lunedì 28 aprile 2014

"Gramsci. Il sistema in movimento": il libro di Alberto Burgio


A occhio e croce, un libro imprescindibile che aspettavamo da tempo [SGA].

Alberto Burgio: Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi

Risvolto
Esito di una ricerca trentennale, il libro completa un trittico inaugurato da due precedenti volumi (Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere”, Laterza 2003, e Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, DeriveApprodi 2007). Qui è l’intero lascito gramsciano a essere riletto nella sua integrità, e riguardato come un intero attraversato dal susseguirsi dei drammatici eventi politici che segnarono la storia italiana e mondiale tra il primo dopoguerra e il consolidarsi, a seguito della Grande crisi del ’29, della «stabilizzazione capitalistica» sulle due sponde dell’Atlantico. 

L’analisi spazia dalla riflessione sulle forme e le logiche della politica alle questioni capitali della ricerca del Gramsci storico e teorico della storia, alle problematiche fondamentali della filosofia sottesa all’opera precarceraria e ai Quaderni. Si tratta per un verso della teoria del partito e delle questioni della rappresentanza e della democrazia borghese e operaia; della coscienza di classe e dei rapporti tra Stato e società civile; dei temi classici dell’egemonia, del cesarismo e del bonapartismo; della rivoluzione passiva, dell’americanismo e del fordismo. E, per l’altro verso, della riflessione sulla temporalità, la modernità e la sua crisi immanente; della teoria delle crisi e delle transizioni; del ruolo teorico e pratico della dialettica e della filosofia della prassi.


"... Per molte importanti ragioni Antonio Gramsci è oggi inattuale. Vede nella storia il solo luogo nel quale sia possibile comprendersi, come individui e come soggetti collettivi. È quindi, direbbe il poeta, «più moderno di ogni moderno», posto che la modernità nasce col sentimento di un nuovo tempo che comincia nel segno di grandi trasformazioni. Oggi il sentimento del tempo storico appare sradicato, e si direbbe imploso l’orizzonte di senso che sul suo sfondo si costituiva. L’idea che la storia sia uno «svolgimento» coerente ci è estranea. Suona per noi come un che di scolastico e di astratto. 

Gramsci investe sulla forza delle organizzazioni del movimento operaio, delle quali, pure, scorge gravi limiti, dovuti all’inadeguatezza dei gruppi dirigenti e alla loro estraneità alla classe. Confida nella trasformazione rivoluzionaria e nell’avvento, anche in «Occidente», di una «nuova società», regolata dall’autogoverno dei corpi sociali. Alieno da qualsiasi determinismo, lo considera una «necessità storica» perché ha fiducia nell’efficacia della volontà (della razionalità) collettiva. Nulla più di un simile ottimismo storico si direbbe, di questi tempi, lontano dal sentire comune. 
Ma la sua lettura della crisi ci riguarda, ci coinvolge. Come Marx, Gramsci pensa dialetticamente la crisi come conseguenza necessaria dello sviluppo, e come premessa di una transizione differibile ma non evitabile.
È uno scenario che parla di noi. Da oltre un secolo l’Occidente è stabilmente in crisi. Genera guerre apocalittiche (quest’anno cade il centenario della Grande guerra), produce devastazioni dell’ecosistema, si dimostra incapace di coniugare successi tecnici e crescita civile, intellettuale e morale delle società. Non soltanto per irresponsabilità soggettive: anche, soprattutto, per limiti sistemici.
Dunque il nostro è ancora il tempo di Gramsci, per quanto distanti ci si possa ritenere. E nonostante la divergenza delle prospettive. Da ultimo Eric Hobsbawm ha scritto che egli è parte del nostro universo intellettuale. Un classico. Senza l’aura archeologica che talora a questo giudizio si accompagna...".


Gramsci, l’evoluzione del pensiero

Il potere delle idee e della cultura Ecco la politica che cambia la società L’anticipazione In questa pagina un brano della ricerca trentennale del filosofo, in libreria a fine mese L’intero lascito gramsciano riletto nella sua integrità

di Alberto Burgio l’Unità 27.4.14


L’EGEMONIA È L’ALTRO DELLA COERCIZIONE. Per usare una coppia classica in filosofia politica, potremmo dire che l’una riposa sull’autorità (prestigio, autorevolezza del dirigente), l’altra sul potere del dominante. O, se si preferisce, che si deve pensare al dominio come a un semplice potere di fatto, a quello egemonico come a un potere riconosciuto e, in questa misura (non necessaria mente connessa alla sfera giuridica), legittimo. 
Ma dove risiede, in ultima analisi, la differenza tra le due modalità? Evidentemente in ciò, che nell’egemonia è sempre contenuto un elemento di consenso assente nella coercizione pura. In effetti si può convenire su un fatto. Resta, tra consenso e forza, una differenza di fondo: dove c’è consenso vi è sempre responsabilità anche di chi acconsente; dove il consenso è del tutto assente, è responsabile soltanto chi comanda. In questa misura il potere politico (che almeno nella modernità implica sempre, secondo Gramsci, egemonia) differisce essenzialmente dalla nuda violenza (la più autoritaria delle società non è comunque un campo di concentramento e nemmenouna prigione). 
Se tuttavia passiamo dal terreno astratto delle determinazioni concettuali al piano concreto della fenomenologia storica, ci si presenta uno scenario altrimenti complesso. O, per meglio dire, ambiguo. (…)
Ciò che dall’esperienza storica emerge è, in una parola, la configurazione problematica del consenso politico. Che la storiografia pone in rilievo, coniando la figura del «consenso implicito » nella quale riecheggia la nozione teologica (e weberiana) di fides implicita (l’adesione in base a motivazioni oscure e tra loro contraddittorie). E che la teoria politica tematizza descrivendo, a fronte della figura ideale dell’«accordo normativo » su ciò che si ritiene corrispondente ai propri principi, un ampio spettro di situazioni ibride (allineamento, adattamento, acquiescenza pragmatica, apatia) nelle quali il consenso sfuma nella subordinazione di fatto. 
La radice di tale oggettiva ambiguità sembra consistere in ciò, che il consenso si costituisce sempre nel quadro di relazioni sociali o politiche asimmetriche, sulle quali influisce, pure in gradi molto diversi tra loro, l’azione di poteri coercitivi. Anche il rapporto pedagogico più espansivo, volto a generare consapevolezza critica e autonomia, implica un pur minimo grado di coercizione, quindi, almeno in partenza, il condizionamento del consenso che si viene «educando». Per questa ragione Gramsci respinge le critiche indiscriminate che non considerano l’inerenza di aspetti coercitivi più o meno espliciti a qualsiasi forma di intervento pedagogico, compreso quello esercitato dal «razionalismo» proprio dell’ambiente in cui si vive. 
Ma se, nel migliore dei casi, lo sviluppo delle capacità riflessive permette di sottoporre a critica i criteri di giudizio precedentemente assunti e di ridurre al minimo (mai, forse, di azzerare) i condizionamenti esterni (…), di norma il consenso politico si costituisce sulla base di una massiccia opera di persuasione e di convincimento (si rifletta sull’etimo di questo termine), quando non di indottrinamento e di vera e propria manipolazione (nel qual caso si potrà dire che nell’«acconsentire » si risponde in realtà a uno stimolo, e si adempie a qualcosa di molto somigliante a un compito assegnato). A sua volta, il fatto che tra consenso libero e consenso indotto sia difficile istituire distinzioni nette aiuta a comprendere perché, ben distinti tra loro e persino opposti sul piano logico (in astratto), «direzione» e «dominio » si presentino in realtà (in concreto) sempre mescolati tra loro, come ingredienti essenziali, entrambi, dell’esercizio del potere politico. (…)Ciò che, a nostro parere, la teoria gramsciana dell’egemonia (soprattutto l’affermazione della sua ubiquità e della funzione egemonica del diritto e dell’economia) mette in evidenza col focalizzare il continuum che collega consenso e forza, è precisamente l’oggettiva ambiguità del consenso politico. È vero che tutto il discorso gramsciano (sull’egemonia e, a monte, sullo Stato «integrale ») nasce dal riconoscimento della centralità del discorso pubblico ai fini dell’azione politica, quindi dalla presa d’atto della necessaria base consensuale del potere politico moderno. Ma questo Gramsci considera in tutta la sua problematicità, senza ingenui o strumentali entusiasmi. 
Ineludibile componente consensuale del potere significa, ai suoi occhi, necessità di «crea(RE) preventivamente» ciò che «si chiama “opinione pubblica”» (...). 
Se a questo punto consideriamo nel suo complesso il discorso gramsciano sull’egemonia, esso ci appare attraversato da una tensione feconda, nella misura in cui, per un verso, prende le mosse da una netta distinzione tra i concetti di «direzione » e di «dominio» che, per l’altro, mette in crisi. Si tratta di una contraddizione? Certamente sì. Che però ci pare rifletta una realtà ambivalente, che la teoria correttamente riconosce e problematizza. 
Ci sembra, in altre parole, che l’analisi gramsciana dell’egemonia si collochi precisamente nella distanza - non di rado minima e sempre sfuggente - che separa il consenso libero (informato e autonomo) da quello ottenuto mediante un’opera di efficace convincimento. E che, nei Quaderni, lo studio delle relazioni egemoniche sia il luogo privilegiato dell’analisi del carattere ambivalente della relazione politica nel «mondo moderno». Che soltanto uno sguardo dialettico è in grado di cogliere in tutte le sue manifestazioni. 
Ma la prospettiva dialettica si esplica in primo luogo nel riconoscimento delle contraddizioni immanenti nei processi e nei quadri storici, e delle loro potenzialità evolutive. (…) 
L’egemonia è centrale nella modernità, per le ragioni che si sono dette in precedenza. È un’espressione della dinamica espansiva del dominante. Ed è caratteristica di una società nella quale la comunicazione ha un ruolo strategico nella relazione sociale, che tende per l’appunto a configurarsi come agire comunicativo. Tutto ciò significa che, pur andando di pari passo con la pressione coercitiva, la dinamica egemonica apre spazi alla soggettività, rivelando un altro versante (in questo caso progressivo) della sua ambivalenza. (…)Si può dire che ogni forma di comunicazione tra gli esseri umani instauri una relazione cognitiva e sia per se stessa una potenziale fonte di consapevolezza, benché in capo a un processo aleatorio e tortuoso. Ogni scambio comunicativo (la trasmissione di informazioni e di idee) comporta e sviluppa elaborazione, quindi innesca esperienze riflessive potenzialmente critiche. In questo senso la relazione egemonica è irriducibilmente altra dal soggiogamento immediato prodotto dalla coercizione. Il soggetto subalterno non è soggiogato, e la stessa iniziativa egemonica «rischia» di nutrirne la creatività sovversiva, attivando strategie di resistenza. 
È qui in gioco una contraddizione insanabile, che inerisce al carattere oggettivamente progressivo dello sviluppo capitalistico. Se per un verso l’ubiquità dell’apparato egemonico offre al dominante infinite opportunità di penetrazione ideologica del corpo sociale, per l’altro lo sovraespone su un territorio (lo spazio ideologico) permeabile alla «prassi rovesciante» perché luogo della formazione dell’autocoscienza e dello sviluppo della riflessività. Su questo terreno la soggettività elabora coscienza: quindi, potenzialmente, criticità e propensioni anti-sistemiche. 
A leggere bene il § 35 del quaderno 7 a proposito del valore «metafisico» della teoria-prassi leniniana dell’egemonia, sorge il sospetto che proprio questo Gramsci intenda sostenere: che la dinamica egemonica, portando con sé la trasformazione del pensiero, della cultura, delle forme ideologiche, apra la via verso una metamorfosi della soggettività. Naturalmente che cosa poi ne segua in concreto non è decidibile in partenza. Sappiamo che, per Gramsci, è cruciale il momento organizzativo, e che luogo-chiave dell’organizzazione del soggetto rivoluzionario è il partito comunista, al quale elettivamente le prime pagine del fondamentale quaderno 13 fanno riferimento allorché attribuiscono al «moderno Principe» il compito di farsi «banditore» e «organizzatore di una riforma intellettuale e morale», e motore di «un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna». 
Il partito deve, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia della classe operaia, la quale - non dimentichiamolo - deve «essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo». Quindi concepire sin d’ora germi della «nuova società». Costruire linguaggi, codici, forme di relazione e di vita, esperienze materiali e immateriali sottratti al dominio e liberati dallo sfruttamento.

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