Croce-Gentile, un dialogo in punta di penna prima del «grande freddo»
Epistolario. Pubblicato il primo volume del carteggio tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Una affresco sulla filosofia italiana negli anni che precedono il regime fascista, che vide i due teorici su fronti avversi
Stefania Miccolis, 27.8.2014 il Manifesto
Era il 27 giugno 1896 quando Benedetto Croce rispose al giovane Giovanni Gentile, studente universitario della Normale di Pisa, pieno di riconoscenza e garbo («Le porgo i miei migliori ringraziamenti pel dono cortese del suo studio sulle commedie del Lasca»). Gentile mostra un timore reverenziale nei confronti di colui che a trent’anni «godeva già di considerazione negli ambienti dell’erudizione», scrive Gennaro Sasso nella sua piacevole e rigorosa introduzione al carteggio fra i due filosofi pubblicato dalla casa editrice Aragno (euro 30). Da allora una fitta corrispondenza di «amicizia» e «collaborazione intellettuale» si prolungherà fino al 1924, anno durante il quale la frattura è inevitabile sia per divergenze politiche che filosofiche. Ciò provocherà «sconcerto e preoccupazione», perché sarebbe venuta a mancare quella discussione filosofica che aveva accompagnato i primi anni del Novecento ed era stata un punto di riferimento per molti studiosi: «Con la fine di quell’esperienza comune, era come se di colpo il paesaggio culturale italiano avesse mutato d’aspetto e, da quel momento in poi, orientarvisi fosse più difficile e faticoso», scrive sempre Sasso. L’epistolario (già curato, ma in volumi separati, da Simona Giannantoni e Alda Croce) è pubblicato in forma unitaria e integrale (è stata ricostruita l’esatta sequenza) in cinque tomi, con il coordinamentio di Cinzia Cassani, stretta collaboratrice dell’Istituto Croce, e Cecilia Castellani, ricercatrice all’archivio Gentile.
Gentile non mancherà in questi primi anni di utilizzare formule reverenziali — «Stimatissimo Signore», «Scusi il mio ardire e accetti i miei ringraziamenti» — e adopererà anche, nello scorrere del tempo, espressioni quasi di devozione come «vostro servitore», o: «La vostra amicizia sincera e il vostro grande affetto mi sono sufficiente compenso di tutti i torti che altri potrà farmi. E la vostra premurosa lettera di stamane mi ha confortato e sollevato l’animo». Croce a soli cinque mesi dalla prima lettera, nel novembre 1896 si rivolgerà a lui con una formula che manterrà sempre: «Egregio amico». E lo loderà, una volta letta la sua tesi di laurea su Rosmini e Gioberti (lettera 71, 18 ottobre 1898): «Una tesi di laurea che presenti simile maturità in ogni parte, è cosa che capita di rado! (…);e l’impressione totale è che voi potete ad libitum essere o uno storico forte o un forte pensatore».
Sin da questo primo volume, che va dal 1896 al 1900, il dibattito filosofico è fitto. Croce viene subito colpito dal giovane studioso e non esita a sottolinearlo nel febbraio 1897 (lettera 15): «la sua lettera mi ha destato sincera ammirazione, mostrandomi ch’Ella si è pienamente impossessata della questione del materialismo storico, ha digerito ed assorbito i libri del Labriola, e formula le obiezioni con una limpidità ed esattezza di espressione, veramente notevoli. E non ho niente da rettificare sul modo in cui Ella ha inteso ciò ch’io ho scritto sull’argomento». Quel Labriola che Croce sembra quasi tradire al cospetto delle intuizioni di Gentile, ma del quale, pur nelle divergenze di pensiero, avrà sempre grande rispetto (lettera 42, 1 gennaio 1898) «Ma io sono tanto riconoscente al Labriola per l’influenza salutare esercitata sui miei studii, ho imparato tanto da lui, che quasi non mi sono accorto per un pezzo delle divergenze». Sul materialismo storico (il 15 gennaio 1897, lettera 11) scriverà: «la divergenza tra me e il Labriola è grande rispetto alla forma scientifica, e quindi alla portata teorica della dottrina. Il Labriola, di cui faccio grandissima stima, è un ingegno poco schematico, e bisogna leggerlo tra le linee».
Ebbene Gentile aveva compreso che Labriola concepiva il materialismo storico come una «filosofia della storia», ma in maniera, a suo parere, non corretta, e incoerente, perché lo applicava al socialismo: «il materialismo storico si stacca assolutamente dal socialismo — 17 gennaio 1897, lettera 12 –, e questo ritorna un’altra volta all’utopia, donde Marx ed Engels procurarono di elevarla a dignità di scienza».
Ma Croce quasi a voler difendere il suo maestro nonostante creda al materialismo storico solo come metodo empirico per conoscere la realtà, nel marzo aprile 1897 (lettera 17), scriverà: «qualunque previsione dell’avvenire, qualunque programma di condotta politica, non può non essere più o meno un’utopia. (…) chi studia la storia moderna, chi esamina la società moderna, trova argomenti per crearsi una fede socialistica, e non li troverebbe per un’altra fede, liberale, assolutistica, teocratica, ecc. Ora che si abusa tanto della parola scienza, perché impedire ai socialisti di chiamare scientifica la loro concezione, che scientifica non è, ma pure si fonda su tanta osservazione della realtà?»
Il rigore perduto
Ci si perde nei loro discorsi e si è avvinti dalle loro discussioni e ci si stupisce da come alcuni pensieri incredibilmente si potrebbero trasferire al feroce dibattito politico attuale in Italia; Croce nel risollevare l’animo del giovane Gentile, con tutto il fervore di giovane studioso quale è anch’egli (lettera 206, 28 aprile 1900) dirà: «Voi avete ragione nel notare che nessuno in Italia vuole discutere questioni di filosofia. Dunque, c’è qualcosa da fare: svegliare le menti alla discussione. Ma non bisogna contare sui vecchi o sugli uomini maturi, cresciuti nell’odio alla filosofia ed ormai impotenti a comprenderla: non bisogna mettere il vino nuovo nelle botti vecchie. Bisogna contare sui giovani. Occorre preparare una nuova messe, dissodando il terreno e seminando; ed aver la pazienza di aspettare. Questa è la mia fede; e spero sia anche la vostra. Del resto, ridiamo, con la buona coscienza che essi non potranno ridere di noi: chi non capisce, s’arrabbia ma non ride!»
Aspettando i successivi volumi una cosa è certa e ce la scrive anche Natalino Irti presidente dell’Istituto Italiano per gli studi storici: ricomporre il carteggio Croce – Gentile «significa offrire alla vita spirituale d’Italia – in un oggi doloroso e incerto – un altissimo capitolo di pensiero, di dialogo filosofico, di onestà interiore». Ha ragione a dire che in esso vi è «una profonda lezione di serietà morale» e che «insegna il rigore e l’intransigenza del pensiero, che, nelle svolte più ardue e supreme, non può transigere con se stesso né cedere a comode mediazioni». Una chiave ermeneutica in cui leggere il carteggio, ed ha ragione Croce quando scrive (lettera 71, 18 ottobre 1898): «A me pare che la filosofia non possa se non recarci alla coscienza ciò ch’è il presupposto di ogni attività razionale dell’uomo, di ogni attività teoretica e pratica. Ciò la distingue dalla religione e dalla scienza; ma ciò anche la rende infeconda (o, ch’è lo stesso, universalmente feconda).Insomma, per me la filosofia si riduce a un: Memento, homo… Ricordati ciò che sei, e non pretendere di ritrovarti in ciò che non sei. Questa non è conoscenza, ma coscienza; e la filosofia ha valore contro gl’incoscienti, e i danni dell’incoscienza».
Croce e Gentile amici di penna«Mi dia consigli teorici». «E lei mi aiuti a trovare un impiego»di Ernesto Galli della Loggia Corriere 3.9.14
Aveva solo ventun anni Giovanni Gentile, nel 1896, quando si rivolse per la prima volta a Benedetto Croce, allora trentenne, per fargli omaggio di un suo estratto: ricevendone in risposta un caloroso biglietto di apprezzamento («La sua erudizione è sobria e calzante. Ella rifugge dalle generalità e le conclusioni cui giunge mi paiono esattissime»). Fu l’inizio di uno scambio epistolare a un dipresso trentennale, già pubblicato separatamente, del quale solo ora però vede la luce l’edizione unitaria per iniziativa dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici e la cura di Cinzia Cassani e Cecilia Castellani ( Benedetto Croce-Giovanni Gentile, Carteggio 1896-1900 , Nino Aragno editore, pp. 499, e 30).
Un volume che interessa chi scrive e probabilmente il pubblico colto in generale non tanto per i suoi contenuti di carattere filosofico — di cui personalmente sono digiuno e circa i quali rimando perciò alle lucide considerazioni che si leggono nell’introduzione di Gennaro Sasso — ma vuoi per la luce che le sue pagine gettano sulle due maggiori figure della cultura italiana della prima metà del Novecento, vuoi anche per ciò che indirettamente esse ci dicono circa il mondo culturale italiano di quella fine secolo, il modo d’essere dei suoi intellettuali.
Nonostante l’immediata e fortissima comunanza di interessi e di intenti che si stabilisce tra i due corrispondenti (già dopo pochissimo si rivolgono l’un all’altro con un «egregio amico»), subito però emerge dalle lettere anche la grande differenza tra le due personalità intellettuali così come tra i loro caratteri. Tra Gentile, dotato di una fortissima vocazione teoretica, incline sempre a un «intrepido “unizzare”» e pur con qualche cautela mai timido nel correggere e illuminare il suo più anziano e affermato interlocutore sul terreno della pura disamina filosofica; e Croce, attirato invece da interessi più ampi, che confessa come «da letterato mi vado avviando a diventare filosofo», disposto ad accettare consigli e critiche dall’altro sul terreno teoretico («Aiutatemi un po’ perché temo di errare»), e che appare assai più di lui legato a un istanza di realismo e a un prezioso buon senso.
Tra i due più che la differenza di età e di avanzamento negli studi si sente, e molto — intrecciata a questa — la differenza di condizione sociale. Croce infatti è un borghese agiato, può comprare i libri che gli servono, è abbonato a tutte le riviste che vuole, ha una vasta rete di relazioni importanti, può fare lunghe vacanze, se gli aggrada «una corsa a Venezia», ovvero andare «visitando pezzo a pezzo l’Italia meridionale» come semplice preparazione a una Storia dell’Italia meridionale che intende scrivere. Al contrario di Gentile, a cui è gran fortuna vincere una cattedra di filosofia in un liceo di Campobasso (in vista del quale s’indovinano dalle sue lettere graduatorie studiate e ristudiate, curricula spulciati riga per riga, strategie di trasferimenti, posti tenuti sotto osservazione per anni); Gentile che tira avanti facendo ripetizioni ed è costretto di continuo a chiedere all’altro volumi in prestito, indirizzi di studiosi stranieri, biglietti di presentazione per chiunque, raccomandazioni per quasi ogni cosa («oso sperare nelle vostre estese e alte aderenze»); indotto a cercarne l’aiuto perfino per «ottenere un impiego», «qualunque specie di impieghi», per un fratello semifallito (ricevendo dall’altro una scoraggiante quanto sempre attualissima risposta: «Napoli è un paese pienissimo di spostati… Il minimo posticino è spiato, e preso d’assalto da centinaia di concorrenti»). Croce arriverà perfino a far pubblicare a proprie spese un libro di Gentile.
S’intuisce infatti che è un’ Italia povera, molto povera, quella sul cui sfondo prende vita il carteggio Croce-Gentile. Dove la vita culturale si svolge tra continue ristrettezze, tra tirature limitatissime, dove viaggiare o acquistare un libro è un lusso. Ma dove tuttavia gli intellettuali parlano poco di politica, si direbbe: se è vero che nel biennio più agitato della storia italiana post risorgimentale il carteggio in questione — e tra due personalità simili! — non registra neppure il minimo accenno alle cannonate di Bava Beccaris o ai tentativi di fine secolo di mettere il morso al Parlamento. Forse — si potrebbe fantasticare — quasi l’inconsapevole premonizione che proprio la politica era destinata a spezzare quell’amicizia che allora nasceva, e che a lungo sarebbe apparsa inscalfibile
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