sabato 10 maggio 2014
Tutti pazzi per Piketty
Da
ricercatore relativamente oscuro, che per quindici an- ni ha studiato
il modo in cui le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza
hanno cambiato le società nella storia, a rockstar del pensiero
economico che negli Usa provoca discussioni infinite a destra come a
sinistra.
Dopo un avvio lento, la versione inglese del suo ultimo
libro, Capital in the 21st Century, un tomo di quasi 700 pagine che
nessuno si azzarda più a giudicare un’opera difficile da digerire,
anticipato in Italia da un articolo di Michele Salvati su La Lettura del
Corriere della Sera, è andato improvvisamente a ruba. Esaurite le prime
tirature, la Harvard University Press sta ora ristampando in fretta e
furia l’opera di Thomas Piketty, ormai rientrato da settimane in Europa
dopo il suo trionfale tour americano che qualcuno, con una punta di
esagerazione, arriva a paragonare a quello dei Beatles di mezzo secolo
fa. Ma è vero che negli Stati Uniti Piketty è ormai popolarissimo: tutte
le principali testate giornalistiche hanno analizzato, e più volte, il
suo libro. Le discussioni sulle sue idee non accennano a placarsi,
mentre i media continuano a inseguirlo in giro per il mondo chiedendogli
di replicare alla polemica del giorno. L’ultima intervista, tre giorni
fa a New Republic, per smentire di essere marxista. Giorno dopo giorno
la spasmodica attenzione degli intellettuali trasforma il dibattito
economico in discussione di costume: il Washington Post pubblica perfino
un’ironica guida per chi vuole commentare il libro senza averlo letto.
Mentre il Financial Times - tra i primi ad apprezzare il libro con una
recensione di Martin Wolf - adesso parla di «bolla Piketty»
pronosticando che chi fin qui ha giudicato imperdibile il suo Capital,
ben presto comincerà a dire che non ci ha trovato dentro nulla che non
sapesse già. Concludendo che alla fine diventerà chic dire di non averlo
letto. Per adesso, però, i riflettori restano puntati sull’economista
francese che, pronostica il New York Times, può diventare un’icona
culturale come accadde a Susan Sontag cinquant’anni fa quando pubblicò
il saggio Notes on Camp o a Francis Fukuyama nel 1992, con l’uscita del
suo La fine della storia. Perché? Per la forza della sua analisi certo,
ma anche perché questo economista 42enne di bell’aspetto, che parla con
un accento accattivante, è diventato molto trendy. Con Twitter, che non
esisteva ai tempi della Sontag e di Fukuyama, che alimenta per la prima
volta una proliferazione «virale» delle sue analisi storico economiche.
Il
libro è assai ricco nell’analisi: un’indagine estesa su quasi due
secoli, per concludere che stiamo tornando alle sperequazioni estreme
degli inizi del Novecento, dopo un periodo di distribuzione più
equilibrata nel reddito dovuta soprattutto alla enorme distruzione di
ricchezza che ha colpito i ceti più abbienti durante i due conflitti
mondiali. Ma la terapia proposta, una sorta di patrimoniale planetaria, è
irrealistica, come finisce per ammettere lo stesso autore. E allora?
Rimane il valore di un’opera che, pur non originalissima (da Stiglitz a
Krugman a Robert Reich, sono molti gli studi pubblicati sulla
questione), mette i numeri a posto. E arriva in libreria quando la
sinistra americana si prepara a dare battaglia proprio sulle
diseguaglianze.
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