mercoledì 2 aprile 2014

Giovanni Gentile, Paolo Mieli e la fantastoria



Per una volta che i comunisti hanno rivendicato con chiarezza un'esecuzione politica, Mieli chiama in causa gli inglesi...
Bellissima poi la storia della "pacificazione" gentiliana.
In generale, però, l'articolo è costruito per dimostrare che gli intellettuali del Pci erano tutti voltagabbana.
Come sempre [SGA].



Luciano Mecacci: La ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi




Risvolto
"Sono cose che ancora non si possono dire". Questa affermazione di Cesare Luporini, una delle teste pensanti del PCI nel secondo dopoguerra, risale a un'intervista radiofonica sull'affaire Gentile rilasciata nel 1989, a quasi cinquant'anni di distanza dai fatti. Bene, chi vive in Italia è abituato a delitti politici preparati, eseguiti e poi coperti in un'atmosfera acquitrinosa, dove nessuno per certo è innocente, ma un colpevole sicuro non esiste. Eppure, l'assassinio di Giovanni Gentile in quel freddo aprile del 1944 rimane un cold case diverso da tutti gli altri - che l'indagine di Luciano Mecacci, condotta anche su documenti inediti, riapre in modo clamoroso. Tutto, in questa ricostruzione, è perturbante. I moventi, molto meno limpidi - o molto più umani - di quanto fin qui si è tentato di far credere. La scena del delitto, cioè la Firenze cupa e claustrofobica occupata dalla divisione Hermann Goring. E naturalmente gli attori. Qualcuno ha discusso, deciso, agito: ma come, fino a che punto, perché? Le figure che appaiono sul palcoscenico sono numerose, e molto diverse fra loro. Oscuri gappisti. Feroci poliziotti. Informatori. Doppiogiochisti. E al centro di tutto, il meglio dell'intelligencija italiana di allora: Luporini, certo, ma anche Eugenio Garin, Antonio Banfi, Mario Manlio Rossi, Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Concetto Marchesi. 


Lo scopo: fermare il disegno di pacificazione del filosofo
Paolo Mieli 170 01-04-2014 corriere della sera 32/33

Uccidere Giovanni Gentile? Un complotto da intellettualUn saggio di Luciano Mecacci getta luce su come maturò (e venne giustificato) l'attentato
Marcello Veneziani - il Giornale Sab, 05/04/2014


MA ALLORA CHI HA UCCISO GIOVANNI GENTILE?
Paolo Mauri161 11-04-2014 la repubblica 46/47


Gentile, un omicidio contro la pacificazione
A 70 anni dalla morte, due saggi rivelano: il filosofo fu ucciso perchè non voleva la guerra civile Tra imandanti Servizi, massoneria e gli intellettuali ex fascisti passati dalla parte di Togliatti 9 apr 2014 Libero GENNARO MALGIERI

Chi armò la mano dei sicari o del sicario di Giovanni Gentile il 15 aprile 1944, a Firenze? Probabilmente non finiremomai di chiedercelo. Di tanto in tanto vengono fuori studi che aggiungono dubbi a certezze acquisite o ritenute tali. Ma, al di là del fatto, che l'assassinio fu ispirato da ambienti che gravitavano nell'orbita del Pci, tanto che PalmiroTogliatti viappose il suo autorevole sigillo dopo aver definito il filosofo come un essere immondo, restano ancoraoscuri i contorni del complotto. Perché di un complotto si trattò, stando a quel che scrive al riguardo LucianoMecacci, autorevole psicologo dell'università di Firenze, imbattutosi quasi per caso nel complicato affaire dell'omicidio di Gentile, nel suo libro La ghirlanda fiorentina, in uscita per Adelphi. E del complotto facevano parte, direttamente o indirettamente - ma questa è storia parzialmente nota - giovani intellettuali, molti dei quali già vicini a Gentile e a lui «riconoscenti», poi votatisi alla causa del comunismo.
Che l'azione sia stata concertata o meno da importanti accademici, che avevano fatto carriera all'ombra del fascismo, nessuno è in grado di poterlo sostenere con la sicurezza chepuòderivare soltantodadocumenti econfessioni, ma inomi che si colgono nelle pagine diMecacci,non sorprendono considerando che, inmaniere e forme diverse, più omeno tutti contribuirono tra il 1943 ed i primimesi del 1944 a «demonizzare» Gentile e oggettivamente proporlo come bersaglio a fanatici gappisti quale Bruno Fanciullacci chematerialmente esplose i colpicheuccisero il filosofo mentre rientrava in automobile nella sua dimora fiorentina.
Antonio Banfi ed Eugenio Curiel, Mario Manlio Rossi e Carlo Ludovico Ragghianti, Eugenio Garin, Cesare Luporini e soprattutto ConcettoMarchesi (sulla cuiazionedi rivoluzionario edaccademico, accusatore diGentile ed istigatore all'odio si veda il librodi Luciano Canfora, pubblicato da Sellerio nel 1985, dal quale si ricavano utili informazioni sul clima in cuimaturò l'assassinio) s'incanaglirononelmettere sotto tiro il filosofo per il semplice fatto, ormai acclarato, che egli si batteva per la pacificazione. Ai comunisti nonandavabeneper niente e simmetricamente in alcuni ambienti della Repubblica Sociale la prospettiva veniva respinta sdegnosamente, tanto da far scrivere articoli contro Gentile per esempio da giornali solitamente non proprio estremisti, come di Torino.
Immaginando una via d'uscita dalla guerra civile, Gentile intendevaproporreunpianoaMussolini dalquale sarebbe stato ricevuto il 18 di quello stesso tragicomese. Lamortemise fine a qualsiasiprogetto eMecacciadombra l'ipotesi che perfino servizi segreti stranieri, Sopra, il filosofo Giovanni Gentile in una foto storica Ansa nell’anno della suamorte. A sinistra, copertina del libro Adelphi «La ghirlanda fiorentina» che ne rivela particolari inediti sull’assassinio insieme ad ambientimassonici si adoperarono affinché il disegno gentiliano si arenasse. Insomma, non stava bene a nessuno la concordia, a cominciare daicomunisti che avevano arruolatointellettualidesiderosidi redimersied immaginavano di lucrare sulla vittoria, ai governialleaticontroil fascismo che dovevano portare a compimento la loro «operadibonifica», a quanti intendevano regolare conti in sospeso.
Gli uomini di pensiero, comunque, irreggimentati ebbero il ruolo dei fomentatori, e non lo assevera soltanto il libro diMecacci. La strategia togliattianaera chiara: uccidere le idee perprendersi l'anima del popolo. Lezione appresada Staline dalle lunghefrequentazioni del Komintern. Ci provò anche con Benedetto Croce, il «Migliore», ma l'amico-nemico di Gentile era «protetto« dagli eventi e dalla parte che aveva scelto. La circostanza non lo sottrasse comunque all'emarginazione ed alla solitudine intellettuale.
Curiosodestino: iduepiùgrandi filosofidelNovecento sconfittidall'Intellettuale Organico, dal Pensiero Unico di marca comunista vilmente servito da azionistie liberalipentiti, socialisti e cattolici progressisti.
Gentile, dunque, settant'anni fa fu vittima non della sua coerenza politica, ma della sua morale patriottica. Un «vinto» che insieme con l'onore voleva salvare quel che era salvabile dell'Italia, in adesione a quanto scritto e detto per decenni di recente ripubblicato in un' antologia gentiliana curata daMarcello Veneziani, Pensare l'Italia, edita da Le Lettere. A conclusione del suo saggio introduttivo di scintillante bellezza, Veneziani scrive: «Gentile fu il filosofo della nazione. Non si limitò ad amare l'Italia. Giovanni Gentile fu l'ultimo grande filosofo a pensare l'Italia». È il riassunto del ruolo civile, intellettuale e politicodell'uomo che cadde sottoi colpi di un terrorista comunista al quale con gratitudine per l'atto compiuto, vennepoi intitolataunastrada di Firenze, mentre alla vittima innocente ancora viene ostinatamentenegatoun ricordo toponomastico nella stessa città.
Gentile è, dunque, il «vinto» per eccellenza. Ma, da quel che emerge, oggi lo si riconosce come un «pacificatore», ancorché uomo di parte, capace non solo diamare, ma di «pensare» appunto l'Italia, ben più difficile esercizio quando si è nello stesso tempo filosofo, educatore,statista. Non bastava a gente comeGentile lavorare per la riconciliazione se questa era un puro espediente retorico per tenere insieme anche ciò che insieme non poteva stare. Lui voleva - e lo dimostrò fino alla fine - porre a fondamento della sua azione culturale e politica lamissione di dare agli italiani la consapevolezza della loro identità. Ecco ilmotivo per il quale «pensare» la nazione per lui significava ricomporre la trama di una storia senza gettare via nulla in modo che tutti si potessero in essa riconoscere. Gli assassini delle idee lo avevano capito.



Attentato a Gentile: trappola per Togliatti
Ecco chi volle l’esecuzione del filosofo Luciano Mecacci con metodo indiziario ricompone i tasselli del caso e ricostruisce moventi e mandanti A settant’anni dall’omicidio, avvenuto il 15 aprile 1944, ecco una tesi plausibile di come andò: è tutto scritto nel suo libro «La Ghirlanda fiorentina»di Bruno Gravagnuolo l’Unità 14.4.14

DAVVERO L’ATTENTATO A GENTILE, MAESTRO DELL’ATTUALISMO CHE ADERÌ ALLA RSI, RESTA UN MISTERO? Davvero non sono chiari moventi e mandanti dell’attentato dopo 60 anni? E davvero il Pci non ne fu protagonista e ideatore, nella Firenze occupata dai tedeschi? Proprio nell’anniversario di un’esecuzione che fa ancora discutere esce il libro ricco e suggestivo di uno psicologo, Luciano Mecacci. Che con metodo indiziario ricompone e scompone i tasselli del caso. Non senza suggerire una tesi: furono i servizi segreti britannici, con la complicità di un nugolo di intellettuali (Manlio Rossi, Berenson Markevitch, Bilenchi e molti altri) a volere la morte del filosofo. Favorendo l’azione del Gap guidato da Bruno Fanciullacci, che per mano di Giuseppe Martini freddò il filosofo quella mattina del 15 aprile 1944 a Villa Montalto in via del Salviatino.
Il libro, si intitola La ghirlanda fiorentina (Adelphi, pp. 528, euro 28). E ghirlanda fiorentina è nome in codice: l’agenda usata da John Purves, «italianista» e storico della filosofia a Edimburgo, arruolato nell’esercito segreto di Churchill, per i suoi rapporti ante-guerra con gli intellettuali fiorentini. Tra gli indizi della pista britannica, Mecacci tira in ballo Radio Cora, emittente del Partito d’Azione e canale di collegamento con l’VIII armata britannica. Un «giro» da cui proveniva anche un misterioso esponente del P.d.’Az., accompagnato in anticipo sul luogo dell’attentato dall’ex partigiano azionista Bindo Fiorentini. E tra le prove-indizio ci sono anche le parole di Gentile stesso prima dell’8 settembre a Mario Manlio Rossi, storico della filosofia: «Ho completato la mia opera, i suoi amici possono uccidermi se vogliono». Dunque intellettuali, azionisti, criptocomunisti, o in bilico tra le ideologie nella fase di trapasso (Garin, Ragghianti, Bianchi Bandinelli, Calogero). Tutti vicini al filosofo. Ai quali egli confida i suoi presentimenti, e da alcuni dei quali è scongiurato di non aderire alla Rsi, per la tragedia che poteva derivarne. Come nel caso di Cesare Luporini, lettore di italiano alla Normale e poi filosofo dell’italo-marxismo. Come rivelò a Luciano Canfora in una trasmissione radiofonica del 1985, «c’erano cose che ancora non si potevano dire» su quella esecuzione ». Concetto ribadito a chi scrive nel marzo del 1993, alla vigilia della sua morte. Con in più l’aggiunta - nel corso di una intervista per l’Unità - di un ricordo preciso: «Lo supplicai in autunno di non andare a Salò ma lui disse domani vado da Mussolini e mi lasciò nell’angoscia..».
Era turbato e reticente Luporini. E le stesse cose tornano nel libro di Mecacci, con la «frase- replica» di Gentile al filosofo Carlini nel 1944, riferita da Luporini: «Ci siamo tutti immersi (in questa tragedia) fino alla fronte...». Gentile immaginava, paventava, e molti della sua cerchia presentivano, o sapevano. Del resto la scelta di presiedere l’Accademia d’Italia della Rsi - anche per salvare il figlio Federico prigioniero in Germania - aveva generato odio. La Banda Carità infieriva, cinque giovani renitenti erano stati fucilati prima di quel 15 aprile, mentre Gentile pur da moderato, condannava «traditori e sobillaltori», e inneggiava a Hitler «condottiero della Grande Germania». Ma qual era la posizione del filosofo? Coerente, dopo le esitazioni successive al 25 luglio. Aveva protetto intellettuali ebrei come Kristeller, dissentendo (solo) in privato dalle leggi razziali. Protetto antifascisti e «corporativisti impazienti» alla sua corte - chierici comunisti e azionisti - in un famoso discorso «dissenziente» dal regime in Campidoglio nel giugno 1943. Perciò da lealista nazionale e fascista, osteggiava il fascismo più feroce, e sperava in una pacificazione che consentisse alla Rsi di ottenere una tregua o un armistizio: che salvasse Mussolini e ciò che restava dell’Italia. Eccola quindi la tesi di Mecacci, che riprende argomenti già lanciati da Luciano Canfora nel 1985 nel suo La sentenza: erano i britannici che bersagliavano per radio Gentile, a osteggiare il suo moderatismo. E a volerlo eliminare, per arrivare a una resa del fascismo senza condizioni. Tesi suggerita anche dal figlio Benedetto Gentile: una moderazione che dava fastidio, a tutti. Inglesi, partigiani e fascisti duri.
A questo punto andrebbe però ricordato che la pacificazione di Gentile non aveva nessuna chance in quel 1944 (al più Gentile poteva chiedere al Duce di fare pressioni sui tedeschi, dopo l’uccisione del suo segretario). E poi - fuor dal reticolo degli indizi ragionati da Mecacci - restano alcuni fatti certi. L’attentato fu compiuto da gappisti comunisti, e condannato dagli azionisti. Fu accompagnato da una rivendicazione, consistente in un discorso anti-Gentile di Concetto Marchesi da Padova, poi chiosato (solo) nell’edizione fiorentina della Nostra Lotta da una postilla apocrifa di Girolamo Li Causi. Quel periodico voluto da Eugenio Curiel era controllato a Milano da Longo , Secchia e Li Causi. Ed ebbe un ruolo chiave. Così come lo ebbe Teresa Mattei, partigiana e inventrice della mimosa l’8 Marzo, futura moglie di Bruno Sanguineti, figlio del patròn dell’Arrigoni, uomo dai collegamenti decisivi nell’Italia occupata tra Pci centrale e periferico. Fu la Mattei a indicare agli uomini del commando la figura di Gentile, che come rivelò essa stessa al Corsera il 6 agosto 2004, doveva morire per vendicare suo fratello: il chimico accademico Gianfranco Mattei morto per le torture a Via Tasso. Il tutto disse la Mattei, fu voluto da Sanguineti (ma sparò Giuseppe Martini). In collegamento con Milano, riteniamo. Né c’è motivo di dubitarne, poiché a distanza di anni non si vede perché mai la Mattei, uscita dal Pci e legata alla sua storia, dovesse attribuirsi a vuoto un gesto così grave e controverso. Non valgono alcune sfasature del resoconto rilevate da Mecacci che concede del resto l’attenuante della memoria incerta alla donna scomparsa nel 2013. La versione tiene. Ed è confortata da considerazioni più generali. E cioè: il tipo di rivendicazione, con postilla apocrifa apposta al discorso di Marchesi solo nell’edizione fiorentina del giornale.
La copertura goffa e propagandistica data ex post da Togliatti dell’attentato. Fatta di insulti («bestione, corruttore») e motivata dall’ansia di chiudere qualcosa di imbarazzante: di cui non si sarebbe parlato più troppo. Né agli esecutori - Martini e Fanciullacci - venne mai reso «onore». Infine c’è la contraddizione palese, tra la «pacificazione antifascista» voluta da Togliatti con la svolta di Salerno, e l’attentato contro una figura come Gentile, dioscuro dell’idealismo italiano con quel Croce che avrebbe governato con Togliatti (e che a Croce non lesinò critiche per la sua convivenza col regime). Morale, l’attentato fu voluto dal Pci interno: fiorentino e «milanese ». Senza consultare Togliatti che a quel tempo era in viaggio da Mosca per annunciare la bomba della svolta di Salerno. Svolta osteggiata dal settembre 1943 - quando Togliatti la lanciò da Radio Milano Libera - da un ampio fronte: dagli azionisti, a Longo, Amendola, Secchia, Scoccimarro. Uccidere Gentile fu un segnale preciso a Togliatti: questa è anche una resa dei conti civile e ogni pacificazione, come quella con Badoglio, il Re e Croce, ha un limite. Togliatti prese nota e finse di adeguarsi. Ma andò per la sua strada di unità nazionale e democratica. Per fortuna.



Paolo Simoncelli Avvenire 14 aprile 2014

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