giovedì 5 giugno 2014

Cantimori, Machiavelli e il Cinquecento

Delio Cantimori: Machia­velli, Guic­ciar­dini, le idee reli­giose del Cin­que­cento, postfazione di Adriano Prosperi, Edi­zioni della Scuola Nor­male Supe­riore di Pisa, pp. 256, euro 10

Risvolto
Delio Cantim
ori, uno dei più importanti studiosi di storia del XX secolo, dedicò negli ultimi anni della sua vita particolare attenzione a Niccolò Machiavelli offrendone una interpretazione assai originale che ha profondamente influenzato gli studi successivi. In modo particolare Cantimori, nelle sue pagine, insiste sull’importanza della religione nella riflessione del Segretario fiorentino, sottolineando la sua funzione quale vincolo originario di una civiltà e, di conseguenza, il limite di quelle interpretazioni che la riducono a puro instrumentum regni. In occasione del V centenario del Principe, le Edizioni della Normale hanno deciso di ristampare queste pagine insieme a quelle, coeve, su Guicciardini e la vita religiosa del Cinquecento. Il volume è accompagnato da una postfazione di Adriano Prosperi che illumina, in modo magistrale, il significato di questi scritti nell’itinerario intellettuale e storiografico di Delio Cantimori.     



Il cambiamento è nel flusso degli eventi 
Storia delle idee. In un libro tre saggi di Delio Cantimori. Riproposti testi del filosofo italiano dedicati alle opere di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini

 Carlo Altini, il Manifesto 5.6.2014 

Il nome di Delio Can­ti­mori è spesso, troppo spesso, asso­ciato alle pole­mi­che che inve­stono cicli­ca­mente l’interpretazione dei decenni cen­trali del Nove­cento ita­liano, per­vasi dalla ten­sione tra fasci­smo e repub­bli­ca­ne­simo, tra cat­to­li­ce­simo e mar­xi­smo. Come noto, que­ste pole­mi­che sono state ali­men­tate dalla dif­fu­sione di pro­spet­tive revi­sio­ni­ste sul fasci­smo, sulla Resi­stenza e sulla Costi­tu­zione e tal­volta si sono ser­vite anche delle vicende bio­gra­fi­che di Can­ti­mori allo scopo di equi­pa­rare gli «errori» del Nove­cento (il fasci­smo e il comu­ni­smo) con il chiaro obiet­tivo di lasciare sul ter­reno, al riparo dalle mace­rie della sto­ria, un unico attore della poli­tica: il libe­ra­li­smo. Secondo i revi­sio­ni­sti, infatti, il per­corso poli­tico di Can­ti­mori mostre­rebbe sia le simi­li­tu­dini tra fasci­smo e comu­ni­smo (che nello sto­rico roma­gnolo si sareb­bero unite nel «nazional-bolscevismo»), sia l’egemonia cul­tu­rale della sini­stra in Ita­lia che ha sem­pre mirato a nascon­dere il fasci­smo del primo Can­ti­mori e a esal­tare il suo avvi­ci­na­mento al Pci. Per for­tuna, però, la sto­ria della cul­tura ita­liana non è fatta solo di tali pole­mi­che, del tutto inu­tili per una reale com­pren­sione delle dina­mi­che sto­ri­che: sono infatti ormai nume­rosi gli studi che, lungi dal par­lare di un’improvvisa «con­ver­sione» di Can­ti­mori dal fasci­smo all’antifascismo (e poi al comu­ni­smo, prima dell’abbandono del Pci nel 1956), rileg­gono la sua bio­gra­fia intel­let­tuale sot­to­li­nean­done la fasi di pas­sag­gio e le amare disil­lu­sioni per giun­gere a indi­vi­duare nella seconda metà degli anni Trenta il defi­ni­tivo distacco di Can­ti­mori dall’ideologia fascista. 


Il metodo filologico 
La sto­rio­gra­fia più accu­rata ha per­tanto visto in Can­ti­mori un’intellettuale lace­rato dalle que­stioni filo­so­fi­che irri­solte e dalle con­trad­di­zioni storico-sociali, in par­ti­co­lare il diva­rio tra le classi diri­genti e le masse; il rap­porto tra la cul­tura, l’etica e la poli­tica; il rin­no­va­mento civico, «reli­gioso» e morale del popolo; la rela­zione con­tro­versa tra Stato e nazione. In que­sta dire­zione di recu­pero della verità sto­rica e dell’effettiva por­tata dei testi can­ti­mo­riani si muove il recente volume Machia­velli, Guic­ciar­dini, le idee reli­giose del Cin­que­cento (Edi­zioni della Scuola Nor­male Supe­riore di Pisa, pp. 256, euro 10), che ripre­senta tre testi di Can­ti­mori pub­bli­cati nel 1966 e 1967 sulla Sto­ria della let­te­ra­tura ita­liana coor­di­nata da Sape­gno e Cecchi. 
I tratti comuni ai tre testi sono nume­rosi. In primo luogo, come afferma Adriano Pro­speri nella sua post­fa­zione, essi costi­tui­scono il primo abbozzo di un’opera sulla sto­ria della vita reli­giosa e della cul­tura ita­liana (opera che non vide mai la luce a causa della morte di Can­ti­mori, scom­parso nel 1966 all’età di 62 anni). In secondo luogo, vi emerge chia­ra­mente la con­ce­zione can­ti­mo­riana del lavoro intel­let­tuale, cioè il suo rifiuto delle gene­ra­liz­za­zioni e delle cate­go­rie dog­ma­ti­che e la sua difesa del metodo filo­lo­gico con­tro ogni pro­spet­tiva ideo­lo­gica. In terzo luogo, in tali saggi è ben esem­pli­fi­cata la bril­lante inter­se­zione tra sto­ria, cul­tura, filo­so­fia, poli­tica e reli­gione che ha sem­pre carat­te­riz­zato lo sguardo di Can­ti­mori. Ed è pro­prio su quest’ultimo punto che sem­bra più inte­res­sante soffermarsi. 
Il Cin­que­cento rinnovato 

L’intero volume è infatti attra­ver­sato dalla pro­fonda empa­tia can­ti­mo­riana nei con­fronti del carat­tere fer­vido e intenso della vita reli­giosa in Ita­lia ai primi del Cin­que­cento, soprat­tutto se per «vita reli­giosa» si intende la più ampia sfera della vita morale e del sen­ti­mento civico. Nella sua appas­sio­nata rico­stru­zione sto­rica dei movi­menti reli­giosi ita­liani del XVI secolo Can­ti­mori cerca di indi­vi­duare i punti di svolta nella sen­si­bi­lità reli­giosa, le con­trap­po­si­zioni tra orto­dossi ed ere­tici, l’intersezione tra misti­ci­smo e asce­ti­smo e le dif­fe­renze tra la devo­zione popo­lare e quella colta: tutto ciò, allo scopo di sot­to­li­neare l’indeterminatezza dot­tri­na­ria, o la dimen­sione teo­lo­gica sin­cre­ti­stica, dei movi­menti reli­giosi ita­liani, ben rap­pre­sen­tata dall’ambigua vicenda che carat­te­rizzò il trat­ta­tello ano­nimo inti­to­lato Del bene­fi­cio di Cri­sto, prima letto e dif­fuso come opera di devo­zione tra­di­zio­nale e poi con­dan­nato e bol­lato come ere­tico. Ma è a prima vista evi­dente che le sim­pa­tie di Can­ti­mori vanno a quei movi­menti che fanno del «rin­no­va­mento» la loro parola d’ordine, attivi fino alla con­vo­ca­zione del Con­ci­lio di Trento nel 1542 e suc­ces­si­va­mente inde­bo­liti dal pro­gres­sivo affer­marsi delle ten­denze eccle­sia­sti­che più intran­si­genti, che pie­gano sem­pre più il sen­ti­mento reli­gioso verso l’«intimismo» e lo allon­ta­nano da ogni idea di riforma com­ples­siva della con­dotta morale e dell’assetto politico. 

L’idea di «rin­no­va­mento» è la chiave che Can­ti­mori uti­lizza per leg­gere Machia­velli e Guic­ciar­dini. Anche in quest’ultimo, infatti, la sto­ria e la poli­tica – al netto del suo malin­co­nico rea­li­smo e del suo ras­se­gnato disin­canto nei con­fronti delle «cose umane» – emer­gono come i luo­ghi per eccel­lenza del cam­bia­mento e del movi­mento: il flusso con­ti­nuo degli eventi è impre­ve­di­bile e non può essere ridotto a schemi deter­mi­nati o a tra­di­zioni pre­sta­bi­lite. Ma è in par­ti­co­lare in Machia­velli che Can­ti­mori indi­vi­dua un forte nesso tra sfera morale, vita reli­giosa e «rin­no­va­mento»: Machia­velli è il Lutero ita­liano pro­prio per­ché la reli­gione, per il segre­ta­rio fio­ren­tino, è un fatto col­let­tivo, sto­rico, sociale, poli­tico che incide pro­fon­da­mente sulla vita e sulla morte delle repubbliche. 
La reli­gione civile 

Risulta per­tanto evi­dente il carat­tere inno­va­tivo della let­tura di Can­ti­mori, secondo cui Machia­velli è ben lungi dall’essere l’alfiere dell’empietà e dell’immoralità: il suo inte­resse civile e anti­cle­ri­cale per la reli­gione – intesa come forma di mora­lità pub­blica e non come instru­men­tum regni – si pre­senta fin dal proe­mio dei Discorsi e rimane sem­pre con­nesso ai temi della virtù civica, della sobrietà dei costumi, del legame sociale e della libertà repub­bli­cana. Per que­sto motivo l’esempio della reli­gione civile di Roma è ovvia­mente cen­trale, per dif­fe­renza rispetto all’esempio oppor­tu­ni­stico offerto dalla Chiesa e dal clero, nell’analisi machia­vel­liana della deca­denza dell’Italia del Cin­que­cento, che l’irreligione degli eccle­sia­stici e dei poli­tici, degli ari­sto­cra­tici e del popolo ha ridotto senza forza poli­tica e in preda all’interesse pri­vato: «La rovina è avve­nuta per­ché sono man­cati in prìn­cipi e repub­bli­che quella virtù, forza, impeto, quell’intelligenza poli­tica e quella sicura cogni­zione delle leggi reali della poli­tica, pru­denza cri­tica, o senno; ma insieme per­ché sono man­cate nelle popo­la­zioni, a comin­ciare dai con­si­glieri, can­cel­lieri, segre­tari fino ai con­ta­dini, quella serietà e pub­blica soli­da­rietà fon­date sulla reli­gione, che costi­tui­scono la soli­dità dei prìn­cipi e delle repub­bli­che e la sostanza dell’energia poli­tica e mili­tare vera, quella di chi sa cogliere la for­tuna e di chi sa agire per la patria». Non sem­bra dif­fi­cile leg­gere in que­ste parole un’amara ana­lisi non solo della sto­ria ita­liana, ma anche dell’attuale mise­ria politica.

Nessun commento: