sabato 19 aprile 2014

Riunito il carteggio tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile


Croce-Gentile, un dialogo in punta di penna prima del «grande freddo»
Epistolario. Pubblicato il primo volume del carteggio tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Una affresco sulla filosofia italiana negli anni che precedono il regime fascista, che vide i due teorici su fronti avversi
Stefania Miccolis, 27.8.2014 il Manifesto

Era il 27 giu­gno 1896 quando Bene­detto Croce rispose al gio­vane Gio­vanni Gen­tile, stu­dente uni­ver­si­ta­rio della Nor­male di Pisa, pieno di rico­no­scenza e garbo («Le porgo i miei migliori rin­gra­zia­menti pel dono cor­tese del suo stu­dio sulle com­me­die del Lasca»). Gen­tile mostra un timore reve­ren­ziale nei con­fronti di colui che a trent’anni «godeva già di con­si­de­ra­zione negli ambienti dell’erudizione», scrive Gen­naro Sasso nella sua pia­ce­vole e rigo­rosa intro­du­zione al car­teg­gio fra i due filo­sofi pub­bli­cato dalla casa edi­trice Ara­gno (euro 30). Da allora una fitta cor­ri­spon­denza di «ami­ci­zia» e «col­la­bo­ra­zione intel­let­tuale» si pro­lun­gherà fino al 1924, anno durante il quale la frat­tura è ine­vi­ta­bile sia per diver­genze poli­ti­che che filo­so­fi­che. Ciò pro­vo­cherà «scon­certo e pre­oc­cu­pa­zione», per­ché sarebbe venuta a man­care quella discus­sione filo­so­fica che aveva accom­pa­gnato i primi anni del Nove­cento ed era stata un punto di rife­ri­mento per molti stu­diosi: «Con la fine di quell’esperienza comune, era come se di colpo il pae­sag­gio cul­tu­rale ita­liano avesse mutato d’aspetto e, da quel momento in poi, orien­tar­visi fosse più dif­fi­cile e fati­coso», scrive sem­pre Sasso. L’epistolario (già curato, ma in volumi sepa­rati, da Simona Gian­nan­toni e Alda Croce) è pub­bli­cato in forma uni­ta­ria e inte­grale (è stata rico­struita l’esatta sequenza) in cin­que tomi, con il coor­di­na­men­tio di Cin­zia Cas­sani, stretta col­la­bo­ra­trice dell’Istituto Croce, e Ceci­lia Castel­lani, ricer­ca­trice all’archivio Gentile.
 
Tra elogi e deferenza
Gen­tile non man­cherà in que­sti primi anni di uti­liz­zare for­mule reve­ren­ziali — «Sti­ma­tis­simo Signore», «Scusi il mio ardire e accetti i miei rin­gra­zia­menti» — e ado­pe­rerà anche, nello scor­rere del tempo, espres­sioni quasi di devo­zione come «vostro ser­vi­tore», o: «La vostra ami­ci­zia sin­cera e il vostro grande affetto mi sono suf­fi­ciente com­penso di tutti i torti che altri potrà farmi. E la vostra pre­mu­rosa let­tera di sta­mane mi ha con­for­tato e sol­le­vato l’animo». Croce a soli cin­que mesi dalla prima let­tera, nel novem­bre 1896 si rivol­gerà a lui con una for­mula che man­terrà sem­pre: «Egre­gio amico». E lo loderà, una volta letta la sua tesi di lau­rea su Rosmini e Gio­berti (let­tera 71, 18 otto­bre 1898): «Una tesi di lau­rea che pre­senti simile matu­rità in ogni parte, è cosa che capita di rado! (…);e l’impressione totale è che voi potete ad libi­tum essere o uno sto­rico forte o un forte pen­sa­tore».
Sin da que­sto primo volume, che va dal 1896 al 1900, il dibat­tito filo­so­fico è fitto. Croce viene subito col­pito dal gio­vane stu­dioso e non esita a sot­to­li­nearlo nel feb­braio 1897 (let­tera 15): «la sua let­tera mi ha destato sin­cera ammi­ra­zione, mostran­domi ch’Ella si è pie­na­mente impos­ses­sata della que­stione del mate­ria­li­smo sto­rico, ha dige­rito ed assor­bito i libri del Labriola, e for­mula le obie­zioni con una lim­pi­dità ed esat­tezza di espres­sione, vera­mente note­voli. E non ho niente da ret­ti­fi­care sul modo in cui Ella ha inteso ciò ch’io ho scritto sull’argomento». Quel Labriola che Croce sem­bra quasi tra­dire al cospetto delle intui­zioni di Gen­tile, ma del quale, pur nelle diver­genze di pen­siero, avrà sem­pre grande rispetto (let­tera 42, 1 gen­naio 1898) «Ma io sono tanto rico­no­scente al Labriola per l’influenza salu­tare eser­ci­tata sui miei stu­dii, ho impa­rato tanto da lui, che quasi non mi sono accorto per un pezzo delle diver­genze». Sul mate­ria­li­smo sto­rico (il 15 gen­naio 1897, let­tera 11) scri­verà: «la diver­genza tra me e il Labriola è grande rispetto alla forma scien­ti­fica, e quindi alla por­tata teo­rica della dot­trina. Il Labriola, di cui fac­cio gran­dis­sima stima, è un inge­gno poco sche­ma­tico, e biso­gna leg­gerlo tra le linee».
Ebbene Gen­tile aveva com­preso che Labriola con­ce­piva il mate­ria­li­smo sto­rico come una «filo­so­fia della sto­ria», ma in maniera, a suo parere, non cor­retta, e incoe­rente, per­ché lo appli­cava al socia­li­smo: «il mate­ria­li­smo sto­rico si stacca asso­lu­ta­mente dal socia­li­smo — 17 gen­naio 1897, let­tera 12 –, e que­sto ritorna un’altra volta all’uto­pia, donde Marx ed Engels pro­cu­ra­rono di ele­varla a dignità di scienza».
Ma Croce quasi a voler difen­dere il suo mae­stro nono­stante creda al mate­ria­li­smo sto­rico solo come metodo empi­rico per cono­scere la realtà, nel marzo aprile 1897 (let­tera 17), scri­verà: «qua­lun­que pre­vi­sione dell’avvenire, qua­lun­que pro­gramma di con­dotta poli­tica, non può non essere più o meno un’utopia. (…) chi stu­dia la sto­ria moderna, chi esa­mina la società moderna, trova argo­menti per crearsi una fede socia­li­stica, e non li tro­ve­rebbe per un’altra fede, libe­rale, asso­lu­ti­stica, teo­cra­tica, ecc. Ora che si abusa tanto della parola scienza, per­ché impe­dire ai socia­li­sti di chia­mare scien­ti­fica la loro con­ce­zione, che scien­ti­fica non è, ma pure si fonda su tanta osser­va­zione della realtà?»

Il rigore perduto
Ci si perde nei loro discorsi e si è avvinti dalle loro discus­sioni e ci si stu­pi­sce da come alcuni pen­sieri incre­di­bil­mente si potreb­bero tra­sfe­rire al feroce dibat­tito poli­tico attuale in Ita­lia; Croce nel risol­le­vare l’animo del gio­vane Gen­tile, con tutto il fer­vore di gio­vane stu­dioso quale è anch’egli (let­tera 206, 28 aprile 1900) dirà: «Voi avete ragione nel notare che nes­suno in Ita­lia vuole discu­tere que­stioni di filo­so­fia. Dun­que, c’è qual­cosa da fare: sve­gliare le menti alla discus­sione. Ma non biso­gna con­tare sui vec­chi o sugli uomini maturi, cre­sciuti nell’odio alla filo­so­fia ed ormai impo­tenti a com­pren­derla: non biso­gna met­tere il vino nuovo nelle botti vec­chie. Biso­gna con­tare sui gio­vani. Occorre pre­pa­rare una nuova messe, dis­so­dando il ter­reno e semi­nando; ed aver la pazienza di aspet­tare. Que­sta è la mia fede; e spero sia anche la vostra. Del resto, ridiamo, con la buona coscienza che essi non potranno ridere di noi: chi non capi­sce, s’arrabbia ma non ride!»
Aspet­tando i suc­ces­sivi volumi una cosa è certa e ce la scrive anche Nata­lino Irti pre­si­dente dell’Istituto Ita­liano per gli studi sto­rici: ricom­porre il car­teg­gio Croce – Gen­tile «signi­fica offrire alla vita spi­ri­tuale d’Italia – in un oggi dolo­roso e incerto – un altis­simo capi­tolo di pen­siero, di dia­logo filo­so­fico, di one­stà inte­riore». Ha ragione a dire che in esso vi è «una pro­fonda lezione di serietà morale» e che «inse­gna il rigore e l’intransigenza del pen­siero, che, nelle svolte più ardue e supreme, non può tran­si­gere con se stesso né cedere a comode media­zioni». Una chiave erme­neu­tica in cui leg­gere il car­teg­gio, ed ha ragione Croce quando scrive (let­tera 71, 18 otto­bre 1898): «A me pare che la filo­so­fia non possa se non recarci alla coscienza ciò ch’è il pre­sup­po­sto di ogni atti­vità razio­nale dell’uomo, di ogni atti­vità teo­re­tica e pra­tica. Ciò la distin­gue dalla reli­gione e dalla scienza; ma ciò anche la rende infe­conda (o, ch’è lo stesso, uni­ver­sal­mente feconda).Insomma, per me la filo­so­fia si riduce a un: Memento, homo… Ricor­dati ciò che sei, e non pre­ten­dere di ritro­varti in ciò che non sei. Que­sta non è cono­scenza, ma coscienza; e la filo­so­fia ha valore con­tro gl’incoscienti, e i danni dell’incoscienza».



Croce e Gentile amici di penna«Mi dia consigli teorici». «E lei mi aiuti a trovare un impiego»di Ernesto Galli della Loggia Corriere 3.9.14

Aveva solo ventun anni Giovanni Gentile, nel 1896, quando si rivolse per la prima volta a Benedetto Croce, allora trentenne, per fargli omaggio di un suo estratto: ricevendone in risposta un caloroso biglietto di apprezzamento («La sua erudizione è sobria e calzante. Ella rifugge dalle generalità e le conclusioni cui giunge mi paiono esattissime»). Fu l’inizio di uno scambio epistolare a un dipresso trentennale, già pubblicato separatamente, del quale solo ora però vede la luce l’edizione unitaria per iniziativa dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici e la cura di Cinzia Cassani e Cecilia Castellani ( Benedetto Croce-Giovanni Gentile, Carteggio 1896-1900 , Nino Aragno editore, pp. 499, e 30).
Un volume che interessa chi scrive e probabilmente il pubblico colto in generale non tanto per i suoi contenuti di carattere filosofico — di cui personalmente sono digiuno e circa i quali rimando perciò alle lucide considerazioni che si leggono nell’introduzione di Gennaro Sasso — ma vuoi per la luce che le sue pagine gettano sulle due maggiori figure della cultura italiana della prima metà del Novecento, vuoi anche per ciò che indirettamente esse ci dicono circa il mondo culturale italiano di quella fine secolo, il modo d’essere dei suoi intellettuali.
Nonostante l’immediata e fortissima comunanza di interessi e di intenti che si stabilisce tra i due corrispondenti (già dopo pochissimo si rivolgono l’un all’altro con un «egregio amico»), subito però emerge dalle lettere anche la grande differenza tra le due personalità intellettuali così come tra i loro caratteri. Tra Gentile, dotato di una fortissima vocazione teoretica, incline sempre a un «intrepido “unizzare”» e pur con qualche cautela mai timido nel correggere e illuminare il suo più anziano e affermato interlocutore sul terreno della pura disamina filosofica; e Croce, attirato invece da interessi più ampi, che confessa come «da letterato mi vado avviando a diventare filosofo», disposto ad accettare consigli e critiche dall’altro sul terreno teoretico («Aiutatemi un po’ perché temo di errare»), e che appare assai più di lui legato a un istanza di realismo e a un prezioso buon senso.
Tra i due più che la differenza di età e di avanzamento negli studi si sente, e molto — intrecciata a questa — la differenza di condizione sociale. Croce infatti è un borghese agiato, può comprare i libri che gli servono, è abbonato a tutte le riviste che vuole, ha una vasta rete di relazioni importanti, può fare lunghe vacanze, se gli aggrada «una corsa a Venezia», ovvero andare «visitando pezzo a pezzo l’Italia meridionale» come semplice preparazione a una Storia dell’Italia meridionale che intende scrivere. Al contrario di Gentile, a cui è gran fortuna vincere una cattedra di filosofia in un liceo di Campobasso (in vista del quale s’indovinano dalle sue lettere graduatorie studiate e ristudiate, curricula spulciati riga per riga, strategie di trasferimenti, posti tenuti sotto osservazione per anni); Gentile che tira avanti facendo ripetizioni ed è costretto di continuo a chiedere all’altro volumi in prestito, indirizzi di studiosi stranieri, biglietti di presentazione per chiunque, raccomandazioni per quasi ogni cosa («oso sperare nelle vostre estese e alte aderenze»); indotto a cercarne l’aiuto perfino per «ottenere un impiego», «qualunque specie di impieghi», per un fratello semifallito (ricevendo dall’altro una scoraggiante quanto sempre attualissima risposta: «Napoli è un paese pienissimo di spostati… Il minimo posticino è spiato, e preso d’assalto da centinaia di concorrenti»). Croce arriverà perfino a far pubblicare a proprie spese un libro di Gentile.
S’intuisce infatti che è un’ Italia povera, molto povera, quella sul cui sfondo prende vita il carteggio Croce-Gentile. Dove la vita culturale si svolge tra continue ristrettezze, tra tirature limitatissime, dove viaggiare o acquistare un libro è un lusso. Ma dove tuttavia gli intellettuali parlano poco di politica, si direbbe: se è vero che nel biennio più agitato della storia italiana post risorgimentale il carteggio in questione — e tra due personalità simili! — non registra neppure il minimo accenno alle cannonate di Bava Beccaris o ai tentativi di fine secolo di mettere il morso al Parlamento. Forse — si potrebbe fantasticare — quasi l’inconsapevole premonizione che proprio la politica era destinata a spezzare quell’amicizia che allora nasceva, e che a lungo sarebbe apparsa inscalfibile

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