lunedì 26 maggio 2014

E' morto Enrico Berlinguer

Berlinguer in questione
E' morto non tanto con questo libro di Claudia Mancina, che comunque pare sancire la pace tra la tradizione piccista rassegnata e il nuovo che ci avanza, né con numerosi libri di analogo significato pubblicati di recente. E morto decisamente di più con la vittoria schiacciante di Matteo Renzi contro i suoi avversari politici all'esterno e soprattutto all'interno del suo partito.
Berlinguer, che a mio avviso ha fatto tanti errori, meritava un'uscita di scena migliore e comunque verso sinistra.
Ormai è andata. Sarà per un'altra vita, ovvero sarà per la vita di nuove generazioni [SGA].

Claudia Mancina: Berlinguer in questione, Laterza

Risvolto
L’idea che il maggiore partito di sinistra non possa arrivare a governare da solo, ma debba allearsi a un altro grande partito popolare. Il partito presentato come eccezionale e diverso rispetto a qualunque altro partito della sinistra europea e mondiale. Il tabù della modifica della Costituzione. La polemica contro il consumismo e la modernità. Sono questi alcuni dei tratti della politica di Enrico Berlinguer. Un’eredità che ancora oggi pesa sulla sinistra italiana e sulle difficoltà che incontra nel definire se stessa e un partito pienamente nuovo. A trent’anni dalla morte, il bilancio fuori dal mito e dalla nostalgia di ciò che il carismatico segretario del Pci ha lasciato dietro di sé getta una luce completamente nuova sulla contraddittoria esperienza della sinistra postcomunista in Italia.


Galli della Loggia 124 26-05-2014 corriere della sera 37


L’eredità di Berlinguer e la superiorità etica nella sfida Renzi-Grillo
di Fabio Martini La Stampa 25.4.14

Beppe Grillo se lo è annesso e Matteo Renzi gli ha risposto che prima di parlare di Enrico Berlinguer «dovrebbe sciacquarsi la bocca»: una diatriba in gran parte comprensibile se si pensa che il leader comunista resta un’icona nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica di sinistra. Icona rinfrescata dal recente anniversario dei trenta anni dalla morte di Berlinguer, occasione per celebrazioni in gran parte acritiche, se non agiografiche, a cominciare dal film di Walter Veltroni, che peraltro ha ottenuto un buon risultato al botteghino, ottimo per un documentario.
Un mito che però già qualche anno è stato rivisitato con accenti fortemente critici proprio da parte di studiosi di cultura comunista, che hanno rimproverato all’ultimo Berlinguer una responsabilità politica rilevante. Quella di aver trasformato la sacrosanta denuncia della questione morale in qualcosa di ben diverso: l’affermazione di una presunta diversità e superiorità morale dei comunisti, non soltanto rispetto agli avversari politici ma anche rispetto ai loro elettori. Una presunzione di superiorità rivendicata, in forme diverse, dai tanti eredi di Berlinguer, la generazione di D’Alema, Occhetto, Veltroni e Bersani.
Ma ora quel processo di rivisitazione storica ha trovato una sistemazione critica in un saggio scritto da Claudia Mancina, «Berlinguer in questione», pubblicato dall’editore Laterza. Docente di Etica alla Sapienza di Roma, Mancina (che fa parte della Direzione del Pd), racconta come Berlinguer sia stato un «leader carismatico, dotato di un’autorità oggi impensabile» e che fu un capo diverso dai suoi predecessori nel Pci perché «capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe votato comunista». Dopo la vittoria elettorale del 1976, Berlinguer realizzò un accordo con la Dc, un accordo che nella concezione del compromesso storico, non immaginava come «transitorio», ma invece «organico», facendo leva su una impossibile «terza via», incarnata da un eurocomunismo «anticapitalistico e democratico».
Il governo della solidarietà nazionale però finisce male, la base comunista non lo digerisce e per giustificare un drastico cambio di linea politica, Berlinguer «scarta sull’etica»: punta sull’«austerità» come lotta «all’individualismo e al consumismo», in una «assurda demonizzazione» di consumi elementari che avevano indotto il «severo Giorgio Amendola» a vedere nella Seicento, nella lavatrice e nel frigorifero «gli emblemi della espansione monopolistica». E nel 1981, «provando a spezzare un doppio isolamento, nel partito e nel sistema politico», Berlinguer indica come prioritaria la «questione morale», affermando la «diversità» dei comunisti, ma così ignorando che quella stortura non era una «degenerazione», ma un «problema strutturale del sistema politico», dal quale non può essere indenne nessun partito, come dimostreranno gli anni successivi. Scrive Mancina: «La drammatica morte sul palco di un comizio salvò Berlinguer da un triste declino e lo consegnò al mito», anche se la generazione successiva, da Occhetto a Bersani, «ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato all’azione politica». Claudia Mancina ha ripreso una lunga elaborazione critica alla quale hanno dato il loro contributo intellettuali (Silvio Pons, Miriam Mafai, Andrea Romano) e politici (Iginio Ariemma, Piero Fassino, Antonio Funiciello), un solco che per ora non ha fatto breccia neppure nel Pd di Matteo Renzi, che di Berlinguer in queste ore ha rivendicato il lascito universale (la denuncia della questione morale), per ora glissando sull’eredità più controversa, quella della superiorità etica della sinistra.
Beppe Grillo se lo è annesso e Matteo Renzi gli ha risposto che prima di parlare di Enrico Berlinguer «dovrebbe sciacquarsi la bocca»: una diatriba in gran parte comprensibile se si pensa che il leader comunista resta un’icona nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica di sinistra. Icona rinfrescata dal recente anniversario dei trenta anni dalla morte di Berlinguer, occasione per celebrazioni in gran parte acritiche, se non agiografiche, a cominciare dal film di Walter Veltroni, che peraltro ha ottenuto un buon risultato al botteghino, ottimo per un documentario.
Un mito che però già qualche anno è stato rivisitato con accenti fortemente critici proprio da parte di studiosi di cultura comunista, che hanno rimproverato all’ultimo Berlinguer una responsabilità politica rilevante. Quella di aver trasformato la sacrosanta denuncia della questione morale in qualcosa di ben diverso: l’affermazione di una presunta diversità e superiorità morale dei comunisti, non soltanto rispetto agli avversari politici ma anche rispetto ai loro elettori. Una presunzione di superiorità rivendicata, in forme diverse, dai tanti eredi di Berlinguer, la generazione di D’Alema, Occhetto, Veltroni e Bersani.
Ma ora quel processo di rivisitazione storica ha trovato una sistemazione critica in un saggio scritto da Claudia Mancina, «Berlinguer in questione», pubblicato dall’editore Laterza. Docente di Etica alla Sapienza di Roma, Mancina (che fa parte della Direzione del Pd), racconta come Berlinguer sia stato un «leader carismatico, dotato di un’autorità oggi impensabile» e che fu un capo diverso dai suoi predecessori nel Pci perché «capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe votato comunista». Dopo la vittoria elettorale del 1976, Berlinguer realizzò un accordo con la Dc, un accordo che nella concezione del compromesso storico, non immaginava come «transitorio», ma invece «organico», facendo leva su una impossibile «terza via», incarnata da un eurocomunismo «anticapitalistico e democratico».
Il governo della solidarietà nazionale però finisce male, la base comunista non lo digerisce e per giustificare un drastico cambio di linea politica, Berlinguer «scarta sull’etica»: punta sull’«austerità» come lotta «all’individualismo e al consumismo», in una «assurda demonizzazione» di consumi elementari che avevano indotto il «severo Giorgio Amendola» a vedere nella Seicento, nella lavatrice e nel frigorifero «gli emblemi della espansione monopolistica». E nel 1981, «provando a spezzare un doppio isolamento, nel partito e nel sistema politico», Berlinguer indica come prioritaria la «questione morale», affermando la «diversità» dei comunisti, ma così ignorando che quella stortura non era una «degenerazione», ma un «problema strutturale del sistema politico», dal quale non può essere indenne nessun partito, come dimostreranno gli anni successivi. Scrive Mancina: «La drammatica morte sul palco di un comizio salvò Berlinguer da un triste declino e lo consegnò al mito», anche se la generazione successiva, da Occhetto a Bersani, «ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato all’azione politica». Claudia Mancina ha ripreso una lunga elaborazione critica alla quale hanno dato il loro contributo intellettuali (Silvio Pons, Miriam Mafai, Andrea Romano) e politici (Iginio Ariemma, Piero Fassino, Antonio Funiciello), un solco che per ora non ha fatto breccia neppure nel Pd di Matteo Renzi, che di Berlinguer in queste ore ha rivendicato il lascito universale (la denuncia della questione morale), per ora glissando sull’eredità più controversa, quella della superiorità etica della sinistra.

 

Un j’accuse contro Berlinguer
Saggi. Un leader antimoderno, ostile alle riforme. Una tesi già nota riproposta senza nessuna novità di rilievo. «Berlinguer in questione» di Claudia Mancina per Laterza
 Paolo Favilli, 15.7.2014 il Manifesto
Mi sono avvi­ci­nato con curio­sità ed inte­resse a que­sto libretto di Clau­dia Man­cina (Ber­lin­guer in que­stione, Laterza, pp. 140, euro 12) per due motivi. Innan­zi­tutto per­ché, tenuto conto dell’iter poli­tico dell’autrice, la sua dichiara avver­sione poli­tica per Ber­lin­guer mi pareva intel­let­tual­mente più one­sta della misti­fi­ca­zione agio­gra­fica di coloro che, lon­ta­nis­simi, anzi oppo­sti, rispetto alla cul­tura ed alle pro­spet­tive ber­lin­gue­riane, com­me­mo­rano oggi l’immagine con­so­la­to­ria della loro per­duta gio­vi­nezza. Di coloro che, tra­mite la costru­zione di una sacra icona, ten­tano di dare ono­ra­bi­lità ad una delle sto­rie più comuni e con­sunte della vita poli­tica: rivo­lu­zio­nari da gio­vani, cinici con­ser­va­tori, soprat­tutto di loro stessi, da vec­chi.
In secondo luogo per­ché l’autrice è stu­diosa di filo­so­fia e quindi restavo con­vinto che la sua cri­tica fosse argo­men­tata, a più di un ven­ten­nio dalla fine del Pci, sulla base di una tes­si­tura ana­li­tica non banale.
Invece mi sono ritro­vato di fronte allo stesso libro che una gior­na­li­sta, Miriam Mafai, scrisse nel 1996: Dimen­ti­care Ber­lin­guer. A parte qual­che dif­fe­renza inter­pre­ta­tiva su aspetti con­tin­genti, le tesi di fondo sono le stesse: Ber­lin­guer anti­mo­derno come Paso­lini; Ber­lin­guer comu­ni­sta iden­ti­ta­rio cul­tu­ral­mente irri­for­ma­bile. L’antimodernità «antro­po­lo­gica» si riflette sulla sua con­ce­zione della demo­cra­zia e della fun­zio­na­lità delle isti­tu­zioni. Craxi aveva posto il vero pro­blema della moder­niz­za­zione isti­tu­zio­nale. Certo la com­mi­stione tra affari e poli­tica finì per impe­dire la «grande riforma», tut­ta­via egli era il vero inter­prete, a sini­stra, della moder­nità.
Tutte cose che la gior­na­li­sta Mafai argo­menta alla metà degli anni Novanta quando ormai Ber­lin­guer, come sot­to­li­nea molte volte, è «sem­pre più lon­tano», sostan­zial­mente «dimen­ti­cato» dal Pds. Un Pds bipo­la­ri­sta, a favore del supe­ra­mento dell’assemblearismo costi­tu­zio­nale e del tutto estra­neo a qual­siasi decli­na­zione delle teo­rie cri­ti­che del capi­ta­li­smo (ancora Mafai). Non c’era alcun biso­gno di aspet­tare Renzi per avere la rive­la­zione del rifor­mi­smo rove­sciato.
Tesi della Mafai ed ora della Man­cina che chi scrive que­sta nota non con­di­vide; ma non è que­sto il punto. Il punto è che quasi vent’anni dopo tali tesi ven­gono ripro­po­ste in assenza di rifles­sione sulle cate­go­rie ana­li­ti­che usate e senza tener conto degli esiti storico-politici cui siamo giunti nel momento attuale.
È vero che l’autrice dice espli­ci­ta­mente di non aver voluto fare un «sag­gio sto­rico», bensì una «rifles­sione senza rete»; ma una rifles­sione di 112 pagine in assenza di «sto­ria» e di «filo­so­fia» non è altro che un pole­mico arti­colo di gior­nale ripe­ti­tivo e arti­fi­cio­sa­mente dila­tato.
Ber­lin­guer e la moder­nità; Ber­lin­guer e l’iden­tità comu­ni­sta; Ber­lin­guer e la demo­cra­zia; Ber­lin­guer e il mar­xi­smo: sono le scan­sioni prin­ci­pali cui Man­cina sot­to­pone le ina­de­gua­tezze di quello che con­si­dera l’ultimo «vero» segre­ta­rio del Pci.
«Moder­nità», «iden­tità comu­ni­sta» (od anche social­de­mo­cra­tica), «demo­cra­zia», «mar­xi­smo» sono insiemi con­cet­tuali e realtà sto­ri­che assai com­plesse e soprat­tutto, pro­prio in quanto sto­ri­che, in con­ti­nua tra­sfor­ma­zione. Nelle pagine della Man­cina, invece, assu­mono la fun­zione rigida di pie­tre di para­gone su cui misu­rare ade­gua­tezza o ina­de­gua­tezza tanto della ela­bo­ra­zione cul­tu­rale che della pra­tica poli­tica di Enrico Ber­lin­guer. Non cate­go­rie ana­li­ti­che pro­ble­ma­ti­che da maneg­giare con cura e cau­tela, bensì com­piute gri­glie fat­tuali, veri letti di Pro­cu­ste.
Su tale letto, ad esem­pio (se ne potreb­bero fare tan­tis­simi), Man­cina misura uno dei molti aspetti nefa­sti di un’eredità che nono­stante tutto, ancora «con­di­ziona» la sini­stra ita­liana. Il con­di­zio­na­mento è il frutto della «inca­pa­cità di fare i conti con l’ombra di Ber­lin­guer». (Si aggira un nuovo «spet­tro»?) L’ «ombra di Ber­lin­guer», dun­que, ha ancora a che fare con il «tabù della costi­tu­zione». Ha a che fare con «la con­vin­zione che essere demo­cra­tici com­porti essere fedeli alla Costi­tu­zione, a qua­lun­que costo. Anche a costo di rinun­ciare a un miglior fun­zio­na­mento della nostra demo­cra­zia».
Sono ormai alcuni lustri che esi­ste una let­te­ra­tura, spesso di altis­simo livello, sulla «crisi della demo­cra­zia» a par­tire dal momento dell’ «inver­sione della dire­zione», come direbbe Wal­ter Ben­ja­min. A par­tire, cioè, dalla fine di quelli che sono stati chia­mati «gli anni dell’oro». Ebbene di una pro­ble­ma­tica di tale rilievo non c’è nes­suna trac­cia nelle pagine della Man­cina che pensa di aver tro­vato l’essenza del rap­porto tra Ber­lin­guer e la demo­cra­zia nell’affermazione del segre­ta­rio del Pci rela­tiva al fatto che una pro­fonda tra­sfor­ma­zione della società ita­liana non sarebba stata pos­si­bile con un governo del 51%.
Per ognuno dei punti indi­cati, «moder­nità», «iden­tità», ecc. si potreb­bero fare ana­lo­ghe con­sta­ta­zioni. Del resto basta scor­rere la «Biblio­gra­fia» per veri­fi­care l’assenza di ogni rife­ri­mento a dimen­sioni ana­li­ti­che fon­da­men­tali per qual­siasi «rifles­sione». È pos­si­bile una «rifles­sione», in par­ti­co­lare da parte di stu­diosi pro­fes­sio­nali, in assenza di cate­go­rie sto­ri­che e teo­ri­che capaci di «vedere di più»?

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