giovedì 27 marzo 2014

Parlare di credito, debito e finanza per non parlare del modo di produzione


Andrew Ross: Creditocracy, OR Books

Risvolto
It seems like pretty much everybody – homeowners, students, those who are ill and without health insurance, and, of course, credit card holders – is up to their neck in debt that can never be repaid. 77% of US households are seriously indebted and one in seven Americans has been pursued by debt collectors. The major banks are bigger and more profitable than before the 2008 crash, and legislators are all but powerless to bring them to heel.
In this forceful, eye-opening survey, Andrew Ross contends that we are in the cruel grip of a creditocracy – where the finance industry commandeers our elected governments and where the citizenry have to take out loans to meet their basic needs. The implications of mass indebtedness for any democracy are profound, and history shows that whenever a creditor class becomes as powerful as Wall Street, the result has been debt bondage for the bulk of the population.
Following in the ancient tradition of the jubilee, activists have had some success in repudiating the debts of developing countries. The time is ripe, Ross argues, for a debtors’ movement to use the same kinds of moral and legal arguments to bring relief to household debtors in the North. After examining the varieties of lending that have contributed to the crisis, Ross suggests ways of lifting the burden of illegitimate debts from our backs. Just as important, Creditocracy outlines the kind of alternative economy we need to replace a predatory debt-money system that only benefits the 1%.



Il debito è una questione di classe
Intervista. Il credito e la finanza come forma di controllo sociale. Parla lo storico delle idee Andrew Ross, autore di «Creditocracy», volume pubblicato negli Stati Uniti dedicato alle funzioni regolative del ciclo economico 

 Niccolò Cuppini, il Manifesto 27.3.2014 

Il tema del debito è entrato a far parte delle ana­lisi dei movi­menti per due prin­ci­pali motivi: il mani­fe­starsi della crisi come effetto di un’insolvenza nel ripia­nare il debito legato ai cosid­detti mutui sub­prime; per­ché in ampie parti del mondo la con­di­zione di inde­bi­ta­mento è sem­pre più para­digma comune, dagli USA sino ad arri­vare ai cosid­detti ex Paesi del Terzo Mondo, dove i mec­ca­ni­smi di finan­zia­riz­za­zione ed inde­bi­ta­mento agi­scono attra­verso le pra­ti­che del micro­cre­dito. Tra i testi signi­fi­ca­tivi usciti sull’argomento si pos­sono men­zio­nare Debi­to­cra­zia (di Mil­let e Tous­saint), Debito: i primi 5000 anni (Grae­ber) e La fab­brica dell’Uomo inde­bi­tato (Laz­za­rato). Si può col­lo­care in que­sto filone di dibat­tito un libro appena uscito negli Usa: Cre­di­to­cracy – And the Case for Debt Refu­sal. L’autore è Andrew Ross, pro­fes­sore alla New York Uni­ver­sity e atti­vi­sta impe­gnato in uno dei gruppi di lavoro for­ma­tisi durante Occupy Wall Street e tutt’ora attivo: Strike Debt. Cnsi­de­rato dalla stampa e da stu­diosi con­ser­va­tori come un «intel­let­tuale pub­blico» (l’equivalente sta­tu­ni­tense di intel­let­tuale mili­tante), Ross ha scritto molti saggi, che spa­zione dalla cul­tura popo­lare alla «pre­ca­raiz­za­zione» del lavoro intel­let­tuale al ruolo della Cina dell’economia glo­bale. Rispetto ai pre­ce­denti testi sul tema del debito, Ross foca­lizza l’analisi prin­ci­pal­mente su quella che defi­ni­sce come cre­di­tor class e su come essa, attra­verso le isti­tu­zioni finan­zia­rie, crea e man­tiene le forme di inde­bi­ta­mento. Ven­gono pro­po­ste alcune figure, defi­nite del «debito ille­git­timo»: il debito sovrano; il debito fami­gliare; quello stu­den­te­sco; il «furto» del lavoro e del red­dito; il debito cli­ma­tico. L’ultimo capi­tolo del testo è invece dedi­cato alle forme di resi­stenza al debito. Abbiamo fatto alcune domande all’autore. 


Alcuni anni fa due regi­sti greci hanno pro­mosso un docu­men­ta­rio chia­mato «Deb­to­cracy», men­tre il tuo libro si chiama «Cre­di­to­cracy». La prima cosa che ho pen­sato è: sarà che uno pro­viene dall’Europa e l’altro dagli Usa? 

Pro­ba­bil­mente non c’è una grossa dif­fe­renza tra que­sti due con­cetti. È stato Mario Monti a par­lare di cre­di­to­cra­zia (una cosa che non ci si aspet­te­rebbe da un eco­no­mi­sta e lea­der poli­tico che non ha mai nasco­sto la sua sua edi­sione all’ideologia del libero mer­cato), quando fu chia­mato a pro­te­stare con­tro il potere delle ban­che tede­sche, fran­cesi e sviz­zere. Di solito quando c’è un «cra­zia» in un titolo ci si rife­ri­sce ad una élite domi­nante, da qui il rife­ri­mento alla classe dei cre­di­tori come ter­mine che ho usato nel mio libro. La cre­di­to­cra­zia è quel tipo di società dove la classe dei cre­di­tori gode di un potere incon­trol­lato, e dove le risorse pri­ma­rie del loro red­dito ed influenza sono l’accumulazione di ric­chezze tra­mite ren­dite eco­no­mi­che e inge­gne­rie finan­zia­rie. Sostan­zial­mente con stru­menti di debito. 

La cre­di­to­cra­zia emerge quando il costo del social good deve essere per­so­nal­mente e indi­vi­dual­mente indebitato/finanziarizzato, e l’obiettivo della classe cre­di­trice è crearli/strapparli su ogni pos­si­bile asset. Ogni flusso di red­dito nella società deve garan­tire un flusso sta­bile di debt ser­vice per la classe creditrice. 

La nostra rea­zione istin­tiva al far­dello dell’essere inde­bi­tati è il pro­te­stare affin­ché il nostro debito venga estinto. Ma così si manca il punto: vivere in una cre­di­to­cra­zia implica come pre­sup­po­sto che i nostri debiti non devono e non ver­ranno sal­dati. I cre­di­tori dipen­dono dal tenerci inde­bi­tati per tutta la vita. Non vogliono che i debiti gli ven­gano inte­ra­mente resti­tuiti, per­ché se ciò avve­nisse non ci sarebbe pro­fitto per loro. Loro dipen­dono dal nostro fare ricorso a ser­vizi di indebitamento. 

Nel libro pare echeg­giare un para­gone fra l’indebitamento e la schia­vitù. Se da un punto di vista poli­tico la cosa fun­ziona come appello, è però dif­fi­cile imma­gi­nare con­crete forme orga­niz­za­tive basate sull’indebitamento. Que­sta è indub­bia­mente una con­di­zione comune, che tut­ta­via dif­fi­cil­mente for­ni­sce forme di rico­no­sci­mento col­let­tivo in grado di pro­durre mobi­li­ta­zione. La domanda d’obbligo è: come ti imma­gini le pos­si­bili forme di orga­niz­za­zione con­tro la «cre­dit class». 

Di mio non uso il ter­mine schia­vitù, anche per­ché in que­sto paese (gli Stati Uniti, n.d.r.) è un ter­mine molto sen­si­bile. Ma penso che l’enorme inde­bi­ta­mento si ponga in totale con­ti­nuità con una sto­ria che ha con­te­nuto la schia­vitù nel pas­sato. E que­sto è il motivo per cui molte per­sone uti­liz­zano parole come inden­ture, ser­vi­tude e debt bon­dage. La grossa que­stione è se que­sta sia reto­rica o se invece siamo real­mente ad un cro­ce­via per le demo­cra­zie costi­tu­zio­nali, dove le catene del debito sono all’orizzonte. Sulle forme di lotta, quello che abbiamo sco­perto negli ultimi anni, lavo­rando nel deb­tors move­ment, è che è una sfida molto dif­fe­rente rispetto all’organizzarsi sul sala­rio. Anche qui non è certo facile a causa della pre­ca­rietà delle con­di­zioni di lavoro, dove le per­sone non hanno un sin­golo datore di lavoro. Allo stesso modo con il debito, non c’è un sin­golo cre­di­tore. Anche le per­sone che hanno lo stesso tipo di debito, pos­sono non sapere chi sia il loro cre­di­tore. Non c’è un obiet­tivo visi­bile, una con­tro­parte. Quindi è molto dif­fi­cile far com­pren­dere alle per­sone il loro inte­resse comune. Ciò detto, que­sta è una sfida vera­mente neces­sa­ria. In Strike Debt abbiamo molto riflet­tuto su come pro­muo­vere alcuni cir­co­scritti scio­peri del debito che coin­vol­gano pic­coli gruppi di per­sone più che uno scio­pero di massa del debito. Par­tendo cioè da pic­coli gruppi di per­sone con lo stesso tipo di debito e lo stesso cre­di­tore affin­ché abbia per loro senso orga­niz­zarsi per arri­vare ad un default. Ci stiamo lavo­rando sopra, non è sem­plice. Da que­sto punto di vista, rin­vio alle ini­zia­tive docu­men­tate nel sito inter­net: http://​rol​lin​g​ju​bi​lee​.org/. 

Il debito stu­den­te­sco, con­trat­tosi a causa delle tasse sala­tis­sime per acce­dere all’università negli Usa, è un tema che tu hai trat­tato sia come pos­si­bile forma di orga­niz­za­zione, sia per il fatto che potrebbe essere una delle pros­sime bolle finan­zia­rie ad esplo­dere negli Usa… 

È un grosso pro­blema per gli eco­no­mic mana­gers. Il loro lavoro è assi­cu­rare che la middle class abbia a dispo­si­zione un red­dito per poter com­prare case, alle­vare bam­bini, etc.. Que­sto è il loro lavoro: far andare avanti un’economia del con­sumo. A loro non inte­ressa avere una cit­ta­di­nanza edu­cata e cri­tica, cosa che infatti non c’è. Avere que­sto enorme debito anzi li avvan­tag­gia, per­ché que­sto con­di­ziona l’immaginazione poli­tica degli stu­denti. Tut­ta­via devono tro­vare il modo di bilan­ciare l’annichilimento dell’immaginazione poli­tica con un non ecces­sivo inde­bi­ta­mento come con­su­ma­tori. Ma è un pro­blema irri­sol­vi­bile. Biso­gna inol­tre con­si­de­rare che, a dif­fe­renza di altri paesi, oltre al debito stu­den­te­sco qui è anche estre­ma­mente signi­fi­ca­tivo il debito accu­mu­lato rispetto alla salute. Il Medi­cal debt è la mag­gior fonte di ban­ca­rotta di uomini, donne e fami­glie sta­tu­ni­tensi, e non è una dina­mica in via di muta­zione nem­meno in seguito alla Health Care reform del pre­si­dente Barack Obama. Comun­que nes­suno sta pro­po­nendo solu­zioni alla situa­zione del debito stu­den­te­sco. Noi sap­piamo quanto sarebbe dav­vero più eco­no­mico ren­dere free l’high edu­ca­tion in que­sto paese: secondo le mie stime coste­rebbe due miliardi di dol­lari l’anno, dav­vero pochi soldi. Ma l’ostacolo non è di natura eco­no­mica, bensì politica. 

Nel libro, illu­stri il fatto che più di un secolo fa «JP Mor­gan» andò in soc­corso del bilan­cio degli Stati Uniti sal­van­doli dalla banca rotta. Negli ultimi anni è avve­nuto esat­ta­mente il con­tra­rio. Que­sto mostra come il potere finan­zia­rio si sia appro­priato della leva del potere poli­tico. Tu ritieni che que­sto assetto, venuto mani­fe­stan­dosi con la crisi, si sia con­so­li­dato, che in qual­che modo la crisi si sia con­clusa, o invece ci tro­viamo entro uno sce­na­rio ancora tutto in movi­mento antiausterità? 

A mio avviso c’è un’apparenza di sta­bi­lità del sistema sociale e eco­no­mico, ma è una sta­bi­lità tea­trale, creata dallo Stato. Le ban­che sono indub­bia­mente più grandi, più forti, più red­di­ti­zie rispetto a prima. Quello che non ti uccide ti rende più forte, lo diceva Nie­tzsche no? E que­sto è cer­ta­mente il caso. Non c’è stata da parte dei «fun­zio­nari eletti» nes­suna capa­cità di opporsi a ciò, è uni­ver­sal­mente rico­no­sciuto che essi sono inca­paci di farlo. C’è un grosso poten­ziale che si veri­fi­chi una nuova fusione siste­mica, una grossa pos­si­bi­lità. E pro­ba­bil­mente le ban­che ver­ranno trat­tate nello stesso modo. Non è che siamo esat­ta­mente nella stessa situa­zione rispetto al 2008, però penso che i mobili siano stati ridi­spo­sti nella stanza, ma non in maniera sostan­ziale. E alla fine si è con­so­li­data e raf­for­zata la con­vin­zione nella comu­nità finan­zia­ria che loro ver­ranno trat­tati bene, suc­ceda quel che suc­ceda. Un’aspettativa che adesso è frutto di espe­rienza. Non è pos­si­bile para­go­nare ciò che suc­cede negli Stati Uniti con la zona Euro, per­ché gli Stati Uniti hanno una moneta a corso legale, una Banca Cen­trale che può bat­tere moneta. E in più c’è il potere del dol­laro a livello glo­bale. Quindi non c’è una vera pos­si­bi­lità di fare para­goni, ma il prin­ci­pio del fare dei ban­chieri la guida. È il mede­simo. Come la demo­cra­zia, o la fai­lure demo­cracy sia per­ce­pita, è un’altra sto­ria. Noi abbiamo anche il pro­blema di come è cali­brata la demo­cra­zia in que­sto paese, che è piut­to­sto diverso rispetto all’Europa, ad esem­pio rispetto a come fun­zio­nano i poteri fede­rali. Inol­tre, negli Stati Uniti non abbiamo una sini­stra nella demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva. Ma anche per que­sto l’attivismo nella società civile è più forte. Le per­sone si orga­niz­zano di conseguenza. 

Rispetto a ciò, una cosa che sto notando è che le forme di autor­ga­niz­za­zione, negli Stati Uniti, ruo­tano attorno all’idea di «com­mu­nity». Discu­tendo con alcuni atti­vi­sti emerge la cen­tra­lità di alcune frasi e atti­tu­dini poli­ti­che: «fac­cio parte di una comu­nità», «fac­cio ciò che fac­cio per la mia comu­nità, per il mio quar­tiere». In Ita­lia, o forse in Europa, è un’idea di comu­nità meno pre­sente di quanto accade nellla realtà sta­tu­ni­tense. È una dif­fe­renza di les­sico politico? 

Voi euro­pei siete più filo­so­fici. Rispetto a que­sto, c’è pro­ba­bil­mente anche una que­stione di «sotto-scale» geo­gra­fi­che che si river­be­rano sulle forme demo­gra­fi­che, che pro­ba­bil­mente incide rispetto a que­sta que­stione in un paese come gli Usa. Così grande che c’è vera­mente poco in comune tra ciò che accade qui, a Mid­town Man­hat­tan per esem­pio, e ciò che accade in Ala­bama, in Mis­si­sipi, in Ari­zona… Siamo parte della stessa nazione, ma c’è dav­vero così poco in comune sotto la super­fi­cie. Con­se­guen­te­mente le per­sone costrui­scono un senso del loro far poli­tica mag­gior­mente legato al livello locale, e sen­tono che otte­nere qual­cosa per la loro comu­nità, soste­nere la comunità,è ciò che vera­mente incide. Par­lare di una poli­tica nazio­nale è privo di senso pra­tico, anche visto che la sini­stra soli­ta­mente ha così poche risorse. Infine noi non abbiamo la tra­di­zione di un movi­mento nazionale. 

* La ver­sione inte­grale dell’intervista è pub­bli­cata su www​.com​mo​n​ware​.org

5 commenti:

massimo zanaria ha detto...

Per parlare di modi di produzione,non mi pare esistano alternative realistiche al capitalismo,neppure in termini di elaborazione teorica.Semmai esistono tipologie di capitalismi.Non le pare? mz

materialismostorico ha detto...

Se non potessimo nemmeno affrontare la questione sul piano teorico saremmo messi male. Tuttavia, secondo me la questione si può affrontare anche sul piano pratico. A partire dalla consapevolezza - merce rara - che non esistono e non sono mai esistiti e mai esisteranno modi di produzione puri. Esistono e sono sempre esistite ed esisteranno in futuro forme miste. Per come la penso io, il sistema cinese non è in questo momento ascrivibile al capitalismo ma vede coesistere almeno 3 o 4 modi di produzione diversi. Quello capitalistico non è affatto prevalente.

massimo z ha detto...

Quali sarebbero questi 3 o 4 modi di produzione? Anche il capitalismo ha conosciuto tipologie differenti (anglosassone, renano, scandinavo e mediterraneo) e forme di produzione miste come ad esempio quelle cooperative, ma non mi pare che quest'ultime possano rappresentare una seria alternativa al modo di produzione dominante.

materialismostorico ha detto...

In Cina, su un territorio piuttosto vasto e sinora difficilmente tenuto sotto controllo da parte di Pechino, sono presenti in questo momento forme di capitalismo di Stato, di capitalismo liberista, di socialismo, di feudalesimo, di latifondo, di economia di sussistenza, il baratto, le figurine, persino forme di servitù...

mz ha detto...

Le figurine diventeranno di sicuro il modo di produzione dominante.