giovedì 5 giugno 2014
I libri di Cacciari come violenza suprema - pardòn, iùbris... - verso i recensori
IL MODERNO - È STATO PIÙ VOLTE DETTO - È COME UN LABIRINTO. MA UN
LABIRINTO UN PO’ PARTICOLARE. Perché, sebbene vi sia un centro, questo
centro è in realtà vuoto. Non contiene, non custodisce, non nasconde,
diciamo così, nessuna Verità. Nessuna salvezza. Non solo. Ma le
molteplici vie - i molteplici percorsi - che lo costituiscono a volte si
incontrano, si intersecano, si annodano in un groviglio apparentemente
inestricabile. Per poi di nuovo separarsi, dividersi, allontanarsi.
Sentieri - percorsi - tutti diversi. Inassimilabili. Ciascuno geloso
della propria irriducibile, intraducibile singolarità. Della propria
distinta identità. Del proprio inconfondibile timbro linguistico.
Sentieri - percorsi - tutti differenti. Eppure tutti «identici». Perché
tutti hanno in comune l’identico labirinto che li contiene. Quel
labirinto le cui vie sono - di volta in volta - tratteggiate, segnate
dal loro stesso cammino. Dal loro stesso procedere. Che a volte
improvvisamente e inaspettatamente si arresta, si interrompe - come i
sentieri di un bosco - per tornare indietro. E per intraprendere un
altro cammino. Un’altra direzione. Poiché se è vero che in questo
curioso labirinto - che è la filosofia - non c’è un centro, è
altrettanto vero che non c’è un’unica via d’uscita prestabilita,
predeterminata. Ecco perché ciascun sentiero filosofico è «condannato» a
costruirsela, a trovarsela da sé, la via d’uscita.
Metafora del Moderno, questo strano labirinto è però il luogo dove
l’interrogazione della filosofia non ha smesso mai di aggirarsi, di
avventurarsi, se ci pensiamo bene. È il luogo da dove i molteplici e
differenziati percorsi della filosofia non riescono ancora a congedarsi.
Perché nessuno è sinora riuscito a crearsi la propria via d’uscita.
Mentre il centro è sconsolatamente, disperatamente vuoto. E non c’è più
alcun motivo, alcuna ragione, alcun senso per soggiornare in esso.
È a questo paradossale labirinto filosofico che Massimo Cacciari ha
dedicato il suo ultimo bel libro, Labirinto filosofico, (Adelphi,
pp.348, euro 38,00 ). Un libro «inattuale». Controcorrente, diciamo
così. E a suo modo «demoniaco », se vogliamo. Perché non si può
certamente scrivere un libro come questo, se non si è spinti, trascinati
quasi a farlo da quel demone - di cui parlava Socrate - che abita in
ciascuno di noi. E che ci obbliga incessantemente a interrogarci. A
tornare a interrogarci ancora sulle «cose ultime». Che ci obbliga,
insomma, a far ritorno alla metafisica. E alle sue «eterne» questioni.
Troppo frettolosamente - e, peraltro, con puerile ingenuità - liquidate
dalle correnti mode filosofiche. Che hanno contribuito a inaridire la
filosofia. Relegandola nell’astrazione degli specialismi accademici.
Dove agonizza ormai da troppo tempo. Lontano dalla vita. Lontano da
quelle domande che cercano di scuoterla. Di acciuffarla. Di «curarla».
Far «ritorno» alla metafisica, per Massimo Cacciari, è tornare infatti a
prendersi cura soprattutto di quella «cosa ultima» che è il nostro
esserci. La nostra concreta esistenza. Ma senza l’amore - senza la
philia - nessun sapere - nessuna sophia - sarebbe davvero in grado di
corrispondere a questa disperata «vocazione terapeutica». Perché è vero
che è la meraviglia - thauma -, lo stupore per le cose esistenti che
muove l’interrogazione della filosofia. È vero - come scrive Cacciari -
che «metafisica è l’interrogazione intorno alla physis dell’ente che ci
ha tremendamente meravigliato».
Certo, la prima domanda della filosofia scaturisce dallo stupore per le
cose esistenti:« Che è “questo” che ci sta di fronte? È qualcosa,
certamente - osserva Cacciari -. Da Dove? Perché qualcosa esiste?».
Ma cos’è che tremendamente ci meraviglia, ci spaventa - delle cose che
esistono - se non l’angosciante esperienza che noi facciamo del loro
dileguamento? Se noi non amassimo le cose che esistono - e le creature
che vivono - perché dovremmo tremendamente meravigliarci - angosciarci -
del loro dileguamento? Il thauma - la paura più tremenda - è il fatto
che dobbiamo morire, ci dice Cacciari.
Ma il nostro pensiero - il «divino», il trascendente che è in noi - si
ribella a questa «apparente» evidenza. È l’angoscia della nostra morte
che ci costringe a pensare. A filosofare. Che ci costringe a
trascenderci.
Ecco perché la filosofia - come erroneamente si crede - non potrebbe mai
essere una «cura» per il morire. Non potrebbe mai essere una
preparazione alla morte - melete thanatou. Ma è «cura- angoscia contra
il nudo fatto che moriamo », precisa Cacciari. È davvero mortale il
soffio che dà vita al nostro corpo? Può davvero spegnersi il principio
della nostra vita? Siamo davvero convinti che tutto, nel divenire, sia
destinato al nulla? Siamo davvero sicuri - si chiede Cacciari - che per
«guarire» dall’angoscia della morte, dobbiamo rassegnarci ad abbandonare
il nostro corpo - che è soltanto dolore e sofferenza - e «correre a
morire, correre incontro alla sua morte per poter credere alla
immortalità della pura anima»?
No, la filosofia non è cura per la morte, ma per la vita. La filosofia è
sì interrogazione dell’angoscia massima, la morte. Ma non si può
«guarire» dalla morte morendo. Ma semmai pensando la morte. Al centro
della nostra psiche c’è il nostro pensiero vivente, che ci dice che noi
viviamo. Il nostro pensiero vive, è pensiero del vivente poiché si
oppone al fatto «apparente» che noi dobbiamo morire. Solo chi è
dotato-armato del logos - proprio della filosofia - potrà mettere a
morte ogni padrone. Perfino quel padrone che è la nostra morte. Ecco
perché la filosofia non può essere una attesa impaziente e impotente
della morte liberatrice.
Ma è un saper mettere a morte tutto ciò che ostacola, impedisce una
piena vita: «Trapassare il padrone ultimo - la morte - e fare del dato
“che si muore” un fatto del pensiero: ecco la cura suprema e il supremo
esercizio. Da limite del vivere - ci dice Cacciari - la morte,
nell’esser pensata da parte dell’anima, diviene così fattore essenziale
della sua vita».
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