sabato 22 marzo 2014
Vannini e Zellini su "La rivelazione greca" di Simone Weil
intervista di Antonio Gnoli Repubblica 22.3.14
Morì a 34 anni nel letto di un ospedale di Londra. Era il 1943. Simone
Weil concluse il breve tragitto terreno non immaginando che il suo
pensiero sarebbe diventato straordinariamente fecondo tra coloro che
ebbero in odio dottrine sicure e ideologie trionfanti. Abbracciò con
pari entusiasmo il pensiero religioso e quello scientifico. Ma di
entrambi privilegiò l’aspetto meno ortodosso. Oggi ci si interroga se fu
una mistica. Non c’è dubbio che su quella strada trovò spesso le
ragioni del suo pensare e agire. Nel nome di una purezza assoluta
scandagliò le passioni umane e le grandi storie. L’antica Grecia e i
suoi protagonisti e l’altra, riferita al Cristianesimo. Ci fu davvero
continuità tra i due eventi, come la Weil provò a raccontarci nei saggi
raccolti nel libro La rivelazione greca (Adelphi)? Per discuterne
abbiamo invitato il matematico Paolo Zellini e lo storico delle
religioni e, in particolare, del pensiero mistico Marco Vannini.
In che senso si può parlare di un pensiero mistico della Weil?
Marco
Vannini: Farei una premessa. L’attenzione della Weil per il mondo greco
nasce dalla lettura dei poemi, delle tragedie e da alcune opere
filosofiche. Con questa idea di fondo: qualunque cosa l’uomo faccia nel
nome della verità rivela la potenza divina. È un segno di Dio.
Anche se il mondo greco è pagano?
Vannini:
Certamente. Del resto, un grande mistico contemporaneo di Dante,
Meister Eckhart, disse che i maestri pagani conobbero la verità prima
della rivelazione cristiana. Non c’era ai suoi occhi una rottura sul
senso della verità. I due mondi si parlavano. La Weil non farà altro che
riprendere quella straordinaria intuizione fino ad estenderla alla
scienza greca.
Quando si dice “scienza greca” cosa dobbiamo intendere?
Paolo
Zellini: Per la Weil è la scienza vera e propria. Tutto quello che
successivamente accadrà nel pensiero scientifico fu una continuità o un
tradimento di quel nucleo originario.
In cosa consiste questo nucleo?
Zellini:
I greci stabilirono dei criteri e crearono delle teorie che permisero
la nascita di una episteme, cioè di un modo peculiare di pensare che non
aveva precedenti. La grande innovazione greca fu di cogliere nella
varietà dei fenomeni - nel mutamento delle cose ma altresì nel mutamento
dell’anima - delle invarianti. Scoprire, ad esempio, che la stella del
mattino è uguale a quella della sera, perché è sempre Venere, consentì
ai greci di darsi, pur nel mutamento, dei punti fermi.
Vannini: La scienza greca in un certo senso stabilizzò il mondo dei fenomeni.
Zellini:
Permise che quel mondo potesse essere conosciuto. Non a caso furono i
greci a mettere a punto il concetto di dimostrazione, di cui la
geometria di Euclide fu la più classica delle realizzazioni. D’altronde,
sono stati sempre i greci, attraverso l’analisi e la sintesi, a
inventare un nuovo modo di ragionare. E quel ragionamento per analisi e
sintesi, via via che si procedeva, si estese ad altri ambiti che non
erano solo quelli della scienza o, più in particolare, della matematica.
Fu a questa estensione che la Weil guardò con interesse. Quando prese
concetti come forza, equilibrio, misura, numero, rapporto e
simmetria, lo fece consapevole di trasferirli nell’ambito ristretto
della matematica a quello più generale del mondo dello spirito.
La scienza greca, diversamente dalla scienza moderna, era per la Weil un modo originale per accostarsi alla religione?
Vannini:
Più che un modo di accostarsi, un modo di essere religione. Fu la sua
grande intuizione, discutibile quanto si vuole, ma certamente in grado
di aprire a una lettura originalissima del mondo greco. Da questo punto
di vista, è chiara la lontananza della Weil dalla scienza moderna che
vide soggetta alla categoria dell’utile ed esposta allo scientismo. Ai
suoi occhi la scienza doveva avere per oggetto la verità.
Anche le scienze moderne hanno come oggetto la verità.
Vannini:
Certo, ma non era a quel tipo di verità che la Weil faceva riferimento.
Non era alle verità sperimentali che lei pensava. Piuttosto si riferiva
a quella verità che l’uomo razionale cerca e non trova nella semplice
correttezza o accordo con i fatti, bensì gli si impone attraverso la
rivelazione. È ciò che i greci chiamavano aletheia, un concetto che apre
a un modo di pensare religioso.
Zellini: Per Simone Weil, e su
questo è molto esplicita, fu la religione a innescare in qualche modo i
problemi della scienza e, in particolare della matematica. Le figure
della geometria, i numeri, secondo lei, erano immagini divine. E di una
intensità tale che richiedevano, per forza di cose, un’esattezza del
pensiero. Di qui la necessità della dimostrazione rigorosa.
Non può apparire sconcertante questo accostamento?
Zellini:
Non più di tanto. Perché gli storici della matematica hanno
recentemente mostrato come effettivamente non solo in Grecia, ma anche
in altre civiltà, possa essere stata proprio la religione a introdurre
dei problemi matematici. Ad esempio, in India, la costruzione di certi
altari per i rituali religiosi richiedeva competenze matematiche
notevoli.
Tornerei alla questione religiosa e alla relazione che la
Weil stabilì tra mondo greco e cristianesimo. Si può far partire questa
relazione dal saggio bellissimo, compreso in questo libro, che lei
dedica all’Iliade come poema della forza?
Vannini: Porrei la
questione in questi termini: la Weil vide nei Vangeli l’espressione
estrema di quello spirito greco che nell’Iliade aveva già una sua
compiutezza. Il testo omerico va interpretato a partire dalla forza,
cioè dalla sottomissione dell’uomo alla necessità. È la comprensione
della forza che apre alla “regina delle virtù”, ovvero all’umiltà.
Insomma la forza non è solo quella che si esercita ma anche quella che si subisce?
Vannini:
Meglio: che si accetta. Già nei Sermoni di Meister Eckhart troviamo
declinata l’umiltà non come espressione di generica virtù o di
devozione, ma come sapere. L’umiltà è allora il sapere che noi siamo
quasi in tutto e per tutto soggetti alla necessità - o a ciò che oggi
chiamiamo determinismo - cioè al fatto che le circostanze, l’educazione,
la disciplina, in una parola l’imperio della forza, ci dominano.
Ma questa assunzione della forza in che modo si traduce nel messaggio evangelico?
Vannini:
La Weil ci dice che nessun poema ha saputo, come l’Iliade, mettere
sullo stesso piano nemici e amici. La stessa comprensione, lo stesso
dolore, la stessa trascendenza si rivolgono tanto alla morte dell’uno
quanto alla morte dell’altro. E questo senso di eguaglianza, starei per
dire di compassione, lo si ritroverà pienamente nei Vangeli.
Zellini:
È giusto il richiamo di Vannini all’idea di equità presente
nell’Iliade. Equo ci dice la Weil è Ares, il dio della guerra, che
uccide coloro che uccidono. Quindi l’Iliade non è solo il poema della
forza ma anche della debolezza e del rapporto che si stabilisce tra il
forte e il debole. Perché quando la forza è senza limiti, quando è
esercitata in tutta la sua hybris, diviene problematica. Colui che
esercita la forza senza limiti perde il pensiero e smarrisce anche il
senso di giustizia ed espone se stesso a una condizione psichicamente
caotica.
La forza gli si ritorce contro?
Zellini: Egli stesso
finisce col diventare vittima della forza degli altri. Il gioco della
guerra, nota Simone Weil, è pendolare. È un’oscillazione dove il forte
non vince mai in maniera definitiva. Il simbolo di questa oscillazione è
la bilancia. E viene in mente la bilancia d’oro di Zeus che pesa le
sorti dei contendenti. Ma anche il numero si può definire come una
bilancia, ci ricorda la Weil. Per calcolarne le cifre si usava, nel
mondo arabo, una “regola dei piatti della bilancia” E quando, in ambito
cristiano, incontriamo un Clemente Alessandrino che dice che Dio è
bilancia, misura e numero di tutti noi, è alla Grecia che occorre
risalire per spiegare l’origine di questa immagine.
Vannini: Nel mondo medievale anche la croce è vista come una bilancia.
Quello
che l’Iliade rappresenta sul piano della narrazione epica, Platone lo
rappresenterà sul piano filosofico. È convincente la lettura che la Weil
fa dei Vangeli come diretta emanazione del pensiero platonico?
Vannini:
A mio parere è una lettura persuasiva. La Weil interpreta la
Repubblica, in particolare il “Mito della caverna”, e altri testi come
il Convito, con la necessità che per accedere al bene e alla verità
l’uomo abbia una conversione. Il “prigioniero” della caverna deve
girarsi e volgersi indietro e per far questo deve essere liberato dalle
catene, non si libera da solo. Per la Weil la natura umana è corrotta,
cieca. I prigionieri vedono solo ombre. Solo la conversione, cioè la
grazia, può portarli alla luce. Ecco dove l’idea platonica si salda con
il messaggio cristiano.
In che misura la mistica, con cui la Weil
interpretò Platone e predilesse una certa via del cristianesimo, diventò
esperienza personale?
Vannini: Tutta la filosofia della Weil porta
con sé un problema di conversione e di testimonianza. Ed è una filosofia
segnata profondamente dal misticismo perché il suo pensiero è
esercitato con tutta l’anima, con tutta se stessa, mettendo in
discussione la sua vita. Fu una donna che provenendo dall’École Normale
decise, per scelta, di fare l’operaia alla Renault, di partecipare alla
Guerra di Spagna, di entrare nella Resistenza e finì con l’ammalarsi
gravemente. È abbastanza raro imbattersi, con quella coerenza, in una
vita rivolta alla verità.
Zellini: C’è da dire che la Weil non ebbe
mai uno spiccato temperamento pratico e non riuscì poi a fare tutto
quello che avrebbe voluto. Non riuscì, più di tanto, a lavorare nelle
fabbriche.
Cosa ritrovava nel lavoro di fabbrica?
Zellini: A parte
i temi dello sfruttamento credo che la cosa che la interessasse era
ancora una volta il rapporto con la scienza. Addirittura arrivò a dire
che la geometria nasce dal coraggio dell’operaio, perché è il lavoro
manuale che ci mette a contatto con lo spazio e col tempo. Più tardi
cambiò idea. E proiettò la scienza nel contesto religioso. Ci si
potrebbe a questo punto chiedere se la verità matematica è la stessa
verità religiosa o sono due cose diverse. E la risposta non sarebbe
facile. Certamente no, in senso assoluto. Perché Dio non è fatto di
cerchi o triangoli. D’altro canto certe forme geometriche sono in
qualche modo immagini divine.
Vannini: Si potrebbe attribuire alla Weil una specie di galileismo per cui la matematica è il linguaggio privilegiato di Dio.
Zellini:
Sì, ma per lei la rivoluzionaria legge di inerzia di Galileo era già un
tradimento: se un mondo dove c’è un corpo che conserva indefinitamente
la sua velocità e la sua direzione era equivalente a un mondo in stato
di quiete, veniva a cadere la stessa nozione di equilibrio.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento