lunedì 10 marzo 2014

L'anniversario della Grande Guerra. Una nuova edizione per Il mito di Mario Isnenghi


Copertina 25137Mario Isnenghi: Il mito della Grande Guerra, il Mulino

Risvolto
Le riviste dell’età della «Voce», i fogli interventisti, i diari di trincea e la letteratura sulla guerra: rileggendo questa sterminata produzione Isnenghi ha ricostruito l’atteggiamento di una intera generazione di intellettuali italiani nei confronti dell’esperienza bellica. Da Marinetti a Prezzolini, a Gadda, da Soffici a Jahier, Serra, Malaparte, Borgese, d’Annunzio, la guerra si configura di volta in volta come occasione rigeneratrice per l’individuo e la società, come veicolo di protesta o, al contrario, antidoto alla lotta di classe. Le molte facce del mito della Grande Guerra in uno spaccato di storia mentale, sociale, politica dell’Italia nel passaggio dalla politica delle élites alla società di massa.


Raccontare la Grande Guerra “Non dobbiamo vergognarci di aver vinto”
Intervista allo storico Mario Isnenghi che ripubblica il suo classico “Il Mito” “In questo centenario prevale il pensiero unico: il conflitto fu assurdo. Ma non è così”

di Simonetta Fiori Repubblica 10.3.14

PADOVA. Per molte generazioni di lettori italiani Mario Isnenghi è la Grande guerra. Il suo celebre Il Mito è uno dei pochi saggi di storia contemporanea che resiste al passare del tempo. Oltre quarant’anni fu accolto come un libro strano, un ibrido storico- letterario, oltre che ideologicamente sovversivo. «Ero considerato accademicamente un bisessuale», racconta lo studioso nel suo studio di Padova. «Con un doppio peccato originale. Agli occhi dei letterati riducevo la scrittura letteraria a testimonianza. E agli occhi degli storici usavo come fonti documentali diari, romanzi e articoli di giornale. Il massimo dell’impopolarità». Della grave colpa l’avrebbero liberato Paul Fussell ed Eric J. Leed, e «quella che mi era stata addebitata come una defaillance per un irredimibile provincialismo italiano divenne improvvisamente una straordinaria scoperta metodologica. Legittimata solo perché scritta in inglese». Ora Il mito della Grande guerra è di nuovo in libreria con una introduzione che - come spesso capita nei libri dello storico veneziano - è un terreno disseminato di mine. Pronte a esplodere contro larga parte della storiografia «grandeguerresca». E contro la memoria pubblica coltivata in Italia anche in occasione di questo centenario.
Professor Isnenghi, cosa ci apprestiamo a celebrare?
«Celebrare? La parola è assolutamente da evitare. Chiunque oggi le direbbe: non c’è nulla da festeggiare. Lo stesso accadde per l’Unità d’Italia, tra leghisti e municipalisti, neoborbonici e clerico intransigenti. Ma allora si oppose la variopinta falange degli unitari. Mentre per il centenario della guerra prevale una sorta di pensiero unico».
Qual è questo senso comune?
«Intanto un’affermazione preliminare di carattere generale: ogni guerra è un male in sé. Questo è il punto di vista dei pacifisti, condiviso dai più. Poi interviene una considerazione specifica sulla Grande guerra, che appare ormai un ferrovecchio della storia, distante nel tempo, lontano negli scopi e nei moventi. E se non bastasse, s’aggiunge una ragione attualissima legata alla cittadinanza europea: appare incongruo oggi celebrare la rottura, l’essersi sparati addosso tra popoli tra cui bisogna una fraterna cittadinanza. Assolutamente fuori luogo».
E non è forse vero?
«Ma certo che lo è. Questo va bene sul piano della politica della memoria o dell’educazione civica. Ma non va bene sul piano della storiografia. Sa qual è la frase più ripetuta anche in ambito storico? Il non senso di quella guerra. L’assurdo di quella catastrofe, vana e sanguinosa apocalissi. Questo è il portato della storiografia francese, planato senza trovare resistenze sulle nostre ricerche storiche».
A chi si riferisce?
«Cominciarono Annette Becker e Sthephane Audoin-Rouzeau con il memoriale di Peronne, costruito vicino ai luoghi della battaglia della Somme. Una sorta di museo della sanguinosa guerra di posizione, di fronte al quale era naturale calcare il pedale dell’orrore. Intendiamoci, un’angolatura radicalmente innovativa».
E allora perché oggi la contesta?
«Perché è diventata l’unica chiave interpretativa della guerra. E ha finito per contagiare anche la nostra storiografia. Ora non voglio polemizzare con Antonio Gibelli o Giovanna Procacci che hanno scritto libri importanti. O con Bruna Bianchi e altre studiose delle donne sensibili al tema della non violenza. Più in generale dico: va benissimo dedicarsi alle vittime, alle vedove, agli orfani, ai mutilati, ai malati psichiatrici, ai disertori. Ma la maggioranza degli italiani non diserta, non diventa pazza e non si ammutina. E va a fare la guerra, anche senza volerlo. Perché? Questa è la domanda su cui mi arrabatto da qualche decennio».
Ma non è stato lei a scrivere I vinti di Caporetto, attribuendo alla diserzione un valore di ribellione politica?
«Ma certo. Sono stato a lungo considerato un sovversivo della storiografia, collezionista di ammutinamenti, proteste e di ogni possibile dissenso sociale. Proprio per questo non mi pare di avere molto da imparare su quel terreno. Ma non trovo giusto sovrapporre le nostre gerarchie di valore a quelle di uomini e donne di cent’anni fa. È vero che anche io presi sul serio quel che dicevano Cadorna e Mussolini sui ribelli di Caporetto. Sono andato a vedere se c’era stata la rivoluzione. Se l’avessi trovata, ne sarei stato contento. Ma non l’ho trovata, così mi sono messo a studiare come si arriva a Vittorio Veneto, dove e come termina la guerra. Bisogna farsene una ragione e pronunciare quella parola indicibile: vittoria».
È diventato patriottico?
«È passato mezzo secolo da allora. E non sono io che sono cambiato: è il mondo che è girato. E il mio spirito di contraddizione oggi si esercita così: essere statalista è il massimo della perfidia anticonformista. Ed essere unitari contro il municipalismo è il massimo del pensiero controcorrente. Ma posso fare un passo ulteriore?».
Prego.
«A me pare che per diversi miei colleghi, tra la fine del Novecento e oggi, il “tutti a casa” di Caporetto - che si poteva leggere come una stanchezza diffusa dei fanti - sia diventato un valore in sé. Per me non è mai stato un valore in sé. La mia generazione l’aveva incontrato l’8 settembre del 1943, e non era un bel paesaggio civile. Allora perché dobbiamo ragionare diversamente passando dalla seconda alla prima guerra?».
Lei lamenta il rischio di celebrazioni fortemente localistiche, tanto da aver coniato la formula di «storiografia a chilometro zero».
«È solo l’ultimo paragrafo di un processo in atto da anni. Soprattutto nel Nord-Est, ossia nei luoghi in cui la guerra fu combattuta, esiste una foltissima bibliografia legata al campanile: a ognuno la sua valle, il suo reggimento, il suo forte, la sua battaglia. È una bi-bliografia che si autoalimenta, fatta da piccoli editori che possono contare su un continuo nuovo flusso di studiosi profondamente radicati sul territorio. Non ho nulla contro la microstoria, tutt’altro: serve a rendere più leggibile la grande storia. Buona parte di questi studi, però, tende a chiudersi nel microcosmo».
Con quali rischi?
«Che questa diventi l’ottica prevalente dell’anniversario: ossia l’angolatura del piccolo è bello, piccolo è nostro, molto in sintonia con gli amministratori di quei luoghi. E ancora una volta mi ritroverò in rotta di collisione non perché non mi piacciano gli atteggiamenti comunitari, ma perché si tratta di una comunità chiusa in se stessa e autocentrata. Così quella che ricorderemo sarà una guerra non solo destoricizzata per le ragioni che abbiamo detto prima, ma anche depoliticizzata o almeno appannata nella sua dimensione statuale».
Perché dice questo?
«Molti amministratori municipalisti - leghisti o variamente localisti - non vogliono avere a che fare con le ragioni dello Stato italiano, né di allora né di oggi. E così sarà ricordata una guerra di contrada, con i nostri nomi, le nostre umane sofferenze, le nostre virtù civiche. Tenga anche conto che il grosso dei finanziamenti arriverà non dallo Stato italiano ma dalle Regioni, specie quelle a statuto speciale. Questo aiuterà a pensare la guerra in termini decentrati e periferici. E i luoghi della memoria diverranno la meta di gite, più o meno come si va a Santiago di Compostela. Un tempo si chiamavano pellegrinaggi, oggi si chiama turismo consapevole».
Lei ora ripropone il suo Mito senza cambiarne una virgola.
«Controcorrente all’epoca in cui uscì, nel 1970. E controcorrente oggi. Non c’entra niente con l’attuale senso comune sull’“assurdo della guerra”, semmai indaga motivazioni e valori attribuiti al conflitto, le virtù e non solo l’orrore dei combattimenti, in altre parole il vissuto loro, non il nostro. Parla dei miti, senza volere demitizzarli. E se posso dire una cosa da cittadino, rinunciando per un momento alla veste di storico: era meglio non farla la guerra? D’accordo. Ma se proprio si deve fare, è meglio vincerla che perdere. Senza dovercene poi vergognare».


La storia? Non è a chilometro zero
Novecento. Il mito della grande guerra di Mario Isneghi, la ristampa per Il Mulino di un libro che venne considerato eretico già quarant'anni fa, alla sua prima uscita. L'autore, infatti, considerava quell'esperienza bellica senza giudizi morali, interpretandola come gli albori dei movimenti di massa Claudio Vercelli, 5.7.2014 il Manifesto


Scon­tiamo un ritardo, non solo cul­tu­rale e poli­tico ma addi­rit­tura cogni­tivo. E forse ce ne ren­diamo conto adesso, pagan­done così ripe­tu­ta­mente il prezzo. Per tutta la sto­ria del Nove­cento abbiamo iden­ti­fi­cato nella dimen­sione Stato-nazionale lo spa­zio per eccel­lenza del con­flitto. A par­tire da quello sociale, che si è arti­co­lato pro­prio nel con­fronto anta­go­ni­stico, o com­pe­ti­tivo, con attori e sog­getti, pub­blici e pri­vati, intesi di volta in volta come inter­lo­cu­tori o avver­sari, acco­mu­nati comun­que dall’appartenere alla mede­sima sovra­nità.
L’identità di classe, il pas­sag­gio alla mar­xiana classe per sé, lad­dove sus­si­steva, ha sto­ri­ca­mente tro­vato nella dimen­sione nazio­nale il punto di arrivo e non quello di par­tenza. Tutto ciò mal­grado la dimen­sione anti­te­tica tra la sfera del pro­durre, intesa come spa­zial­mente illi­mi­tata, del pari alla con­di­zione di alie­na­zione di chi è chia­mato a lavo­rare nelle mede­sime con­di­zioni, o in situa­zioni simi­lari, in luo­ghi molto diversi, e l’illusorietà di un’identità rigi­da­mente anco­rata al ter­ri­to­rio. Quest’ultima, quindi, a sua volta legata alla tran­si­to­rietà del ruolo dei con­fini, desti­nati ad essere con­ti­nua­mente rimessi in discus­sione dalle tra­sfor­ma­zioni che con­trad­di­stin­guono l’evoluzione capi­ta­li­stica in ciò che chia­miamo «con­tem­po­ra­neità».
In età di glo­ba­liz­za­zione con­cla­mata, lo sco­prire sulla pro­pria pelle che l’unico inter­na­zio­na­li­smo ope­rante sia quello dell’accumulazione di ric­chezza, senza patria né biso­gno di radi­ca­mento, è uno scacco nella vita delle per­sone così come delle loro intel­li­genze. Dopo di che, il punto da cui par­tire per cogliere quest’ordine di pro­blemi, è ancora una volta la Prima guerra mon­diale. Vero e pro­prio labo­ra­to­rio, non­ché ricet­ta­colo, di sen­sa­zioni, idee, umori ma anche espe­rienze e saperi che hanno con­di­zio­nato un secolo intero. Poi­ché in essa si incro­ciano, si ibri­dano e si misce­lano moventi che accom­pa­gnano l’epoca for­di­sta per intero, fino alla sua con­sun­zione, in Europa, con il declino del bipolarismo.

Apo­lo­gia del conflitto
Rie­vo­care la Grande guerra ha quindi senso se ci si pone in quest’ottica, dove il con­nu­bio tra massa e pro­du­zione è con­su­stan­ziale a quello tra par­te­ci­pa­zione e mobi­li­ta­zione non meno che alla dia­let­tica tra il limite e il suo supe­ra­mento. La stessa pra­tica di potere cono­sce con essa un muta­mento, segnando il sostan­ziale ana­cro­ni­smo del sistema a demo­cra­zia oli­gar­chica, su cui il libe­ra­li­smo euro­peo aveva costruito le pro­prie for­tune durante il lungo Otto­cento.
Da ciò, come ben sap­piamo, sareb­bero deri­vati sia il modello rivo­lu­zio­na­rio incar­nato dal bol­sce­vi­smo che quello rea­zio­na­rio dei tota­li­ta­ri­smi fasci­sti. Le cari­che dirom­penti dell’uno e dell’altro non pote­vano defla­grare in assenza di una mito­gra­fia e di un’apologia del con­flitto come sin­tesi delle pul­sioni più forti, e quindi mag­gior­mente auten­ti­che, della col­let­ti­vità. Non del con­flitto sociale, che viene sem­mai ane­ste­tiz­zato, tra­slato, subli­mato e disin­ne­scato, bensì di quello che rimanda alla dimen­sione ter­ri­to­riale, e quindi nazio­nale, come fon­da­mento della società.
Mario Isnen­ghi, nel suo Il mito della grande guerra (il Mulino, pp. 456, euro 14,00), ora ristam­pato, già quarant’anni fa si ado­pe­rava nel descri­vere e nell’analizzare le sor­genti cul­tu­rali, emo­tive ed affet­tive di uno spa­zio iden­ti­ta­rio col­let­tivo che nello Stato nazio­nale trova le sue radici come anche la sua legit­ti­ma­zione ultima. Lad­dove il fon­da­mento dello Stato era e rimane il mono­po­lio della forza ma soprat­tutto il ricorso ad essa, attra­verso la vio­lenza legale pra­ti­cata come regime di massa.
L’autore rico­strui­sce la trama cul­tu­rale e antro­po­lo­gica che accom­pa­gna il suo dispie­garsi sui campi di bat­ta­glia della Prima guerra mon­diale. Si trat­tava di un con­flitto armato dove al rifiuto di alcuni si con­trap­po­neva l’assenso degli altri, al dolente dis­senso di una mino­ranza la fredda con­sa­pe­vo­lezza dei molti, all’irrazionalità delle distru­zioni la razio­na­lità del pro­durre per con­su­mare tutto e subito. Lad­dove i capi oppo­sti si com­pe­ne­tra­vano vicen­de­vol­mente, resti­tuen­doci, a distanza di tempo, una sto­ria molto più com­pli­cata di quanto non avremmo voluto fosse stata. La mede­sima cosa sarebbe poi avve­nuta con le suc­ces­sive rifles­sioni, ope­rate in anni a noi più pros­simi, sul fasci­smo e sui suoi esiti al con­tempo bel­li­cosi e tra­gici.
Il testo di Isnen­ghi ha peral­tro una sua sto­ria, det­tata non solo dal tra­scor­rere degli anni dalla sua prima edi­zione. Uscito in tempi non sospetti, quando la sepa­ra­zione tra disci­pline era intesa come un sug­gello di pro­fes­sio­na­lità, di fatto si segnalò da subito come ere­tico. Sul piano meto­do­lo­gico come su quello con­te­nu­ti­stico.
Nel primo caso per­ché l’autore fa abbon­dante ricorso alla let­te­ra­tura come a uno stru­mento testi­mo­niale, men­tre sup­porta le sue affer­ma­zioni con l’uso, a mo’ di riscon­tro ogget­tivo, di diari e docu­menti non uffi­ciali. Per la sto­rio­gra­fia di allora, ancora for­te­mente anco­rata alla sto­ria poli­tica, e quindi ad un posi­ti­vi­smo di fondo, si trat­tava di un cedi­mento ad una pie­ga­tura sog­get­ti­vi­sta della com­pren­sione del fatto bel­lico. Solo a distanza di un decen­nio e più sareb­bero inter­ve­nute le opere, tutte in tra­du­zione, di sto­rici di area anglo­sas­sone e fran­co­fona, come Eric J. Leed o Paul Fus­sell, che avreb­bero defi­ni­ti­va­mente svin­co­lato il para­digma inter­pre­ta­tivo dal debito verso una dimen­sione gio­cata sulla sola auto­nar­ra­zione delle classi diri­genti.
Nel caso dei con­te­nuti, invece, la frat­tura, che opera a tutt’oggi, è sui signi­fi­cati da attri­buire alla vicenda bel­lica del 1915–1918. L’accentuata pro­pen­sione verso una sto­ria dei «vinti», che deriva dall’attenzione per la cul­tura delle classi subal­terne, e si incon­tra ai giorni nostri con l’interpretazione del con­flitto come «apo­ca­lisse», ossia come assur­dità priva di senso, con­tra­sta con l’impostazione di fondo che Isnen­ghi da sem­pre sostiene. Con­fron­tarsi con una guerra di massa vuole dire svin­co­larsi da una let­tura morale, che azzera il signi­fi­cato della par­te­ci­pa­zione e del coin­vol­gi­mento col­let­tivo ridu­cen­doli al solo aspetto mani­po­la­to­rio, quand’anche esso sia par­ti­co­lar­mente pro­nun­ciato, come nelle vicende bel­li­che moderne.
La guerra, rileva l’autore, sta nel campo pro­spet­tico della con­tem­po­ra­neità non come soprav­vi­venza di tra­scorsi bar­bari, ovvero come segno di incom­piu­tezza intel­let­tuale. Sem­mai l’analisi delle tan­tis­sime fonti che lo sto­rico va facendo rivela non solo la razio­na­lità ma anche un’inquietante ragio­ne­vo­lezza, per una parte dei pro­ta­go­ni­sti di quel tempo, nella scelta del ricorso alle armi. E se l’ubriacatura nazio­na­li­sta ebbe in non pochi casi il soprav­vento, salvo poi in parte dover­sene rav­ve­dere, non di meno l’idea di nazione come fatto com­piuto trovò nelle trin­cee, ben più che nelle offi­cine, un’opportunità che le élite libe­rali non avreb­bero altri­menti mai potuto offrirle.
Non è un caso, quindi, se a con­fronto armato ter­mi­nato, ad impos­ses­sarsi effi­ca­ce­mente e dure­vol­mente di que­sto risul­tato, tra­sfor­mato per l’appunto in «mito», sareb­bero poi stati i movi­menti di mobi­li­ta­zione di massa che, dalla tra­du­zione del con­flitto poli­tico in pro­se­cu­zione per­ma­nente di quello bel­lico, tras­sero buona parte delle loro for­tune. La rilet­tura del volume ci porta quindi verso nuovi oriz­zonti di rifles­sione. Dinanzi al rifiuto nei con­fronti delle grandi rico­stru­zioni, che è venuto affer­man­dosi in que­sti anni, lad­dove que­ste ultime sono decli­nate poi­ché denun­ciate come inef­fi­caci da una sto­rio­gra­fia che fatica a libe­rarsi dall’abbraccio mor­tale con l’ipertrofia della sto­ria per­so­nale e indi­vi­duale, il biso­gno di una auto­bio­gra­fia di massa torna a pren­dere consistenza.

Dal det­ta­glio al globale
Isnen­ghi denun­cia, ad esem­pio, il rischio di quella che chiama una «sto­rio­gra­fia a chi­lo­me­tro zero», dove il loca­li­smo si sposa all’incapacità – o all’indisponibilità – ad una visione d’insieme. Le cele­bra­zioni che l’Italia si appre­sta a fare del cen­te­na­rio rischiano infatti di ridursi al rimando enfa­tico e acri­tico al «sacri­fi­cio». Que­sto pro­ce­di­mento è con­sono allo spi­rito del tempo che stiamo vivendo, dove l’enfatizzazione e l’apologia dello spa­zio per­so­nale con­tra­sta con il biso­gno di tro­vare dei comuni deno­mi­na­tori inter­sog­get­tivi.
Lo spec­chio rove­sciato della glo­ba­liz­za­zione si tra­duce nella chiu­sura men­tale verso i grandi trend, carat­te­riz­zati, secondo un certo comune sen­tire, dall’impossibilità di essere rac­con­tati e valu­tati cri­ti­ca­mente. La descri­zione e la com­pren­sione della Grande guerra diven­tano così il campo di veri­fica di logi­che che rin­viano imme­dia­ta­mente all’oggi.
L’intero volume ruota intorno alla let­tura cri­tica e com­pa­rata dell’infinito corpo let­te­ra­rio che il con­flitto del 1915–1918 ci con­se­gna. Una guerra non solo di pal­lot­tole ma anche di carta. Una guerra a più livelli, che viene resti­tuita ai suoi stessi pro­ta­go­ni­sti non dall’esperienza mate­riale in quanto tale, e dalla sua suc­ces­siva memo­ria, bensì dalla tra­sla­zione eroi­ciz­zante o demo­niaca che di essa viene sedi­men­tata nella coscienza degli ita­liani. Il trait d’union è la dimen­sione, al con­tempo ini­zia­tica e for­ma­tiva, di un’impresa col­let­tiva dove, per la prima volta, sotto il para­digma della rige­ne­ra­zione, si for­mula un patto di appar­te­nenza che lega l’individuo alla comu­nità nazio­nale.
Il ruolo degli intel­let­tuali è, da que­sto punto di vista, stra­te­gico. Leg­gerlo come il solo pro­dotto di una misti­fi­ca­zione è quando di più ridut­tivo possa essere fatto. Se già la Fran­cia del caso Drey­fus aveva pro­mosso l’informazione al rango di vei­colo nella costi­tu­zione di una opi­nione pub­blica, il rac­conto della Grande guerra assume per gli ita­liani il signi­fi­cato di para­digma di un’appartenenza comune. Quella che deriva dall’identità det­tata dagli spazi dello Stato nazio­nale. Morire per esso indica non solo che ad esso si appar­tiene ma che esso stesso ci appar­tiene.
Sulla illu­so­rietà di tale con­vin­ci­mento sarà poi inu­tile, a conti fatti, spre­care troppe parole, essendo invece il solido ter­reno di affer­ma­zione del fasci­smo, nell’età della «nazio­na­liz­za­zione delle masse». Le quali, negli stessi campi di bat­ta­glia, ave­vano già rive­lato di temere di potere per­dere le loro catene, in man­canza di altri solidi appi­gli. Un riscon­tro inquie­tante, che vale per il pas­sato come per l’immediato presente.

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