lunedì 17 marzo 2014
L'Impero decide chi è buono e chi è cattivo: una variante della teoria del totalitarismo
Non fate qualcosa, state fermi
di Thomas L. Friedman Repubblica 16.3.14
La Guerra Fredda fu un evento unico, in cui si fronteggiavano
due ideologie globali, due superpotenze globali, e ognuna delle due
aveva dietro armi nucleari che potevano colpire in tutto il mondo e
un’ampia rete di alleati. Il mondo era diviso in una scacchiera rossa e
nera e l’identità di chi governava le singole caselle poteva avere
ripercussioni sulla sicurezza, il benessere e il potere di ognuno dei
due schieramenti. Era anche un gioco a somma zero, in cui ogni guadagno
per l’Unione Sovietica e i suoi alleati era una perdita per l’Occidente e
la Nato, e viceversa.
Quel gioco è finito. Abbiamo vinto noi. Quello
che abbiamo oggi è al tempo stesso un gioco più vecchio e un gioco più
nuovo. La più importante linea divisoria nella geopolitica del mondo
odierno è «fra quei Paesi che vogliono che il loro Stato potente e quei
Paesi che vogliono che il loro Stato sia prospero», sostiene Michael
Mandelbaum, professore di politica estera all’università Johns Hopkins.
Nella
prima categoria rientrano Paesi come la Russia, l’Iran e la Corea del
Nord, guidati da leader che puntano innanzitutto a costruire autorità,
rispetto e influenza attraverso uno Stato potente. E avendo i primi due
il petrolio e il terzo armi atomiche da barattare con rifornimenti
alimentari, i loro leader possono sfidare il sistema globale e
sopravvivere, se non addirittura prosperare, giocando al vecchio e
tradizionale gioco della politica della forza per controllare la loro
regione.
La seconda categoria, quella dei Paesi che puntano a
costruire rispetto e influenza attraverso la prosperità della loro
popolazione, include tutti i Paesi del Nafta in Nordamerica, dell’Unione
Europea, del Mercosur in Sudamerica e dell’Asean in Asia. Queste
nazioni sono consapevoli che la tendenza più importante del mondo
odierno non è quella che porta verso una nuova Guerra Fredda, ma quella
che porta verso una fusione tra globalizzazione e rivoluzione
informatica. Questi Paesi puntano a realizzare scuole di qualità,
infrastrutture, banda larga, sistemi di scambi commerciali, aperture per
gli investimenti e gestione economica, per fare in modo che una
percentuale maggiore dei loro cittadini possa godere di benessere in un
mondo in cui ogni lavoro di classe media necessita di maggiori
competenze e dove la capacità di innovare costantemente determina il
tenore di vita. (La vera fonte di potere sostenibile).
Ora però c’è
una terza categoria, sempre più nutrita, e sono quei Paesi che non sono
in grado né di esercitare la forza né di costruire prosperità. Sono il
mondo del «disordine», nazioni consumate da lotte interne su questioni
fondamentali come: Chi siamo? Quali sono i nostri confini? Di chi sono
questi ulivi? A questa terza categoria appartengono Siria, Libia, Iraq,
Sudan, Somalia, Congo e altri punti caldi del pianeta. Mentre le nazioni
che puntano sulla potenza dello Stato giocano un ruolo in alcuni di
questi Paesi - per esempio la Russia e l’Iran in Siria - quelle che si
preoccupano innanzitutto di costruire la prosperità cercano di non farsi
coinvolgere troppo. Sono pronte a dare una mano per mitigare le
tragedie umanitarie, ma sanno che «conquistare» uno di questi Paesi nel
gioco geopolitico odierno significa accollarsi un onere.
In Ucraina
tutte e tre queste tendenze si accavallano. La rivoluzione di piazza
Maidan è avvenuta perché il Governo è stato indotto dalla Russia, che
vuole mantenere l’Ucraina nella sua sfera di influenza, a non
sottoscrivere un accordo commerciale con l’Unione Europea, un accordo a
cui tanti ucraini interessati soprattutto ad accrescere la prosperità
della popolazione guardavano con favore. Questa spaccatura ha innescato
anche le spinte di secessione da parte delle regioni orientali del
Paese, dove la maggioranza della gente parla russo e guarda alla Russia.
Che
fare, quindi? Il mondo sta scoprendo che gli Stati Uniti ormai ci
pensano dieci volte prima di intervenire all’estero. Per una serie di
ragioni concomitanti: la fine della minaccia alla propria stessa
esistenza rappresentata dall’Unione Sovietica, il fatto di aver
investito troppe vite umane e 2.000 miliardi di dollari in Iraq e in
Afghanistan ricavandone molto poco in termini di impatto duraturo, la
crescente indipendenza energetica dell’America, la capacità dei nostri
servizi segreti di impedire un altro 11 settembre e la presa di
coscienza che risolvere i problemi dei Paesi più tormentati del mondo
del disordine spesso è un’impresa che va al di là delle capacità, delle
risorse e della pazienza di cui disponiamo.
Nel mondo della Guerra
Fredda era semplice decidere le politiche da adottare. C’era la politica
del «contenimento», che ci diceva cosa dovevamo fare e che dovevamo
farlo quasi a qualsiasi prezzo. Oggi chi contesta Obama dice che
dovrebbe fare «qualcosa» sulla Siria. Lo capisco. Il caos che regna
laggiù potrebbe finire per far sentire i suoi effetti nefasti anche da
noi. Se esiste una politica in grado di risolvere la situazione siriana,
o anche semplicemente di fermare le uccisioni in modo stabile e
duraturo, a un costo sopportabile e che non vada a discapito di tutte le
cose che dobbiamo fare qui in patria per garantire il nostro futuro,
contate pure sul mio sostegno.
Ma dovremmo aver imparato qualche
lezione dalle nostre ultime esperienze in Medio Oriente. Innanzitutto
che ne sappiamo molto poco delle complessità sociali e politiche dei
Paesi di quell’area. In secondo luogo che siamo in grado - sostenendo
costi considerevoli - di impedire che in quei Paesi succedano cose
brutte, ma non siamo in grado, solo con le nostre forze, di fare in modo
che succedano cose belle. E in terzo luogo che quando cerchiamo di fare
in modo che succedano cose belle corriamo il rischio di assumerci noi
la responsabilità di risolvere i loro problemi: una responsabilità che
in realtà spetta a loro.
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