domenica 23 marzo 2014

L'Impero americano è l'unico Dio e ha diritto di vita e di morte su tutto ciò che esiste

Grégoire Chamayou: Teoria del drone. Princìpi filosofici del diritto di uccidere, traduzione di Marcello Tarì, DeriveApprodi, Roma, pagg. 224, € 17,00

Risvolto
Cazzo, che bel bersaglio! Provo a passare da dietro e li faccio fuori». Non è un cecchino a parlare dal tetto di un edificio, ma qualcuno di comodamente seduto alla base militare di Creech, in Nevada. Sta pilotando un drone Predator che si appresta a lanciare un missile Hellfire su un gruppo di persone sospette in Afghanistan.
Con i droni, tra il grilletto sul quale poggia il dito e la canna da cui uscirà il proiettile ci sono migliaia di chilometri. Una distanza che rimette in discussione la stessa idea di guerra: che cos’è infatti un combattente che non combatte? Dov’è finito il campo di battaglia? Si può ancora parlare di guerra, quando il rischio non è simmetrico? Quando interi gruppi umani sono ridotti allo stato di mero bersaglio?
Nella guerra a distanza, poco importa che siano macchine a uccidere esseri umani, l’importante è che lo facciano in modo umano. Eppure dietro l’apparente umanità della morte per droni non poche sono le questioni etiche, psicologiche e soprattutto giuridiche che vi si celano.
La guerra dei droni, più che un paradigma militare, sembra imporre quello di una «caccia all’uomo». Per Grégoire Chamayou, attraverso le trasformazioni delle tattiche e delle tecnologie militari, si tratta allora di portare avanti un’analisi delle odierne mutazioni della sovranità e una critica del diritto a uccidere come fondamento d
el nuovo militarismo democratico.


Guerre asimmetriche L'era delle armi senza corpiChamayou denuncia l'uso dei droni, che cancella la base del diritto internazionale: la distinzione tra militari e civilidi Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 23.3.14


I droni entrano sulla scena pubblica americana in esatta coincidenza con l'uscita degli Stati Uniti dal disastro militare del Vietnam. Il 26 febbraio 1973, quando l'amministrazione Nixon ha firmato da un mese gli accordi di pace e va completando il ritiro delle forze armate dalla penisola indocinese, in un'audizione parlamentare i vertici dell'Air Force riconoscono di avere segretamente impiegato, nel corso della guerra, i cosiddetti Uav: gli Unmanned Aerial Vehicles che finiranno per essere designati come droni. Non erano ancora mezzi da combattimento. Erano aerei senza pilota non armati, mezzi di sorveglianza. Ma proprio la lezione dolorosamente imparata attraverso la guerra del Vietnam – la crescente intolleranza dell'opinione pubblica verso l'idea che in una guerra muoiano anche i "nostri" – faceva dei droni, nei programmi statunitensi di sviluppo militare, l'arma letale del futuro.

Senza attendere le dichiarazioni ufficiali dell'Air Force, fin dal gennaio di quel 1973 un bimestrale dell'intellighenzia americana di estrema sinistra, «Science for the People», elegge i droni a protagonisti della guerra a distanza prossima avvenire in un articolo intitolato Toys against the People, or Remote Warfare. Articolo di informazione e insieme articolo di denuncia, che la rivista presenta allora come una variazione orwelliana («ci stiamo forse avvicinando al 1984?»), ma che noi siamo costretti oggi a rileggere come un'anticipazione precisa del nostro presente oltreché del nostro passato prossimo: come un quadro fedele dell'evoluzione cui l'arte della guerra è andata incontro durante l'ultimo quarantennio, e in particolare dopo lo spartiacque rappresentato dall'11 settembre 2001.
La guerra del futuro – spiegavano gli anonimi autori militanti di Giocattoli contro il popolo – sarebbe stata una guerra aerea pilotata a distanza. Rispetto alla guerra tradizionale avrebbe consentito notevoli risparmi economici, ma soprattutto avrebbe garantito un decisivo vantaggio politico. Avrebbe zittito qualunque opposizione interna, perché con le imprese dei droni, quand'anche fallite, non ci sarebbe stato più neppure un soldato americano ucciso in combattimento o fatto prigioniero di guerra: «I giocattoli non hanno madri o mogli per protestare contro la loro perdita».
Il problema della guerra aerea pilotata a distanza sarebbe stato, piuttosto, il venir meno del concetto stesso di zona di guerra: perché «il mondo intero costituisce un nemico potenziale delle forze armate americane». Cioè il problema sarebbe stato, in fondo, il venir meno della differenza tra ricognizione e combattimento. Dunque, in ultima istanza, il venir meno della differenza tra pace e guerra. Al limite, il venir meno della differenza tra illusione e realtà. «Ogni mattina, dopo avere abbracciato la moglie e avere penato nel traffico delle ore di punta, i guerrieri da telecomando si siederanno davanti ai loro schermi al ministero della Pace», pronti a schiacciare un bottone per colpire il nemico dovunque si trovi.
Non era fantascienza quella immaginata dal collettivo editoriale di «Science for the People»: era l'annuncio delle modalità secondo cui la cosiddetta guerra al terrorismo sarebbe stata combattuta nell'età di George W. Bush e soprattutto di Barack Obama, mediante funzionari militari o civili capaci di colpire in Pakistan o in Somalia da un ufficio climatizzato dell'Arizona o del Nevada. E anche per questo – per l'inquietante sua portata profetica – quell'articolo americano del 1973 ha funzione di epilogo nell'ultimo libro di un autore tra i più originali e controversi della scena intellettuale francese, lo storico-filosofo Grégoire Chamayou. Pubblicato oltralpe lo scorso mese di settembre, Teoria del drone è stato prontamente tradotto in Italia per i tipi di DeriveApprodi.
Intellettuale militante di sinistra, già in un suo libro del 2010 Chamayou si era fatto studioso delle Cacce all'uomo, dalla Grecia di Aristotele alla Francia di Sarkozy, attraverso la Spagna di Sepúlveda e l'America del Ku Klux Klan. Ora, Chamayou si concentra sui droni come sulla forma storica di un diritto di conquista trasformato in «diritto di inseguimento». Dietro la riduzione del nemico a preda, individua un «terrorismo di Stato» che trasforma la guerra tradizionale in campagna senza confini di esecuzioni extragiudiziarie. Ragiona della nuova forma di sovranità esercitata con i droni, una sovranità non più orizzontale ma verticale, non più territoriale ma aerospaziale. Denuncia il rischio che la nuova guerra combattuta a distanza, e a prescindere dalle frontiere statuali, finisca per distruggere le basi stesse del diritto internazionale.
Chamayou spinge la sua Teoria del drone fino a impostare un confronto fra i droni e i kamikaze: «Armi senza corpo» gli uni, «corpi senza armi» gli altri. E Chamayou suggerisce che i droni rappresentino qualcosa come il capitale dei ricchi del Nord del mondo, scatenato – una volta di più nella storia – contro il corpo dei poveri del Sud. La guerra totalmente asimmetrica dei droni come la forma contemporanea e suprema delle vecchie guerre coloniali, ma una forma tanto più aberrante in quanto, avendo cancellato ogni differenza tra ricognizione e combattimento, cancella il fondamento sul quale ha provato a reggersi, dal Dopoguerra in qua, il diritto internazionale umanitario: la distinzione tra civili e militari. I droni come lo strumento maligno di una «necroetica» imperialista, quella degli americani (e degli israeliani), che rimpiazza i più sacrosanti princìpi del diritto internazionale con uno squallido «nazionalismo dell'autopreservazione vitale».
Culturalmente solido e stilisticamente brillante, Chamayou ha il difetto – se così si può dire – di scrivere (e di ragionare) da militante. Il suo è dichiaratamente un libro politico, redatto per offrire «strumenti discorsivi» a quanti si oppongono all'imperialismo capitalista degli Stati Uniti d'America, di cui i droni rappresenterebbero la più compiuta (e la più infame) espressione militare. Su queste basi, Teoria del drone va letto nei suoi limiti oltreché nei suoi meriti. È un libro informativo e stimolante, ma anche capzioso e deludente.
È un libro capzioso quando riduce l'impiego dei droni alle sole forze armate degli Stati Uniti e di Israele, laddove sono oggi una cinquantina i Paesi del mondo, al Sud come al Nord, che ne fanno correntemente un utilizzo militare. È capzioso quando riduce il drone alla sua sola versione da combattimento, laddove la grande maggioranza degli aerei senza pilota sono droni di sorveglianza. È capzioso quando riduce la logica del drone alla sola etica del salvare le "nostre" vite sacrificando le "loro": laddove risulta dimostrato come in una varietà di contesti, dall'Afghanistan all'Iraq e dalla Libia al Mali, le ricognizioni dei droni di sorveglianza abbiano contribuito e contribuiscano a ridurre gli effetti collaterali dell'impiego dei droni da combattimento, a ridurre cioè (fuor d'eufemismo) i casi di morte di vittime civili per effetto di attacchi contro bersagli militari.
Teoria del drone diventa un libro deludente quando il suo proposito militante spinge l'autore oltre la soglia della disinformazione. Fino a sottacere il fatto che i droni da combattimento, se impiegati come alternative a un'invasione militare, diminuiscono significativamente sia il tasso generale di violenza sia il numero di civili uccisi. E fino a ignorare totalmente la natura dei bersagli umani ai quali i droni americani danno la caccia: non sfortunati corpi senza armi, ma terroristi talebani o qaedisti armati fino ai denti.


Nessuno muore eccetto il nemico
La guerra sui droni: tecnica umanitaria o macchina assassina?
di Grégoire Chamayou l’Unità 25.3.14

IL DRONE CACCIATORE-ASSASSINO, SOSTENGONO I SUOI DIFENSORI, RAPPRESENTA UN «GRANDE PROGRESSO NELLA TECNOLOGIA UMANITARIA». CON QUESTO NON INTENDONO DIRE CHE QUESTO APPARECCHIO POSSA PER ESEMPIO SERVIRE A PORTARE VIVERI O MEDICINE IN AREE DEVASTATE. Intendono dire tutt’altra cosa: che il drone è umanitario in quanto arma, in quanto mezzo per uccidere.
In questi discorsi, il senso delle parole è talmente rovesciato che quelli che li tengono non sembrano nemmeno accorgersi della stranezza delle loro formulazioni. Come si può pretendere che macchine da guerra «unmanned», senza esseri umani a bordo, siano dei mezzi «più umani» per togliere la vita? Come si può definire «umanitarie » procedure destinate ad annientare vite umane? Se l’azione umanitaria si caratterizza per l’imperativo di prendersi cura delle vite umane in pericolo, abbiamo una certa difficoltà a capire come un’arma letale possa essere reputata in qualsiasi senso conforme a questo principio.
Ha risposto Avery Plaw, professore di scienze politiche all’università del Massachusetts: «I droni salvano delle vite, quelle degli Americani e di qualcun altro». Per tutti quelli che si domandassero perplessi, come sia possibile dire che uno strumento di morte salvi delle vite, conviene esporre la scaltra logica che rende enunciabile simile tesi. È chiaro che, dispensando gli americani dal mettere a rischio la propria vita in combattimento, il drone di fatto risparmia queste vite. È molto meno chiaro, però, il nesso per cui questo fatto permetterebbe di «salvare» contemporaneamente altre vite. Lo si capirà presto, ma esaminiamo innanzitutto il primo punto dell’argomento.
I droni, si dice, salvano le «nostre vite», e questo sarebbe sufficiente per affermare che sono «morali». Un numero di rivista della fine degli anni Novanta ha riassunto questa tesi in maniera ancora più efficace: una didascalia semi-pubblicitaria, tra due fotografie di droni dalle linee ingentilite su fondo azzurro, che recitava «Nobody dies except the enemy». Secondo questa concezione della morale militare, dare la morte esponendo la propria vita è male, mentre togliere la vita senza rischiare mai la propria è bene: il primo principio della necroetica del drone è paradossalmente vitalista. Ed è questa stessa logica che porta a qualificare il drone come un’arma «umanitaria», in un primo senso: l’imperativo umanitario è salvare delle vite; ora, il drone salva la nostra vita, dunque è una tecnologia umanitaria. Come volevasi dimostrare.
(…) In fondo, la morale del drone non fa che riciclare il vecchio discorso sui «bombardamenti chirurgici»: si illudono che questo antico sogno militare sia diventato finalmente realtà. Si pensa di aver eliminato quella contraddizione che faceva ritenere immorale la guerra del Kosovo agli occhi dei teorici della guerra giusta… Poiché indubbiamente sarebbe «del tutto giustificato», concedeva Walzer all’epoca, che un esercito adotti «tecnologie cosiddette senza rischio per i propri soldati (…) se queste stesse tecnologie fossero ugualmente senza rischio per i civili». Questa era già la pretesa delle «smart bombs»; ambizione che però, aggiungeva Walzer, «risulta, almeno al momento, alquanto esagerata». Rimaneva comunque una questione sussidiaria: che sarebbe successo se, con il progresso della tecnica, o in seguito all’introduzione di nuove armi che conciliassero distanza e precisione, si fosse potuto materialmente sciogliere tale tensione? Nell’ipotesi in cui si potessero mettere al sicuro le vite dei soldati nazionali senza rischi addizionali per i non-combattenti dell’altro fronte, la contraddizione sarebbe svanita. All’immunità degli uni sarebbe armoniosamente corrisposta la salvaguardia degli altri: il dilemma morale si sarebbe dissipato grazie a un miracolo della tecnica. Ecco oggi cosa pretendono gli apologeti del drone. Poiché, secondo loro, la messa a distanza dell’operatore non implica alcuna perdita di capacità operativa, la tensione è sciolta de facto. Per cui, non diventa nemmeno più necessario sottoscrivere la forzatura teorica di Kasher e Yadlin, consistente nel subordinare il principio di immunità dei non-combattenti a quello della salvaguardia delle vite militari nazionali: se si ammette che il problema è stato risolto nella pratica, semplicemente esso non si pone più nemmeno in teoria.
Ecco allora un altro senso in cui si può sostenere che il drone non salva solo le «nostre» vite, ma anche le «loro»: in conseguenza della sua maggior precisione. Causando meno «danni collaterali » di altre armi sarebbe perciò potenzialmente più etico. Ma andando più a fondo, quello che emerge è un regime di violenza militare con pretese umanitarie, che potremmo chiamare potere umilitare. Un potere che uccide e salva contemporaneamente, che ferisce e che cura in uno stesso gesto, in maniera integrata. Sintesi immediata della potenza di distruzione e della potenza di cura, dell’assassinio e del care.
Si salvano vite. Ma di chi? La propria e quella della propria potenza di morte. La mia violenza avrebbe potuto essere peggiore e siccome ho cercato in buona fede di limitarne gli effetti funesti, nel fare questo, ovvero nient’altro che il mio dovere, ho agito moralmente.
Come ha mostrato Eyal Weizman, questo tipo di giustificazione è essenzialmente fondata sulla logica del male minore: il nostro «presente umanitario», scrive, è «ossessionato da calcoli e calibrature per limitare, anche lievemente, i suoi stessi danni». Per citare Hannah Arendt: «politicamente, la debolezza dell’argomento è sempre stata quella che coloro che optano per il minor male tendono velocemente a dimenticare che hanno scelto il male».

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