Ormai è andata. Sarà per un'altra vita, ovvero sarà per la vita di nuove generazioni [SGA].
Claudia Mancina: Berlinguer in questione, Laterza
L’eredità di Berlinguer e la superiorità etica nella sfida Renzi-Grillo
di Fabio Martini La Stampa 25.4.14
Beppe Grillo se lo è annesso e Matteo Renzi gli ha risposto che prima di parlare di Enrico Berlinguer «dovrebbe sciacquarsi la bocca»: una diatriba in gran parte comprensibile se si pensa che il leader comunista resta un’icona nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica di sinistra. Icona rinfrescata dal recente anniversario dei trenta anni dalla morte di Berlinguer, occasione per celebrazioni in gran parte acritiche, se non agiografiche, a cominciare dal film di Walter Veltroni, che peraltro ha ottenuto un buon risultato al botteghino, ottimo per un documentario.
Un mito che però già qualche anno è stato rivisitato con accenti fortemente critici proprio da parte di studiosi di cultura comunista, che hanno rimproverato all’ultimo Berlinguer una responsabilità politica rilevante. Quella di aver trasformato la sacrosanta denuncia della questione morale in qualcosa di ben diverso: l’affermazione di una presunta diversità e superiorità morale dei comunisti, non soltanto rispetto agli avversari politici ma anche rispetto ai loro elettori. Una presunzione di superiorità rivendicata, in forme diverse, dai tanti eredi di Berlinguer, la generazione di D’Alema, Occhetto, Veltroni e Bersani.
Ma ora quel processo di rivisitazione storica ha trovato una sistemazione critica in un saggio scritto da Claudia Mancina, «Berlinguer in questione», pubblicato dall’editore Laterza. Docente di Etica alla Sapienza di Roma, Mancina (che fa parte della Direzione del Pd), racconta come Berlinguer sia stato un «leader carismatico, dotato di un’autorità oggi impensabile» e che fu un capo diverso dai suoi predecessori nel Pci perché «capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe votato comunista». Dopo la vittoria elettorale del 1976, Berlinguer realizzò un accordo con la Dc, un accordo che nella concezione del compromesso storico, non immaginava come «transitorio», ma invece «organico», facendo leva su una impossibile «terza via», incarnata da un eurocomunismo «anticapitalistico e democratico».
Il governo della solidarietà nazionale però finisce male, la base comunista non lo digerisce e per giustificare un drastico cambio di linea politica, Berlinguer «scarta sull’etica»: punta sull’«austerità» come lotta «all’individualismo e al consumismo», in una «assurda demonizzazione» di consumi elementari che avevano indotto il «severo Giorgio Amendola» a vedere nella Seicento, nella lavatrice e nel frigorifero «gli emblemi della espansione monopolistica». E nel 1981, «provando a spezzare un doppio isolamento, nel partito e nel sistema politico», Berlinguer indica come prioritaria la «questione morale», affermando la «diversità» dei comunisti, ma così ignorando che quella stortura non era una «degenerazione», ma un «problema strutturale del sistema politico», dal quale non può essere indenne nessun partito, come dimostreranno gli anni successivi. Scrive Mancina: «La drammatica morte sul palco di un comizio salvò Berlinguer da un triste declino e lo consegnò al mito», anche se la generazione successiva, da Occhetto a Bersani, «ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato all’azione politica». Claudia Mancina ha ripreso una lunga elaborazione critica alla quale hanno dato il loro contributo intellettuali (Silvio Pons, Miriam Mafai, Andrea Romano) e politici (Iginio Ariemma, Piero Fassino, Antonio Funiciello), un solco che per ora non ha fatto breccia neppure nel Pd di Matteo Renzi, che di Berlinguer in queste ore ha rivendicato il lascito universale (la denuncia della questione morale), per ora glissando sull’eredità più controversa, quella della superiorità etica della sinistra.
Beppe Grillo se lo è annesso e Matteo Renzi gli ha risposto che prima di parlare di Enrico Berlinguer «dovrebbe sciacquarsi la bocca»: una diatriba in gran parte comprensibile se si pensa che il leader comunista resta un’icona nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica di sinistra. Icona rinfrescata dal recente anniversario dei trenta anni dalla morte di Berlinguer, occasione per celebrazioni in gran parte acritiche, se non agiografiche, a cominciare dal film di Walter Veltroni, che peraltro ha ottenuto un buon risultato al botteghino, ottimo per un documentario.
Un mito che però già qualche anno è stato rivisitato con accenti fortemente critici proprio da parte di studiosi di cultura comunista, che hanno rimproverato all’ultimo Berlinguer una responsabilità politica rilevante. Quella di aver trasformato la sacrosanta denuncia della questione morale in qualcosa di ben diverso: l’affermazione di una presunta diversità e superiorità morale dei comunisti, non soltanto rispetto agli avversari politici ma anche rispetto ai loro elettori. Una presunzione di superiorità rivendicata, in forme diverse, dai tanti eredi di Berlinguer, la generazione di D’Alema, Occhetto, Veltroni e Bersani.
Ma ora quel processo di rivisitazione storica ha trovato una sistemazione critica in un saggio scritto da Claudia Mancina, «Berlinguer in questione», pubblicato dall’editore Laterza. Docente di Etica alla Sapienza di Roma, Mancina (che fa parte della Direzione del Pd), racconta come Berlinguer sia stato un «leader carismatico, dotato di un’autorità oggi impensabile» e che fu un capo diverso dai suoi predecessori nel Pci perché «capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe votato comunista». Dopo la vittoria elettorale del 1976, Berlinguer realizzò un accordo con la Dc, un accordo che nella concezione del compromesso storico, non immaginava come «transitorio», ma invece «organico», facendo leva su una impossibile «terza via», incarnata da un eurocomunismo «anticapitalistico e democratico».
Il governo della solidarietà nazionale però finisce male, la base comunista non lo digerisce e per giustificare un drastico cambio di linea politica, Berlinguer «scarta sull’etica»: punta sull’«austerità» come lotta «all’individualismo e al consumismo», in una «assurda demonizzazione» di consumi elementari che avevano indotto il «severo Giorgio Amendola» a vedere nella Seicento, nella lavatrice e nel frigorifero «gli emblemi della espansione monopolistica». E nel 1981, «provando a spezzare un doppio isolamento, nel partito e nel sistema politico», Berlinguer indica come prioritaria la «questione morale», affermando la «diversità» dei comunisti, ma così ignorando che quella stortura non era una «degenerazione», ma un «problema strutturale del sistema politico», dal quale non può essere indenne nessun partito, come dimostreranno gli anni successivi. Scrive Mancina: «La drammatica morte sul palco di un comizio salvò Berlinguer da un triste declino e lo consegnò al mito», anche se la generazione successiva, da Occhetto a Bersani, «ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato all’azione politica». Claudia Mancina ha ripreso una lunga elaborazione critica alla quale hanno dato il loro contributo intellettuali (Silvio Pons, Miriam Mafai, Andrea Romano) e politici (Iginio Ariemma, Piero Fassino, Antonio Funiciello), un solco che per ora non ha fatto breccia neppure nel Pd di Matteo Renzi, che di Berlinguer in queste ore ha rivendicato il lascito universale (la denuncia della questione morale), per ora glissando sull’eredità più controversa, quella della superiorità etica della sinistra.
Un j’accuse contro Berlinguer
Saggi. Un leader antimoderno, ostile alle riforme. Una tesi già nota riproposta senza nessuna novità di rilievo. «Berlinguer in questione» di Claudia Mancina per Laterza
Paolo Favilli, 15.7.2014 il Manifesto
Mi sono avvicinato con curiosità ed interesse a questo libretto di Claudia Mancina (Berlinguer in questione, Laterza, pp. 140, euro 12) per due motivi. Innanzitutto perché, tenuto conto dell’iter politico dell’autrice, la sua dichiara avversione politica per Berlinguer mi pareva intellettualmente più onesta della mistificazione agiografica di coloro che, lontanissimi, anzi opposti, rispetto alla cultura ed alle prospettive berlingueriane, commemorano oggi l’immagine consolatoria della loro perduta giovinezza. Di coloro che, tramite la costruzione di una sacra icona, tentano di dare onorabilità ad una delle storie più comuni e consunte della vita politica: rivoluzionari da giovani, cinici conservatori, soprattutto di loro stessi, da vecchi.
In secondo luogo perché l’autrice è studiosa di filosofia e quindi restavo convinto che la sua critica fosse argomentata, a più di un ventennio dalla fine del Pci, sulla base di una tessitura analitica non banale.
Invece mi sono ritrovato di fronte allo stesso libro che una giornalista, Miriam Mafai, scrisse nel 1996: Dimenticare Berlinguer. A parte qualche differenza interpretativa su aspetti contingenti, le tesi di fondo sono le stesse: Berlinguer antimoderno come Pasolini; Berlinguer comunista identitario culturalmente irriformabile. L’antimodernità «antropologica» si riflette sulla sua concezione della democrazia e della funzionalità delle istituzioni. Craxi aveva posto il vero problema della modernizzazione istituzionale. Certo la commistione tra affari e politica finì per impedire la «grande riforma», tuttavia egli era il vero interprete, a sinistra, della modernità.
Tutte cose che la giornalista Mafai argomenta alla metà degli anni Novanta quando ormai Berlinguer, come sottolinea molte volte, è «sempre più lontano», sostanzialmente «dimenticato» dal Pds. Un Pds bipolarista, a favore del superamento dell’assemblearismo costituzionale e del tutto estraneo a qualsiasi declinazione delle teorie critiche del capitalismo (ancora Mafai). Non c’era alcun bisogno di aspettare Renzi per avere la rivelazione del riformismo rovesciato.
Tesi della Mafai ed ora della Mancina che chi scrive questa nota non condivide; ma non è questo il punto. Il punto è che quasi vent’anni dopo tali tesi vengono riproposte in assenza di riflessione sulle categorie analitiche usate e senza tener conto degli esiti storico-politici cui siamo giunti nel momento attuale.
È vero che l’autrice dice esplicitamente di non aver voluto fare un «saggio storico», bensì una «riflessione senza rete»; ma una riflessione di 112 pagine in assenza di «storia» e di «filosofia» non è altro che un polemico articolo di giornale ripetitivo e artificiosamente dilatato.
Berlinguer e la modernità; Berlinguer e l’identità comunista; Berlinguer e la democrazia; Berlinguer e il marxismo: sono le scansioni principali cui Mancina sottopone le inadeguatezze di quello che considera l’ultimo «vero» segretario del Pci.
«Modernità», «identità comunista» (od anche socialdemocratica), «democrazia», «marxismo» sono insiemi concettuali e realtà storiche assai complesse e soprattutto, proprio in quanto storiche, in continua trasformazione. Nelle pagine della Mancina, invece, assumono la funzione rigida di pietre di paragone su cui misurare adeguatezza o inadeguatezza tanto della elaborazione culturale che della pratica politica di Enrico Berlinguer. Non categorie analitiche problematiche da maneggiare con cura e cautela, bensì compiute griglie fattuali, veri letti di Procuste.
Su tale letto, ad esempio (se ne potrebbero fare tantissimi), Mancina misura uno dei molti aspetti nefasti di un’eredità che nonostante tutto, ancora «condiziona» la sinistra italiana. Il condizionamento è il frutto della «incapacità di fare i conti con l’ombra di Berlinguer». (Si aggira un nuovo «spettro»?) L’ «ombra di Berlinguer», dunque, ha ancora a che fare con il «tabù della costituzione». Ha a che fare con «la convinzione che essere democratici comporti essere fedeli alla Costituzione, a qualunque costo. Anche a costo di rinunciare a un miglior funzionamento della nostra democrazia».
Sono ormai alcuni lustri che esiste una letteratura, spesso di altissimo livello, sulla «crisi della democrazia» a partire dal momento dell’ «inversione della direzione», come direbbe Walter Benjamin. A partire, cioè, dalla fine di quelli che sono stati chiamati «gli anni dell’oro». Ebbene di una problematica di tale rilievo non c’è nessuna traccia nelle pagine della Mancina che pensa di aver trovato l’essenza del rapporto tra Berlinguer e la democrazia nell’affermazione del segretario del Pci relativa al fatto che una profonda trasformazione della società italiana non sarebba stata possibile con un governo del 51%.
Per ognuno dei punti indicati, «modernità», «identità», ecc. si potrebbero fare analoghe constatazioni. Del resto basta scorrere la «Bibliografia» per verificare l’assenza di ogni riferimento a dimensioni analitiche fondamentali per qualsiasi «riflessione». È possibile una «riflessione», in particolare da parte di studiosi professionali, in assenza di categorie storiche e teoriche capaci di «vedere di più»?
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