venerdì 16 maggio 2014

Questione nazionale ed egemonia: la Cina non ripeta gli errori dell'Urss

La rivolta contro Pechino infiamma il Vietnam
Una piattaforma petrolifera vicino alle isole contese dalla Cina scatena le proteste: vittime e fabbriche in fiamme Centinaia di cinesi in fuga
l’Unità 16.5.14

 Non è più solo guerra di parole, proclami, provocazioni. In primo piano, nella contesa fra Cina e Vietnam per la sovranità sulle isole Spratly e Paracelso, irrompe la furia popolare. E mentre centinaia di cittadini cinesi abbandonano impauriti il Vietnam, ormai si contano i primi morti. Uno o due, di nazionalità cinese, secondo fonti ufficiali di Hanoi e Pechino rispettivamente. La cifra salirebbe addirittura a 21, stando a fonti mediche operanti nei luoghi delle violenze, in territorio vietnamita.
Una folla inferocita ha assaltato ieri un’acciaieria della ditta taiwanese Formosa Plastics nella provincia di Ha Tinh. Un attacco violentissimo. L’edificio è stato invaso, i dipendenti assaliti. Alcuni sono rimasti uccisi, i feriti sarebbero 150. Epilogo tragico di una sollevazione popolare che il giorno precedente aveva investito altri segni visibili e concreti della presenza cinese in Vietnam, nella provincia di Binh Duong. I manifestanti avevano appiccato il fuoco a quindici stabilimenti cinesi situati all’interno di un parco industriale. Gravi i danni materiali, ma fortunatamente nessuna vittima.
Alcune delle fabbriche attaccate, come la Formosa Plastics, non dipendono da Pechino ma da Taipei, che non è direttamente coinvolta nella disputa per la sovranità sui due arcipelaghi. Ma quando il nazionalismo travalica nella xenofobia, certe sottigliezze diplomatiche diventano marginali, e sfumano le differenze fra la Repubblica popolare fondata da Mao Zedong e la «provincia ribelle» in cui il Kuomintang sconfitto si rifugiò nel 1949 per crearvi un suo Stato, a tutt’oggi di fatto indipendente.
A innescare l’ondata di incidenti è stato l’inizio di esplorazioni petrolifere sottomarine in acque considerate proprie sia da Hanoi che da Pechino. Ma quello che conta per la Cina è la relativa vicinanza all’arcipelago delle Paracelso, dove ormai il governo della Repubblica popolare si è installato come fosse a casa sua. All’occupazione militare compiuta nel 1974, e costata la vita a 70 soldati vietnamiti, due anni fa è seguita l’istituzione di un’amministrazione civile nella cittadina di Shasha, che estende la sua pretesa di autorità anche sulle Spratley. Hanoi contesta le rivendicazioni cinesi sostenendo di avere avuto quelle isole sotto di sé sin dal diciassettesimo secolo. Tra le due capitali si susseguono accuse e controaccuse. La Repubblica popolare attribuisce l’esplosione di violenza «all’indulgenza e alla connivenza » delle autorità locali nei confronti di «alcune forze fuorilegge anti-cinesi ». Il premier cinese Nguyen Tan Dung definisce invece «legittime» le proteste contro «le illegali prospezioni petrolifere» avviate dalla Cina, pur assicurando che saranno assicurati alla giustizia i responsabili di atti violenti. Centinaia di persone sarebbero state arrestate.
La presunta abbondanza di risorse naturali nei fondali marini limitrofi è la principale ragione dell’interesse di entrambi i Paesi per quei gruppi di isole. Quelle acque sono inoltre considerate particolarmente pescose, ma ancora più importante è la collocazione strategica lungo rotte marittime assai frequentate. Da parte cinese poi, in questa come nelle altre numerose dispute analoghe in cui è coinvolta, conta la forte volontà di affermazione egemonica sull’intero scacchiere geopolitico dell’Asia-Pacifico.
Oltre che nelle capitali degli Stati direttamente coinvolti, il comportamento di Pechino preoccupa gli Usa, che temono di vedere ridimensionato il loro ruolo in una parte del mondo dove molte nazioni guardano a Washington come a uno scudo proprio nei confronti dell’espansionismo politico ed economico della Cina. In questi giorni si stanno concludendo le esercitazioni Balikatan (Spalla a spalla) condotte congiuntamente dalle forze armate americane e filippine. Manila è coinvolta non meno di Hanoi nella disputa sulle Spratly, una parte delle quali è rivendicata anche dalla Malaysia. Manila inoltre considera parte del suo territorio gli atolli di Scarborough e Second Thomas, attorno ai quali negli ultimi mesi si sono intensificati i movimenti di unità navali di Pechino. Nel varare le manovre Balikatan, il ministro degli Esteri filippino Albert del Rosario, ha sottolineato la necessità di confrontarsi con vicini «aggressivi» intenti a «modificare lo status quo». Non ha fatto nomi ma era evidente a chi si riferiva.
Molto più a nord uno scontro potenzialmente ancora più pericoloso vede contrapporsi alla Cina il Giappone. Entrambi i governi rivendicano l’arcipelago delle Shenkaku (Diaoyu). Nel suo intinerario asiatico Obama ha rassicurato Tokyo: il trattato di difesa bilaterale impegna gli Stati Uniti a soccorrere il Sol Levante se la sua sicurezza è minacciata. La vicenda delle Shenkaku, ha fatto capire, non costituirebbe un’eccezione.

Tornano i rancori e i vicini ora vogliono contenere il dragone
di Sergio Romano Corriere 16.5.14

 Nella lunga guerra degli Stati Uniti in Vietnam (dal 1965 al 1973) vi fu un doppio malinteso. Gli americani credettero che il conflitto avrebbe impedito l’«effetto domino», come fu definito dal generale Eisenhower, vale a dire la progressiva estensione del comunismo all’intera Asia sudorientale. Ed erano convinti, soprattutto all’inizio, di battersi contro un disegno strategico concepito a Mosca e a Pechino.
Erano invece caduti nella trappola di un conflitto post-coloniale contro un popolo che stava conquistando la sua indipendenza dal «padrone» occidentale e temeva l’imperialismo cinese non meno di quanto temesse quello francese e americano. La realtà emerse chiaramente dopo la cessazione delle ostilità e il ritiro delle truppe americane da Saigon nell’aprile del 1973. Per meglio sottrarsi all’influenza cinese, il Vietnam scelse il campo sovietico, firmò un trattato di amicizia con l’Urss nel 1978 e cercò di estendere la propria sfera d’influenza al Laos e alla Cambogia. La Cina reagì rapidamente entrando in Vietnam con corpo di spedizione nel febbraio 1979. La prima guerra del Vietnam indipendente, quindi, fu una guerra fra comunisti asiatici per cui il ricordo dei loro antichi conflitti nazionali, dal primo millennio dopo Cristo alla metà del Cinquecento, contava molto più della comune ideologia. Washington temeva un’Asia colorata di rosso e comprese soltanto allora che nella grande rinascita cinese, soprattutto dopo le riforme economiche di Deng Xiaoping, vi erano anche ambizioni imperiali. Ne avemmo la prova quando scoprimmo, qualche anno dopo, che la carta geografica appesa al muro nelle aule scolastiche della Repubblica popolare era quella dell’Impero di mezzo con tutte le baronie feudali e gli Stati vassalli che la Cina aveva dominato nel momento della sua maggiore potenza. E ne abbiamo avuto una conferma in questi giorni, quando l’installazione di una piattaforma petrolifera cinese nelle acque vietnamite ha provocato violente dimostrazioni in Vietnam contro i cinesi e le loro industrie. Il primo ministro di Hanoi Nguyen Tang Dung ha annunciato punizioni per coloro che hanno violato la legge, ma ha dichiarato che la piattaforma è illegale e le dimostrazione erano quindi «legittime». Questo non è un episodio isolato. È soltanto il più clamoroso esempio del modo in cui il Giappone, le Filippine e altri Paesi della Asia sudorientale stanno reagendo alle crescenti rivendicazioni territoriali di Pechino sugli arcipelaghi potenzialmente petroliferi di un mare che la Repubblica popolare considera storicamente cinese. Vi è in queste vicende un aspetto paradossale. La Cina sembra essere motivata da considerazioni economiche, ma sta litigando con Paesi, soprattutto Giappone e Vietnam, che hanno importanti scambi commerciali con Pechino e contribuiscono con le loro industrie al prodigioso sviluppo economico della Repubblica popolare. Dovremo quindi giungere alla conclusione che vi sono circostanze in cui i sentimenti nazionali e le ambizioni imperiali prevalgono su qualsiasi altra considerazione? Credo che nazionalismo e sviluppo siano in questo caso fattori complementari. Da più di tre decenni la Cina è protagonista di uno straordinario esperimento. Ha liberalizzato l’economia, ha risvegliato gli spiriti animali del suo popolo, deve a queste scelte una prodigiosa crescita della propria economia. Ma non intende rinunciare né al regime del partito unico né al controllo ideologico della società né alla brusca repressione di qualsiasi forma di dissenso. Una politica contraddittoria? La Cina teme, non senza ragione, che lo sviluppo economico possa minacciare la stabilità del regime. La crescita crea prosperità, ma anche corruzione (un fenomeno che ha contagiato la dirigenza politica), un drammatico divario fra ricchezza e povertà, aspettative che non possono essere immediatamente soddisfatte. Per sostenere la crescita ha dovuto allentare i controlli demografici (un solo figlio per ogni famiglia), ma dovrà offrire lavoro a un numero crescente di giovani e sfamare un più alto numero di bocche. Da qualche anno ormai deve fare fronte a rivolte di villaggi che hanno perduto terre coltivabili, a rivendicazioni sindacali, a manifestazioni ambientaliste. E non può più ricorrere, come in passato al mito comunista di una società in cui tutti, prima o dopo, saranno eguali e felici. È questa, probabilmente, la ragione per cui deve ricorrere a un altro mito: quello nazionalistico del suo grande passato imperiale. Ha bisogno dell’industria giapponese, ma deve rievocare periodicamente lo «stupro di Nanchino» del 1937. Ha bisogno dei mercati dei Paesi da cui è circondata, ma deve rivendicare la proprietà dei loro mari. E suscita timori a cui risponde aumentando le sue spese militari: come se quelle spese non avessero l’effetto di raddoppiare i timori degli Stati Uniti e dei suoi vicini. Sappiamo che in molti casi la Cina ha saputo dare prova di una straordinaria saggezza. Speriamo che anche in questo caso non ci deluda.



Cina vs Asia / Quei mari orientali agitati che cominciano a spaventare il mondoI contenziosi territoriali che rischiano di provocare conflitti armati e iniziano a danneggiare l'economia globaledi Stefano Carrer Il Sole 17.5.14 qui


Dopo gli scontri per le isole contese Pechino rimpatria i suoi operaiCinesi in fuga dal Vietnam migliaia evacuati con navi e aerei
di Giampaolo Visetti Repubblica 19.5.14


PECHINO. Riesplode in Asia la guerra dei nazionalismi e la Cina allarga il fronte dello scontro nel Sudest. A dieci giorni dai primi assalti in fabbriche e negozi cinesi, Pechino ha scelto ieri uno spettacolare rimpatrio dei connazionali in Vietnam, rilanciando accuse e minacce contro Hanoi. Tivù di Stato e media governativi per tutto il giorno hanno seguito in diretta la maxi-evacuazione dei cinesi dai principali distretti produttivi vietnamiti, effettuata con navi e aerei militari. Secondo la propaganda i rimpatriati sono già 3 mila e in queste ore cinque navi stanno portando in salvo altre migliaia di operai ed emigrati, obbiettivo delle ritorsioni dei vietnamiti insorti contro l’installazione di una piattaforma petrolifera di Pechino nell’arcipelago conteso delle Paracels. Finora le vittime cinesi sono state ufficialmente due, oltre cento i feriti. I sedici cinesi con le lesioni più gravi sono stati prelevati da aerei-ambulanza e ricoverati negli ospedali di Pechino, accolti come reduci-eroi di un conflitto. Tra mercoledì e ieri però i cinesi fuggiti dal Vietnam, a piedi o con mezzi di fortuna, sono migliaia. La maggioranza è riuscita a passare il confine con la Cambogia, costruendo campiprofughi lungo la frontiera. Non si può ancora parlare di una guerra aperta, ma tra Vietnam e Cina la tensione non era così alta da quarant’anni.
Nel 1974, mentre gli Usa si ritiravano dal Vietnam del Sud, le truppe di Pechino tentarono un blitz issando già la propria bandiera sulle isole Paracels. A sud di Hanoi, tra Ho Chi Min City e il distretto industriale di Ha Tinh, squadre di vietnamiti nei giorni scorsi hanno distrutto e incendiato decine di aziende, proprietà di Cina, Taiwan e Singapore. Gli operai cinesi sono stati aggrediti e pestati dai loro stessi colleghi del Vietnam, colpevoli di essere nati nella super-potenza che torna a minacciare il territorio di Hanoi. Nella serata di ieri l’annuncio della prima ritorsione cinese: scambi bilaterali, per decine di milioni di dollari, sono stati sospesi. Hanoi assicura che 600 saccheggiatori sono stati arrestati, che gli assassini dei cinesi.
Navi vietnamite e cinesi continuano però a fronteggiarsi attorno alle Paracels e la minima provocazione può far sfuggire la situazione di mano ai rispettivi governi. La piattaforma petrolifera galleggiante Haiyang Shiyou 981, scintilla degli scontri, ha costi di manutenzione proibitivi e non può dunque rimanere inattiva a lungo. Il Vietnam, sostenuto dagli Usa, è deciso a impedire la ripresa delle tri- vellazioni su fondali che considera propri, mentre la Cina è decisa a usare gli interessi economici ed energetici per ridisegnare i confini nel Mar cinese meridionale. Vecchi rancori e nuovi affari soffiano in particolare sui crescenti nazionalismi: Pechino sfrutta la caccia ai cinesi in Vietnam per sviare l’attenzione interna dal rallentamento della crescita e dal dilagare della corruzione nel partito, ma pure Tokyo, Hanoi e Manila cavalcano l’odio xenofobo per consolidare il potere. Toccati gli orgogli patriottici, nessuno può permettersi un passo indietro. Farne un altro in avanti, come un secolo fa, minaccia però di far riesplodere il Pacifico.

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