Abolire la povertà, un dovere per l’Europa di domani
Ossia, di «mettere l’uomo al riparo dal bisogno assicurando sempre a ogni cittadino che voglia servire secondo le proprie energie un reddito sufficiente per far fronte alle sue responsabilità». A parte i toni un tantino maschi, questa affermazione della nostra aspirazione a garantire un reddito minimo nazionale appare importante ai nostri giorni come lo era allora.
Oggi, il problema della povertà è urgente allo stesso modo. Nel 1969, il tasso di povertà nel Regno Unito era, secondo gli standard attuali dell’Unione Europea (la quota di persone che vivono con un reddito inferiore al 60% del reddito disponibile mediano equivalente), del 14%. Nel 2011, è stata registrata al 16%. Eppure, la risposta della politica sembra camminare all’indietro. Nel marzo del 2014, il parlamento britannico ha approvato a larga maggioranza un tetto ai sussidi della previdenza sociale. Il cosiddetto Welfare cap stabilisce un limite, suscettibile di adeguamenti solo in rapporto all’inflazione, alla spesa complessiva di tutte le prestazioni previdenziali (a parte le pensioni statali di base e certi sussidi di disoccupazione) per gli anni dal 2015-16 al 2018-2019. Questo è un provvedimento che va ad aggiungersi alla precedente legge, approvata nel 2012 dal governo di coalizione britannico, per limitare l’ammontare dei sussidi che possono essere percepiti settimanalmente da una singola famiglia. Il tetto alla spesa per il Welfare viene così messo in due modi.
La cosa sconcertante, per me, è che i tetti ai costi globali del Welfare sono stati approvati in Inghilterra avendo scarsa o nessuna considerazione delle conseguenze per gli obiettivi propri che la spesa previdenziale vuole raggiungere. Vuol dire questo che il Regno Unito ha voltato le spalle all’obiettivo di Beveridge di garantire un reddito minimo nazionale? Vuol dire che a una persona che non è in grado di lavorare – ad esempio per un incidente – dovremo dire che non ci sono più soldi nel bilancio del ministero del Lavoro e delle Pensioni? Che i sussidi per l’infanzia dovranno essere tagliati per le ristrettezze di bilancio imposte da altri programmi? [...]
Delle nuove forme di previdenza sociale, la più discussa è forse l’idea di un «reddito di cittadinanza» o «reddito di base», che prevede un sussidio universale da pagarsi individualmente a tutti i cittadini, variabile da uno dei paesi membri all’altro a seconda delle loro specifiche circostanze. L’entità della somma potrebbe essere legata ad alcuni parametri determinati da caratteristiche personali, come l’età, ma non sarebbe legata al fatto di essere o no occupati.
Il reddito di cittadinanza è una vecchia idea, che però non è stata adottata come parte della protezione sociale europea. A livello nazionale, è stato in genere molto discusso in tempi di ricostruzione, come dopo la Seconda guerra mondiale, e in questo senso potrebbe essere naturale per l’Ue riprenderla come elemento di un più grande «balzo in avanti» del dopo recessione. Essa tuttavia solleva la questione del fondamento della idoneità. Il reddito di base viene spesso presentato come «incondizionato», ma deve comunque esserci una condizione qualificante. Questa viene di solito individuata nella cittadinanza, ma la cittadinanza non è la stessa cosa che la base per la tassazione e evidentemente non è la base giusta nel contesto della Ue. Il criterio della cittadinanza significherebbe che un lavoratore svedese in Francia riceverebbe il reddito di base svedese, non il reddito di base francese, il che non sarebbe coerente con la libertà di movimento della manodopera.
La razionalità di un reddito di base che varia da paese a paese dovrebbe essere nel fatto che il reddito di base vari in relazione al costo della partecipazione a una società particolare. Un approccio alternativo perciò è di rendere il reddito di base condizionato, ma non alla cittadinanza, bensì alla partecipazione nella società. [...]
Proponendo un simile «reddito di partecipazione», piuttosto che un universale reddito di base, sono ben consapevole che esso presta il fianco a due obiezioni: che il suo essere condizionato rischia di escludere persone vulnerabili, e che comporta un notevole impegno amministrativo. Ma il reddito universale è una chimera. Tutti i progetti attuali prevedono una condizione di idoneità e quindi il rischio di esclusione. La cittadinanza sarebbe di tutta evidenza un criterio altamente discriminatorio, e probabilmente contrario alle leggi europee. Le regole esistenti per stabilire l’idoneità a ricevere sussidi si sono rivelate politicamente tossiche, e parecchie difficoltà nascono quando si tratta di applicare le regole a persone che vivono in un paese ma che non vi hanno domicilio per motivi fiscali. Tutti questi elementi evidenziano la necessità di un accordo esplicito sulla nozione di partecipazione a una particolare società. Una volta stabilito un accordo del genere, l’applicazione delle regole richiederebbe naturalmente un apparato amministrativo. Per esempio, la qualificazione di attività non di mercato richiede una certificazione. Ma il sistema esistente di assicurazione sociale richiede un analogo apparato se dev’essere adeguato al XXI secolo, per cui il tema dovrà essere comunque affrontato.
Lanciare un’iniziativa europea per un reddito di partecipazione sarebbe una mossa politica ardita. Proporre un’iniziativa del genere può apparire come una sfida ai decenni di incapacità dell’Ue di fare progressi nell’armonizzazione della previdenza sociale. Ma ci sono due ragioni di ottimismo. La prima è che essa offre una soluzione a problemi con cui i governi nazionali stanno oggi combattendo – esattamente come le prime istituzioni europee offrirono una soluzione a problemi nazionali di ristrutturazione economica. La seconda è che il reddito di partecipazione è – salvo un’eccezione – una forma nuova di previdenza sociale. Non ci sarebbe il problema di imporre un modello nazionale a tutti gli Stati membri. Non sarebbe un’assicurazione sociale alla Bismarck o alla Beveridge. Sarebbe una strada del XXI secolo verso un’Europa sociale.
C’è un’eccezione all’affermazione che un reddito di base non è ancora entrato nella protezione sociale europea: l’erogazione di un sussidio universale alle famiglie per tutti i figli, magari variabile per età, può essere vista come una forma specifica di reddito di base. Erogazioni del genere sono comuni nei paesi Ue. Se la Ue vuole incamminarsi lungo la strada del reddito universale, il punto di partenza naturale è di cominciare con un reddito di base europeo per i bambini. Una decina d’anni fa, il Gruppo ad Alto Livello sul futuro della politica sociale in un’Unione Europea allargata fece una proposta simile, come elemento di un possibile «patto intergenerazionale». In termini concreti, ciò può significare un reddito di base in tutta la Ue per bambini, fissato, diciamo, al 10% del reddito mediano pro capite in ciascuno degli Stati membri per ogni bambino. Sarebbe amministrato e finanziato, con clausole di sussidiarietà, da ciascuno degli Stati membri. Un programma del genere – rifinito nei dettagli – permetterebbe all’Europa di investire sul suo futuro.
Quarantacinque anni fa, proponevo riforme al sistema di previdenza sociale britannico che miravano a realizzare l’obiettivo di Beveridge di abolire la povertà. All’epoca credevo che il suo Piano di assicurazione sociale, portato pienamente a compimento, fosse il percorso giusto da seguire. Non è accaduto, e oggi, purtroppo, il problema della povertà rimane – in Inghilterra e in tutta l’Unione Europea. Quali risposte possiamo dare alla ricerca di riformare il Welfare State europeo oggi?
- La prima priorità è di ri-affermare l’aspirazione a offrire previdenza sociale per tutti;
- Partire da un tetto alla spesa per il Welfare è il modo più sbagliato; abbiamo invece bisogno di partire da obiettivi sociali;
- Il Welfare State deve adattarsi ai radicali cambiamenti del mercato del lavoro e della società;
- Ciò significa ripensare tutto a fondo, e da parte mia propongo un «reddito di partecipazione» e un reddito di base in tutta l’Unione Europea per i bambini.
Sto di nuovo sognando? [Traduzione di Michele Sampaolo] © Eutopia
La sua risposta ha quanto mai colpito un pubblico, quello italiano, non abituato a un linguaggio così tagliente quando si tratta di parlare dell’economia europea. Per anticipare la risposta, se è vero che i Paesi non lasceranno l’euro, vi è un altro pericolo all’orizzonte: quello di una “sindrome giapponese” in cui si fa il minimo necessario per preservare la valuta comune, ma ci si condanna a sopportare costi enormi, danneggiando le capacità di lungo periodo dell’economia europea di crescere e generare occupazione.
La sindrome giapponese, è il caso di notare, fu fatta di deflazione e crescita pressoché nulla per quasi un ventennio: due fenomeni che si rafforzano a vicenda tenendo conto che la riduzione dei prezzi è figlia della crisi da domanda e che quest’ultima peggiora con la deflazione, che fa posticipare i consumi, aumentando il costo reale del debito per i debitori già in difficoltà e il costo del lavoro per le imprese che non riescono più a trattenere il personale. Che la Banca Centrale Europea stia annunciando nuove misure di espansione monetaria con i tassi praticamente a zero e che i dati sulla crescita italiana in questo primo trimestre siano peggiori del previsto non fanno che rafforzare i timori che la sindrome sia drammaticamente reale. Proprio quando, ecco l’ironia, il Giappone stesso pare pronto ad uscirne grazie allo stimolo alla domanda proveniente dal piano di consistenti investimenti pubblici annunciati dal premier Abe prima del rialzo della tassazione indiretta sui consumi per finanziarli.
La soluzione proposta da Stiglitz? Visto che l’austerità non ha essenzialmente mai funzionato, c’è bisogno di un piano europeo in cui il Nord (la Germania) espanda più del Sud (l’Italia) la sua economia, così che ambedue sollevino il Continente senza al contempo che si allarghino le differenze nelle nostre rispettive bilance commerciali, accumulando con ciò insostenibili debiti esteri nel Sud dell’Europa.
È il primo passo verso una unione fiscale che sappiamo bene essere lenta e graduale e dunque impossibile da ottenere nel breve periodo, come ci insegna anche la storia degli Stati Uniti, in cui la vera Unione si è celebrata solo dopo più di un secolo e mezzo con l’arrivo del New Deal di Roosevelt. Quando Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa, affermava che «i paesi della Comunità Europea sono in procinto di stabilire tra loro relazioni d’uguaglianza e solidarietà, sarebbe a dire delle relazioni simili a quelle che già esistono in seno ai nostri propri paesi» dava il segno più di una direzione da intraprendere che di una soluzione a portata di mano. Il primo gesto di solidarietà che si richiede dunque alla Germania non è poi così drammatico: aiutare se stessa permettendo ai propri lavoratori di spendere di più (abbassando le tasse ed aumentando i salari ai lavoratori tedeschi) fa bene all’export italiano e ci aiuta a guadagnare tempo riprendendo fiato per fare le riforme che servono al Paese.
La prima riforma che ci spetta di fare è quella della lotta alla corruzione, come dimostra la vicenda Expo, ben più dura come sforzo di quella che coinvolge la vendita delle auto blu. Da essa proverranno le risorse per fare anche noi senza debito quegli investimenti pubblici che rimettono in piedi il Paese.
Stiglitz giustamente ricorda come la crisi di cui viviamo le conseguenze non è un disastro naturale ma una situazione che ci siamo masochisticamente imposti. Solo nel tempo ne sentiremo gli effetti se non arrestiamo l’emorragia: scoraggiamento giovanile, distruzione di piccole imprese e anche disillusione verso i meccanismi democratici di rappresentanza.
Ecco, le elezioni. Come ha notato Gustavo Piga, professore di Economia a Tor Vergata e organizzatore dell’evento, l’appuntamento europeo di questo fine settimana, di fatto, diventa un’ultima ciambella per inviare al Parlamento europeo chi potrà con tenacia difendere gli interessi italiani all’interno del progetto europeo: nell’euro, in un’altra Europa.
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