Diciamolo pure, la tentazione, trovandosi tra le mani il Libro di Gian Arturo Ferrari e scorrendone rapidamente l’indice, è quella di andare subito alle conclusioni, per capire che cosa ne dice del futuro del libro un conoscitore di lungo corso come Ferrari, che dopo l’esordio in redazione alla Boringhieri ha diretto la Rizzoli e per un paio di decenni la Mondadori fino a diventare l’uomo più influente dell’editoria italiana. Tentazione a cui vale la pena resistere, perché il discorso sul libro si sviluppa in modo tale che le conclusioni emergano lentamente dalle premesse storiche. Non una storia del libro, però: Ferrari ci tiene a precisarlo, «questa non è una storia del libro, ma una riflessione su alcuni suoi aspetti, ovvi e meno ovvi». Diciamo che in genere gli aspetti che potrebbero apparire ovvi Ferrari li discute, li capovolge, li mostra in una luce inattesa. Non c’è niente di più discusso (male) e (pre)giudicato del mondo del libro. E se ognuno si sente autorizzato a dire la sua, Ferrari insegna a diffidare degli apocalittici e degli ottimisti, dei nostalgici e degli entusiasti, di categorie come Bene e Male applicate al passato, al presente e al futuro dell’editoria.
giovedì 24 aprile 2014
Risvolto
«Dobbiamo molto al libro. La vita intellettuale degli uomini ha avuto nel libro il suo utensile più versatile e insieme il suo emblema più glorioso. La vita emotiva, interiore, degli uomini ha
trovato nei libri quella comprensione, quel colloquio, quell’intima rispondenza a sé che non sempre gli altri uomini sono stati in grado di offrire. Un simile riconoscimento che confina con la
riconoscenza non ci autorizza però né a perseverare nelle illusioni né ad avvolgere noi stessi e il libro in una nebbiosa retorica. Al contrario, possiamo usarlo – lui, il libro – per fare quello che gli è
Dal manoscritto all’ebook: la creatività degli uomini si accende sempre con i grandi cambiamenti tecnologici
di Paolo Di Stefano Corsera 23.04.14
Diciamolo pure, la tentazione, trovandosi tra le mani il Libro di Gian Arturo Ferrari e scorrendone rapidamente l’indice, è quella di andare subito alle conclusioni, per capire che cosa ne dice del futuro del libro un conoscitore di lungo corso come Ferrari, che dopo l’esordio in redazione alla Boringhieri ha diretto la Rizzoli e per un paio di decenni la Mondadori fino a diventare l’uomo più influente dell’editoria italiana. Tentazione a cui vale la pena resistere, perché il discorso sul libro si sviluppa in modo tale che le conclusioni emergano lentamente dalle premesse storiche. Non una storia del libro, però: Ferrari ci tiene a precisarlo, «questa non è una storia del libro, ma una riflessione su alcuni suoi aspetti, ovvi e meno ovvi». Diciamo che in genere gli aspetti che potrebbero apparire ovvi Ferrari li discute, li capovolge, li mostra in una luce inattesa. Non c’è niente di più discusso (male) e (pre)giudicato del mondo del libro. E se ognuno si sente autorizzato a dire la sua, Ferrari insegna a diffidare degli apocalittici e degli ottimisti, dei nostalgici e degli entusiasti, di categorie come Bene e Male applicate al passato, al presente e al futuro dell’editoria.
Diciamolo pure, la tentazione, trovandosi tra le mani il Libro di Gian Arturo Ferrari e scorrendone rapidamente l’indice, è quella di andare subito alle conclusioni, per capire che cosa ne dice del futuro del libro un conoscitore di lungo corso come Ferrari, che dopo l’esordio in redazione alla Boringhieri ha diretto la Rizzoli e per un paio di decenni la Mondadori fino a diventare l’uomo più influente dell’editoria italiana. Tentazione a cui vale la pena resistere, perché il discorso sul libro si sviluppa in modo tale che le conclusioni emergano lentamente dalle premesse storiche. Non una storia del libro, però: Ferrari ci tiene a precisarlo, «questa non è una storia del libro, ma una riflessione su alcuni suoi aspetti, ovvi e meno ovvi». Diciamo che in genere gli aspetti che potrebbero apparire ovvi Ferrari li discute, li capovolge, li mostra in una luce inattesa. Non c’è niente di più discusso (male) e (pre)giudicato del mondo del libro. E se ognuno si sente autorizzato a dire la sua, Ferrari insegna a diffidare degli apocalittici e degli ottimisti, dei nostalgici e degli entusiasti, di categorie come Bene e Male applicate al passato, al presente e al futuro dell’editoria.
Risalire
alle origini non è un capriccio archeologico, ma la premessa per
cogliere, senza paraocchi, le sfumature dell’oggi. Ferrari individua,
nel corso della storia, tre svolte, che producono altrettanti Libri: il
libro manoscritto, il libro a stampa e il libro digitale. È una storia
che parte con la metafora del mosaico e con la stessa immagine,
curiosamente, si chiude, per ripartire: «Il libro non è un’invenzione
come la macchina a vapore o il telefono, qualcosa che prima non c’era e
dopo c’è (...). È piuttosto un mosaico che si compone nel tempo e in cui
ogni nuova tessera non soltanto aggiunge qualcosa, ma cambia il disegno
d’insieme, la figura complessiva. A partire con la prima e ineludibile
tessera, che è la scrittura». Le figure degli scribi, dell’autore, del
lettore, infine (attorno al 500 a.C.) del libro ne sono alcune delle
tante conseguenze. L’argomentazione, stringente e insieme molto
colloquiale di Ferrari, coglie da subito alcune opposizioni che
percorrono i secoli per non dire i millenni, e che si ritrovano ancora
intatte ai nostri giorni. Si potrebbe leggere il Libro seguendo queste
polarizzazioni: testualità-libro, immagine-scrittura, fisicità o
pesantezza-leggerezza, contenuto-forma, lentezza-velocità,
totalità-parzialità, alto-basso, originale-copia, cultura-business...
Sono binomi su cui ancora oggi si dibatte, schierandosi su un fronte o
sull’altro, come paladini del Bene e del Male, ma che sono insiti da
sempre nella trasmissione della cultura, sin da quando il testo non si
era ancora profilato come libro («possono esistere civiltà testuali
senza libri»).
Il Libro è pieno di sorprese: per esempio, quando si
scopre che la prima scrittura, indecifrata, che nasce con i logogrammi
nella città sumera di Uruk (tra il 3259 e il 3100 a.C.), è ispirata da
esigenze contabili e amministrative e dalla necessità di archiviazione:
«Duole dirlo, ma la culla della nostra cultura è stata un magazzino». Il
che offre la possibilità di ricordare che tutt’oggi circa metà del
mercato mondiale è fatto di libri «per necessità»: repertori, elenchi
matematici, depositi di informazioni, enciclopedie, leggi... Anzi, è
questo il business migliore. Ferrari si guarda bene dal cadere nel
tranello comune che è l’effetto metonimia, cioè la tendenza a confondere
la parte per il tutto, avvertendo che il libro non si inaugura con la
stampa. E poi: ovvio che non è solo il romanzo, ma una galassia testuale
declinata in varie vesti e in molteplici generi e sottogeneri. E da
buon filosofo della scienza qual è, si sofferma sugli aspetti tecnici:
sul passaggio dal papiro alla pergamena e dalla pergamena alla carta,
con i relativi aggiustamenti e gli effetti stimolanti che queste svolte e
invenzioni hanno comportato. L’introduzione della scrittura alfabetica
in Grecia produce una grande fioritura di «pre libri o libri che dir si
voglia»: così dopo la metà del Quattrocento l’avvento della stampa (il
cui segreto è essenzialmente nelle «arti del metallo») provocherà una
diffusione enorme di libri; simmetricamente l’era digitale registrerà
una moltiplicazione testuale, «più di post libri verrebbe da dire che di
libri veri e propri».
Nessuna meraviglia, insomma, la creatività
degli uomini si accende sempre in coincidenza con i grandi cambiamenti
tecnologici. Intanto, va detto che nel millennio che separa la tarda
antichità dalla comparsa della stampa il libro da «immoto deposito di
sapere» diventa «una cosa viva, vitale (...), che partecipa, si muove e
interagisce con la vita degli uomini, con le loro intenzioni, con le
loro passioni, con il loro modo d’essere». Oggetto che trasmette
affetti, sentimenti, emozioni. Non è strano, dunque, che si carichi di
valori che lo distinguono da altri oggetti di consumo, fino a cadere
nelle grinfie di ardenti agiografi. Il Libro è un libro di sottili
passaggi, per esempio quelli che appartengono alla seconda fase (della
stampa), dove si impone, con la copiatura (in poco tempo) potenzialmente
illimitata, il trasferimento del testo in un nuovo mezzo, vera e
propria svolta che fa rinascere il libro immettendolo nella sfera degli
oggetti, delle merci. E dividendo il mondo della cultura tra editi e
inediti, con le conseguenze (anche psicologiche) che conosciamo. Nascono
il tipografo, il libraio, soprattutto l’editore, la figura più
innovativa, cui spetta il compito di scegliere, di investire e di
pubblicare, regalando prestigio al «suo» autore. E si afferma quello che
Ferrari chiama il «pathos della novità». Il meglio non è più nel prima,
ma nel futuro: presupposto dell’editoria industriale moderna, che
dirotterà l’attenzione dalla cerchia ristretta di un lettore più o meno
identificabile a priori alla dimensione indifferenziata del mercato. Con
lo spostamento coassiale dal valore-autore al valore-fruitore.
Siamo
già arrivati, facendo a piè pari brutali salti da gigante, al più
recente campo di «tensioni» in cui il libro vive (sopravvive, anzi
sopravviveva) in difficile equilibrio tra spinte e controspinte. Sempre
di opposizioni si tratta, se si pensa al libro come creatura ibrida
ispirata al contempo da una aspirazione ideale e da una urgenza
economica: Dio e Mammona insieme, una specie di mostro guidato
dall’imperativo di vendere l’anima a tutti i costi. Con il definitivo
trionfo di Mammona, l’editore diventa l’anello debole della catena, la
selezione cede alle richieste del marketing, che vorrebbe replicare
all’infinito i successi, e per di più a breve termine. Una fenomenologia
che ben conosciamo, ma che Ferrari illustra con occhio scientifico, non
senza qualche punta amara: per esempio laddove segnala il tramonto
della grande casa editrice come orchestra, il cui direttore (l’editore)
detta (dettava) i tempi.
«I libri hanno costituito l’impalcatura
dell’interiorità degli uomini, li hanno prima attratti e poi costretti a
una mimesi che si trasformava in autocostruzione», scrive Ferrari. Che
cosa ne rimarrà nel nuovo mondo digitale? L’ideologia totalizzante
(totalitaria?) della rete -con la sua «utopia concreta»,
l’orizzontalità, l’ambizione monopolistica, la negazione della
professionalità, l’abolizione del diritto d’autore, la pretesa della
non-selezione -si oppone a tutto ciò che il libro ha rappresentato.
Quale futuro, dunque? Niente catastrofismi. Non più libri, fisicamente
riconoscibili come tali, ma «forme testuali» dai molteplici futuri.
Qualche ipotesi in breve? L’editoria scientifica e professionale è già
consegnata al digitale, ha realizzato la disgregazione dell’unità del
libro tradizionale: dunque, «non più libri ma un mix di prodotti», di
servizi ad alto livello, di informazioni in aggiornamento perpetuo. È
qui il grande business. Un gradino più in basso -ma con enormi
prospettive di sviluppo proporzionate alle speranze di un boom
dell’alfabetizzazione mondiale -c’è il cosiddetto educational
(l’istruzione primaria, secondaria e universitaria), non del tutto
globale ma «localizzato» nei diversi Stati: un’editoria «plurinazionale»
destinata a trovare il veicolo migliore nell’ebook educativo, il vero
«strumento di emancipazione dall’ignoranza». Saranno i Paesi emergenti
le culle dei nativi digitali, secondo Ferrari. La varia, intesa come
saggistica e fiction, sarà l’ultima barriera del libro-libro di carta,
identificato come status dal passato glorioso. Ma non sempre e non per
sempre: già i cosiddetti «libroidi» vivono una vita ibrida. La
saggistica sperimenterà interessanti formule tra scrittura e
multimedialità. Per i romanzi (di qualità) sarà l’addio più lungo: la
libreria tradizionale conserva ancora il fascino della scoperta.
Difficile che gli algoritmi facciano innamorare il lettore forte come
gli scaffali di un bel negozio. Il mosaico si è infranto, ne nascerà un
caleidoscopio, in cui quel «gesto di ottimismo e di fiducia che è in sé
il libro» troverà una sua (marginale) collocazione: «Il libro è uno
scambio del meglio che abbiamo e che riceviamo. Il libro è un dono».
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