storici e le loro sensibilità di metodo e di prospettive storiografiche. 


La storia non è un sapere neutrale; ma non è nemmeno un punto di vista. La storia, come tutte le scienze umane e sociali, non è opinione, ma conoscenza costruita con metodo. Gli storici sono tali non per il loro ruolo accademico, ma per la metodologia, che, sia pure in maniera assai approssimativa, ha l'ambizione alla scientificità. Su queste premesse generali prende l'avvio il libro, che ripercorre alcuni sentieri della polemica intorno all'idea, assai diffusa, dell'egemonia della cultura gramsciana in Italia. Un'opzione che avrebbe determinato una versione di parte della storia del Novecento, impedendo un'obbiettiva ricostruzione dei fatti. È un'idea fondata, in primo luogo, sull'assimilazione tra le idee politiche degli storici e le loro sensibilità di metodo e di prospettive storiografiche. In Italia lo storicismo, nelle sue varie versioni, tra cui quella gramsciana, ha dominato, a lungo, gli studi, accomunando storici di diversa sensibilità politica. Il successo delle "Annales", la rivista espressione di un fare storia non storicista, contribuì, al volgere degli anni Sessanta del secolo scorso, a dividere la comunità di Clio, ma non in senso politico. 
La discussione sui confini della pratica storiografica divise, spesso con toni assai polemici, storici dello stesso sentire politico. Proprio in quegli anni la storia dell'età contemporanea cominciò anche in Italia a cercare una propria specifica collocazione con esiti spesso pregevoli. Altre volte fu, invece, eccessivamente piegata alle esigenze della storia politica e dei partiti. La storia politica ha conosciuto un percorso assai accidentato a causa del suo facile utilizzo in chiave di brutale attualità; insomma il passato come giustificazione o esaltazione del presente. Si è trattato di un uso politico di Clio che è stato esaltato dalla storia raccontata dai media, dalla televisione su tutti.


Guido Panico insegna Storia contemporanea all'Università di Salerno. È membro della direzione di "Historia Magistra" edita da FrancoAngeli. Negli ultimi anni ha dedicato i suoi studi soprattutto alla storia sociale. Tra i suoi libri più recenti, insieme a Antonio Papa, Storia sociale del calcio in Italia (il Mulino, 2002), Ritratto di borghesie meridionali. Storia sociale dei Salernitani nel Novecento (Avagliano 2005) e L'artista e la sciantosa. Il delitto Cifariello, un dramma della gelosia nella Napoli della Belle Époque (Liguori 2011). È autore, di recente, di saggi storiografici dedicati alla discussione intorno all'uso delle fonti letterarie e iconografiche in storia.  




Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14

L'età della smemoratezza
Gli italiani non amano le ricapitolazioni meticolose dei fatti
Panico invita a evitare semplificazioni e scorciatoie ideologiche 
di Luigi Mascilli Migliorini


Si possono leggere come una storia della storiografia italiana all'indomani della «morte della patria»; si possono leggere come una storia della sinistra italiana alla prova dello sviluppo della democrazia, si possono, più semplicemente, leggere come una storia del dopoguerra italiano: in ogni caso le pagine di questo breve, intenso libro rappresentano uno dei contributi più sinceri e utili per comprendere la natura e la vastità della crisi politica, intesa esattamente come crisi della polis, della cittadinanza, che ha investito il nostro paese. Un paese «smemorato», si sente osservare sempre più spesso, di fronte alla facilità con la quale gli italiani dimenticano le filiere del rapporto causa-effetto che nel suo scorrere temporale serve, ovunque, a ricapitolare origini e quindi responsabilità dei problemi che il presente ti obbliga ad affrontare. Ingenui (almeno all'apparenza) costruttori di rinascenze, riscatti, risorgimenti, insomma di qualsiasi palingenesi che abbia a propria premessa una frettolosa dimenticanza del passato, dei suoi fardelli, delle sue colpe individuali e collettive, gli Italiani non amano ricapitolazioni troppo meticolose dell'accaduto.
Ai fastidiosi riepiloghi dall'aria un po' da vecchio contabile, dove si distribuiscono torti e ragioni e si tenta di capire quali eredità degli uni come delle altre pesino sull'oggi, essi preferiscono la tabula rasa della memoria, certi di poter costruire su questa assoluzione collettiva un sentimento di appartenenza comune che si disfa quando, puntualmente, la mancata chiarezza su ciò che è stato porta il conto a un presente smarrito e disunito. È accaduto, perfino con il momento fondatore della polis. Lo ricordiamo il 2011: il tentativo di una frettolosa, imbarazzata liquidazione dell'anniversario della nascita dello Stato nazionale, che avveniva tra gli schiamazzi dei suoi avversari e il silenzio vile dei suoi presunti sostenitori e in mezzo un popolo frastornato, a cui gli storici di professione, «custodi della memoria» per vocazione e mestiere, non riuscivano a offrire né una equilibrata ricostruzione delle questioni in campo, né (all'opposto, ma ugualmente salutare) una vigorosa contesa di grandi partigianerie ideali, e si limitavano a riprodurre ciò che il senso comune di una cattiva politica offriva a ogni angolo di strada.
Sono gli stessi storici (cioè la stessa categoria) che Guido Panico chiama con forza in causa in questo libro a proposito di un altro, e forse perfino più forte, riferimento fondativo dell'Italia democratica: l'antifascismo e la Resistenza. Il necessario superamento delle interpretazioni appartenute a decenni, gli anni Cinquanta e Sessanta, che inevitabilmente, giustamente perfino, dovevano mescolare storia e memorie personali, ricerche documentarie e battaglie ideali, si è trasformato, nel tritacarne dell'Italia post-comunista e post-democristiana, in uno sventolio di parole d'ordine – guerra civile, pacificazione, storie di vinti – a cui era estranea ogni capacità, o meglio ogni volontà, di autentica storicizzazione, di autentica restituzione del grande dramma vissuto da un popolo, delle colpe maggiori, minori che ciascuno aveva avuto in quel dramma, dei ruoli di carnefici e dei ruoli di vittime che esso aveva – fissandoli per sempre nel tempo – distribuito.
Certo il compito di questa dissoluzione memoriale – lo dice Guido Panico – è stato reso più semplice dalla facilità con la quale in Italia (ben diversamente dalla Germania e in un modo, per dir così, più esteriorizzato, e dunque superficiale dalla rimozione che hanno fatto i francesi degli anni di Vichy) si è chiuso il capitolo del fascismo. In questo senso l'opera storiografica di Renzo De Felice, letta alla luce del poi, sembra aver fatto da ouverture ad un festival collettivo della smemoratezza piuttosto che (come era nelle sue intenzioni) alla riflessione sulle responsabilità di una intera società dei cui tragici esiti essa non poteva far colpa a un unico, seppur colpevolissimo, «capro espiatorio».
Quello che si può constatare più in generale, seguendo il percorso interpretativo proposto da Guido Panico, è che nel momento in cui il revisionismo che ha caratterizzato in larga misura la storiografia europea a partire dagli anni Ottanta, con il suo carico di legittime domande, di innovativi punti di osservazione, ma anche con il suo fardello di fraintendimenti ideologici e di astuzie comunicative, impatta il tessuto della società italiana, si producono effetti derivati, e – immagino – almeno in parte indesiderati, di cui questo libro ci avverte con molta chiarezza. A contatto con la tradizione italiana, cioè con la tradizione del suo senso comune, il revisionismo ha amplificato uno dei suoi rischi più evidenti: la trasformazione della decostruzione delle verità pubbliche costituite in nichilismo valoriale. Posto di fronte (grazie anche a un singolare ircocervo di storici-giornalisti e viceversa) alla continua rivelazione dei fallimenti e degli inganni della storia – oggi la Resistenza, domani il Risorgimento, poi la Rivoluzione francese – soprattutto di quella storia che, spesso con generosa, illusoria e tragica volontà, ha provato a cambiare il mondo, l'italiano rafforza la certezza nel proprio, individualissimo «eterno presente», e, convinto che nulla in questa storia cambi mai veramente, si appresta, con rinnovata tranquillità, a conservare il piccolo mondo del suo «particulare».


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