Risvolto
Cazzo, che bel bersaglio! Provo a passare da dietro e li faccio fuori». Non è un cecchino a parlare dal tetto di un edificio, ma qualcuno di comodamente seduto alla base militare di Creech, in Nevada. Sta pilotando un drone Predator che si appresta a lanciare un missile Hellfire su un gruppo di persone sospette in Afghanistan.
Con i droni, tra il grilletto sul quale poggia il dito e la canna da cui uscirà il proiettile ci sono migliaia di chilometri. Una distanza che rimette in discussione la stessa idea di guerra: che cos’è infatti un combattente che non combatte? Dov’è finito il campo di battaglia? Si può ancora parlare di guerra, quando il rischio non è simmetrico? Quando interi gruppi umani sono ridotti allo stato di mero bersaglio?
Nella guerra a distanza, poco importa che siano macchine a uccidere esseri umani, l’importante è che lo facciano in modo umano. Eppure dietro l’apparente umanità della morte per droni non poche sono le questioni etiche, psicologiche e soprattutto giuridiche che vi si celano.
La guerra dei droni, più che un paradigma militare, sembra imporre quello di una «caccia all’uomo». Per Grégoire Chamayou, attraverso le trasformazioni delle tattiche e delle tecnologie militari, si tratta allora di portare avanti un’analisi delle odierne mutazioni della sovranità e una critica del diritto a uccidere come fondamento del nuovo militarismo democratico.
Cazzo, che bel bersaglio! Provo a passare da dietro e li faccio fuori». Non è un cecchino a parlare dal tetto di un edificio, ma qualcuno di comodamente seduto alla base militare di Creech, in Nevada. Sta pilotando un drone Predator che si appresta a lanciare un missile Hellfire su un gruppo di persone sospette in Afghanistan.
Con i droni, tra il grilletto sul quale poggia il dito e la canna da cui uscirà il proiettile ci sono migliaia di chilometri. Una distanza che rimette in discussione la stessa idea di guerra: che cos’è infatti un combattente che non combatte? Dov’è finito il campo di battaglia? Si può ancora parlare di guerra, quando il rischio non è simmetrico? Quando interi gruppi umani sono ridotti allo stato di mero bersaglio?
Nella guerra a distanza, poco importa che siano macchine a uccidere esseri umani, l’importante è che lo facciano in modo umano. Eppure dietro l’apparente umanità della morte per droni non poche sono le questioni etiche, psicologiche e soprattutto giuridiche che vi si celano.
La guerra dei droni, più che un paradigma militare, sembra imporre quello di una «caccia all’uomo». Per Grégoire Chamayou, attraverso le trasformazioni delle tattiche e delle tecnologie militari, si tratta allora di portare avanti un’analisi delle odierne mutazioni della sovranità e una critica del diritto a uccidere come fondamento del nuovo militarismo democratico.
Guerre asimmetriche L'era delle armi senza corpiChamayou denuncia l'uso dei droni, che cancella la base del diritto internazionale: la distinzione tra militari e civilidi Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 23.3.14
I
droni entrano sulla scena pubblica americana in esatta coincidenza con
l'uscita degli Stati Uniti dal disastro militare del Vietnam. Il 26
febbraio 1973, quando l'amministrazione Nixon ha firmato da un mese gli
accordi di pace e va completando il ritiro delle forze armate dalla
penisola indocinese, in un'audizione parlamentare i vertici dell'Air
Force riconoscono di avere segretamente impiegato, nel corso della
guerra, i cosiddetti Uav: gli Unmanned Aerial Vehicles che finiranno per
essere designati come droni. Non erano ancora mezzi da combattimento.
Erano aerei senza pilota non armati, mezzi di sorveglianza. Ma proprio
la lezione dolorosamente imparata attraverso la guerra del Vietnam – la
crescente intolleranza dell'opinione pubblica verso l'idea che in una
guerra muoiano anche i "nostri" – faceva dei droni, nei programmi
statunitensi di sviluppo militare, l'arma letale del futuro.
Senza
attendere le dichiarazioni ufficiali dell'Air Force, fin dal gennaio di
quel 1973 un bimestrale dell'intellighenzia americana di estrema
sinistra, «Science for the People», elegge i droni a protagonisti della
guerra a distanza prossima avvenire in un articolo intitolato Toys
against the People, or Remote Warfare. Articolo di informazione e
insieme articolo di denuncia, che la rivista presenta allora come una
variazione orwelliana («ci stiamo forse avvicinando al 1984?»), ma che
noi siamo costretti oggi a rileggere come un'anticipazione precisa del
nostro presente oltreché del nostro passato prossimo: come un quadro
fedele dell'evoluzione cui l'arte della guerra è andata incontro durante
l'ultimo quarantennio, e in particolare dopo lo spartiacque
rappresentato dall'11 settembre 2001.
La guerra del futuro –
spiegavano gli anonimi autori militanti di Giocattoli contro il popolo –
sarebbe stata una guerra aerea pilotata a distanza. Rispetto alla
guerra tradizionale avrebbe consentito notevoli risparmi economici, ma
soprattutto avrebbe garantito un decisivo vantaggio politico. Avrebbe
zittito qualunque opposizione interna, perché con le imprese dei droni,
quand'anche fallite, non ci sarebbe stato più neppure un soldato
americano ucciso in combattimento o fatto prigioniero di guerra: «I
giocattoli non hanno madri o mogli per protestare contro la loro
perdita».
Il problema della guerra aerea pilotata a distanza sarebbe
stato, piuttosto, il venir meno del concetto stesso di zona di guerra:
perché «il mondo intero costituisce un nemico potenziale delle forze
armate americane». Cioè il problema sarebbe stato, in fondo, il venir
meno della differenza tra ricognizione e combattimento. Dunque, in
ultima istanza, il venir meno della differenza tra pace e guerra. Al
limite, il venir meno della differenza tra illusione e realtà. «Ogni
mattina, dopo avere abbracciato la moglie e avere penato nel traffico
delle ore di punta, i guerrieri da telecomando si siederanno davanti ai
loro schermi al ministero della Pace», pronti a schiacciare un bottone
per colpire il nemico dovunque si trovi.
Non era fantascienza quella
immaginata dal collettivo editoriale di «Science for the People»: era
l'annuncio delle modalità secondo cui la cosiddetta guerra al terrorismo
sarebbe stata combattuta nell'età di George W. Bush e soprattutto di
Barack Obama, mediante funzionari militari o civili capaci di colpire in
Pakistan o in Somalia da un ufficio climatizzato dell'Arizona o del
Nevada. E anche per questo – per l'inquietante sua portata profetica –
quell'articolo americano del 1973 ha funzione di epilogo nell'ultimo
libro di un autore tra i più originali e controversi della scena
intellettuale francese, lo storico-filosofo Grégoire Chamayou.
Pubblicato oltralpe lo scorso mese di settembre, Teoria del drone è
stato prontamente tradotto in Italia per i tipi di DeriveApprodi.
Intellettuale
militante di sinistra, già in un suo libro del 2010 Chamayou si era
fatto studioso delle Cacce all'uomo, dalla Grecia di Aristotele alla
Francia di Sarkozy, attraverso la Spagna di Sepúlveda e l'America del Ku
Klux Klan. Ora, Chamayou si concentra sui droni come sulla forma
storica di un diritto di conquista trasformato in «diritto di
inseguimento». Dietro la riduzione del nemico a preda, individua un
«terrorismo di Stato» che trasforma la guerra tradizionale in campagna
senza confini di esecuzioni extragiudiziarie. Ragiona della nuova forma
di sovranità esercitata con i droni, una sovranità non più orizzontale
ma verticale, non più territoriale ma aerospaziale. Denuncia il rischio
che la nuova guerra combattuta a distanza, e a prescindere dalle
frontiere statuali, finisca per distruggere le basi stesse del diritto
internazionale.
Chamayou spinge la sua Teoria del drone fino a
impostare un confronto fra i droni e i kamikaze: «Armi senza corpo» gli
uni, «corpi senza armi» gli altri. E Chamayou suggerisce che i droni
rappresentino qualcosa come il capitale dei ricchi del Nord del mondo,
scatenato – una volta di più nella storia – contro il corpo dei poveri
del Sud. La guerra totalmente asimmetrica dei droni come la forma
contemporanea e suprema delle vecchie guerre coloniali, ma una forma
tanto più aberrante in quanto, avendo cancellato ogni differenza tra
ricognizione e combattimento, cancella il fondamento sul quale ha
provato a reggersi, dal Dopoguerra in qua, il diritto internazionale
umanitario: la distinzione tra civili e militari. I droni come lo
strumento maligno di una «necroetica» imperialista, quella degli
americani (e degli israeliani), che rimpiazza i più sacrosanti princìpi
del diritto internazionale con uno squallido «nazionalismo
dell'autopreservazione vitale».
Culturalmente solido e
stilisticamente brillante, Chamayou ha il difetto – se così si può dire –
di scrivere (e di ragionare) da militante. Il suo è dichiaratamente un
libro politico, redatto per offrire «strumenti discorsivi» a quanti si
oppongono all'imperialismo capitalista degli Stati Uniti d'America, di
cui i droni rappresenterebbero la più compiuta (e la più infame)
espressione militare. Su queste basi, Teoria del drone va letto nei suoi
limiti oltreché nei suoi meriti. È un libro informativo e stimolante,
ma anche capzioso e deludente.
È un libro capzioso quando riduce
l'impiego dei droni alle sole forze armate degli Stati Uniti e di
Israele, laddove sono oggi una cinquantina i Paesi del mondo, al Sud
come al Nord, che ne fanno correntemente un utilizzo militare. È
capzioso quando riduce il drone alla sua sola versione da combattimento,
laddove la grande maggioranza degli aerei senza pilota sono droni di
sorveglianza. È capzioso quando riduce la logica del drone alla sola
etica del salvare le "nostre" vite sacrificando le "loro": laddove
risulta dimostrato come in una varietà di contesti, dall'Afghanistan
all'Iraq e dalla Libia al Mali, le ricognizioni dei droni di
sorveglianza abbiano contribuito e contribuiscano a ridurre gli effetti
collaterali dell'impiego dei droni da combattimento, a ridurre cioè
(fuor d'eufemismo) i casi di morte di vittime civili per effetto di
attacchi contro bersagli militari.
Teoria del drone diventa un libro
deludente quando il suo proposito militante spinge l'autore oltre la
soglia della disinformazione. Fino a sottacere il fatto che i droni da
combattimento, se impiegati come alternative a un'invasione militare,
diminuiscono significativamente sia il tasso generale di violenza sia il
numero di civili uccisi. E fino a ignorare totalmente la natura dei
bersagli umani ai quali i droni americani danno la caccia: non
sfortunati corpi senza armi, ma terroristi talebani o qaedisti armati
fino ai denti.
Nessuno muore eccetto il nemico
La guerra sui droni: tecnica umanitaria o macchina assassina?
di Grégoire Chamayou l’Unità 25.3.14
IL DRONE CACCIATORE-ASSASSINO, SOSTENGONO I SUOI DIFENSORI,
RAPPRESENTA UN «GRANDE PROGRESSO NELLA TECNOLOGIA UMANITARIA». CON
QUESTO NON INTENDONO DIRE CHE QUESTO APPARECCHIO POSSA PER ESEMPIO
SERVIRE A PORTARE VIVERI O MEDICINE IN AREE DEVASTATE. Intendono dire
tutt’altra cosa: che il drone è umanitario in quanto arma, in quanto
mezzo per uccidere.
In questi discorsi, il senso delle parole è
talmente rovesciato che quelli che li tengono non sembrano nemmeno
accorgersi della stranezza delle loro formulazioni. Come si può
pretendere che macchine da guerra «unmanned», senza esseri umani a
bordo, siano dei mezzi «più umani» per togliere la vita? Come si può
definire «umanitarie » procedure destinate ad annientare vite umane? Se
l’azione umanitaria si caratterizza per l’imperativo di prendersi cura
delle vite umane in pericolo, abbiamo una certa difficoltà a capire come
un’arma letale possa essere reputata in qualsiasi senso conforme a
questo principio.
Ha risposto Avery Plaw, professore di scienze
politiche all’università del Massachusetts: «I droni salvano delle vite,
quelle degli Americani e di qualcun altro». Per tutti quelli che si
domandassero perplessi, come sia possibile dire che uno strumento di
morte salvi delle vite, conviene esporre la scaltra logica che rende
enunciabile simile tesi. È chiaro che, dispensando gli americani dal
mettere a rischio la propria vita in combattimento, il drone di fatto
risparmia queste vite. È molto meno chiaro, però, il nesso per cui
questo fatto permetterebbe di «salvare» contemporaneamente altre vite.
Lo si capirà presto, ma esaminiamo innanzitutto il primo punto
dell’argomento.
I droni, si dice, salvano le «nostre vite», e questo
sarebbe sufficiente per affermare che sono «morali». Un numero di
rivista della fine degli anni Novanta ha riassunto questa tesi in
maniera ancora più efficace: una didascalia semi-pubblicitaria, tra due
fotografie di droni dalle linee ingentilite su fondo azzurro, che
recitava «Nobody dies except the enemy». Secondo questa concezione della
morale militare, dare la morte esponendo la propria vita è male, mentre
togliere la vita senza rischiare mai la propria è bene: il primo
principio della necroetica del drone è paradossalmente vitalista. Ed è
questa stessa logica che porta a qualificare il drone come un’arma
«umanitaria», in un primo senso: l’imperativo umanitario è salvare delle
vite; ora, il drone salva la nostra vita, dunque è una tecnologia
umanitaria. Come volevasi dimostrare.
(…) In fondo, la morale del
drone non fa che riciclare il vecchio discorso sui «bombardamenti
chirurgici»: si illudono che questo antico sogno militare sia diventato
finalmente realtà. Si pensa di aver eliminato quella contraddizione che
faceva ritenere immorale la guerra del Kosovo agli occhi dei teorici
della guerra giusta… Poiché indubbiamente sarebbe «del tutto
giustificato», concedeva Walzer all’epoca, che un esercito adotti
«tecnologie cosiddette senza rischio per i propri soldati (…) se queste
stesse tecnologie fossero ugualmente senza rischio per i civili». Questa
era già la pretesa delle «smart bombs»; ambizione che però, aggiungeva
Walzer, «risulta, almeno al momento, alquanto esagerata». Rimaneva
comunque una questione sussidiaria: che sarebbe successo se, con il
progresso della tecnica, o in seguito all’introduzione di nuove armi che
conciliassero distanza e precisione, si fosse potuto materialmente
sciogliere tale tensione? Nell’ipotesi in cui si potessero mettere al
sicuro le vite dei soldati nazionali senza rischi addizionali per i
non-combattenti dell’altro fronte, la contraddizione sarebbe svanita.
All’immunità degli uni sarebbe armoniosamente corrisposta la
salvaguardia degli altri: il dilemma morale si sarebbe dissipato grazie a
un miracolo della tecnica. Ecco oggi cosa pretendono gli apologeti del
drone. Poiché, secondo loro, la messa a distanza dell’operatore non
implica alcuna perdita di capacità operativa, la tensione è sciolta de
facto. Per cui, non diventa nemmeno più necessario sottoscrivere la
forzatura teorica di Kasher e Yadlin, consistente nel subordinare il
principio di immunità dei non-combattenti a quello della salvaguardia
delle vite militari nazionali: se si ammette che il problema è stato
risolto nella pratica, semplicemente esso non si pone più nemmeno in
teoria.
Ecco allora un altro senso in cui si può sostenere che il
drone non salva solo le «nostre» vite, ma anche le «loro»: in
conseguenza della sua maggior precisione. Causando meno «danni
collaterali » di altre armi sarebbe perciò potenzialmente più etico. Ma
andando più a fondo, quello che emerge è un regime di violenza militare
con pretese umanitarie, che potremmo chiamare potere umilitare. Un
potere che uccide e salva contemporaneamente, che ferisce e che cura in
uno stesso gesto, in maniera integrata. Sintesi immediata della potenza
di distruzione e della potenza di cura, dell’assassinio e del care.
Si
salvano vite. Ma di chi? La propria e quella della propria potenza di
morte. La mia violenza avrebbe potuto essere peggiore e siccome ho
cercato in buona fede di limitarne gli effetti funesti, nel fare questo,
ovvero nient’altro che il mio dovere, ho agito moralmente.
Come ha
mostrato Eyal Weizman, questo tipo di giustificazione è essenzialmente
fondata sulla logica del male minore: il nostro «presente umanitario»,
scrive, è «ossessionato da calcoli e calibrature per limitare, anche
lievemente, i suoi stessi danni». Per citare Hannah Arendt:
«politicamente, la debolezza dell’argomento è sempre stata quella che
coloro che optano per il minor male tendono velocemente a dimenticare
che hanno scelto il male».
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