lunedì 16 giugno 2014

Dentro il postmoderno letterario: nel laboratorio della factory Wu Ming

Wu Ming, storie tra strada e archivio

Ecco uno dei motti di riferimento del collettivo di scrittori bolognesi

di Wu Ming 1 l’Unità 16.6.14


FIN DAGLI ESORDI UNO DEI NOSTRI MOTTI È: «RACCONTARE LE NOSTRE STORIE CON OGNI MEZZO NECESSARIO». Solitamente queste storie le peschiamo dai «luoghi oscuri», dai coni d’ombra e dai rimossi della storia (nazionale ma non solo), e/o le troviamo interrogando le cicatrici del paesaggio. Un altro nostro motto è: «Stare tra l’archivio e la strada». Su quel materiale ci sforziamo di esercitare uno sguardo il più possibile «obliquo», sghembo, spiazzato. 
Se di fronte alla storia ci limitiamo alla visione frontale, quella di primo acchito, inerziale, che avviene by design, della storia non vedremo che il monumento, ovvero ciò che è stato selezionato per produrre una retrospezione «ispirante» e dunque rosea. La storia monumentale vorrebbe dirci che «la grandezza, un giorno esistente, fu comunque possibile e perciò sarà anche possibile di nuovo; (l’uomo) percorre più coraggioso il suo cammino, poiché ora è sgominato il dubbio, che lo afferra nelle ore di maggior debolezza...» Sto citando dalla seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, che subito dopo avverte: «Quanta diversità dev’essere al riguardo ignorata (...) Come violentemente l’individualità del passato deve essere compressa a viva forza entro una forma universale e smussata, ai fini della concordanza, in tutti gli spigolosi angoli e linee!» Un monumento vuole sempre raccontarci una sola storia a scapito di tante altre, imporre un unico punto di vista su tanti altri. 
Faccio un esempio che conosco bene, essendo ormai triestino d’adozione: se andiamo a Basovizza, presso la più celebre delle «foibe» (che in realtà foiba non è, trattandosi di un pozzo minerario), e quivi rimiriamo il monumento, eccoci esposti a un racconto unico, quello dei «barbari slavocomunisti » e delle «vittime italiane», uccise - come vuole la più banale delle vulgate - «solo perché italiane». L’Italia è un paese incapace di raccontarsi se non come vittima, gli italiani sono sempre innocenti, nella tragedia hanno un ruolo e non è consentito che ne interpretino altri, lo dimostrano le vicende del film Il leone del deserto e del documentario Fascist Legacy. Cosa viene rimosso dal monumento a Basovizza, come del resto da tutti i monumenti dedicati ai «martiri delle foibe»? Viene rimossa l’intera storia del confine orientale dalla Grande guerra al maggio 1945: l’italianizzazione forzata, l’esproprio delle terre di sloveni e croati, l’invasione nazifascista della Jugoslavia, i crimini di guerra del Regio Esercito, la trasformazione di Lubiana in un grande campo di concentramento, l’annessione di Trieste e dintorni al Terzo Reich... Tutti «spigolosi angoli e linee» che è meglio far scomparire. L’esempio è estremo, ma non c’è monumento che non faccia questo, anche partendo dalle migliori intenzioni. Quanti monumenti alla Resistenza risultano bolsi, tronfi, ridondanti, e finiscono per allontanare quell’esperienza trasformandola in cliché? 
Tuttavia, se un monumento lo aggiriamo, può capitarci di scoprire una storia diversissima, una storia alternativa. Non la consueta, banalissima, «storia nascosta», esoterica, occulta, quella che piace ai complottisti, ma la storia del conflitto che viene ogni volta rimosso, del molteplice ricondotto a forza all’Uno. Non c’è «smussatura» che possa cancellare il molteplice, perché è insopprimibile. In ogni società e fase storica il conflitto è endogeno, endemico, inestirpabile, e basta davvero poco perché l’Uno torni a essere (come minimo) due. 
(...) Molti lettori si sono fermati ai nostri romanzi storici di gruppo, da Qad Altai, ma è nell’altro filone - meno seguito - che hanno avuto luogo le sperimentazioni importanti e fondative. Sperimentazioni che hanno influenzato il nostro ultimo (in tutti i sensi) romanzo storico, L’Armata dei Sonnambuli, nel cui «quinto atto» irrompe il perturbante e si realizza la convergenza dei due percorsi. Abbiamo cercato di raccontare la Rivoluzione francese aggirandone il monumento (peraltro abbandonato e pieno di sterpaglie), il contromonumento reazionario (la solfa sulla povera Maria Antonietta, su Robespierre assetato di sangue e così via) e l’antimonumento revisionista eretto a suo tempo da Furet e dai Nouveaux Philosophes, che è forse la costruzione più impositiva e mononarrativa di tutte. Se il contromonumento reazionario ci dice che la Révolution fu crudele, asserzione a cui si può sempre rispondere con un plebeo «Grazie al cazzo!», l’antimonumento revisionista ci dice che la Révolution fu inutile, ed è un enunciato ben più pericoloso. Noi abbiamo cercato di mettere in campo il molteplice, le diverse rivoluzioni dentro la Rivoluzione. Fino al quinto atto si può credere di aver letto un «semplice» romanzo storico (per quanto selvaggio e plurilingue esso sia), poi nel quinto atto succede qualcosa... 
Da anni ci muoviamo in una terra di nessuno tra il «romanzo di non-fiction», la saggistica, il giornalismo, la poesia, il travelogue e chissà cos’altro. La tradizione è qualcosa che si sceglie, e noi rivendichiamo il carattere distintamente italiano della nostra «non-fiction creativa». La storia della letteratura italiana, per quanto possa sembrare strano, è in larga parte una storia di non-fiction scritta con tecniche letterarie, o di ibridazione tra fiction e non-fiction. (...) Dal nostro laboratorio, nel 2010, è uscito Il sentiero degli dei di Wu Ming 2. Si tratta di un romanzo di viaggio composto da racconti collegati tra loro, e al tempo stesso è - a tutti gli effetti - una guida per escursionisti con tanto di mappe, foto, consigli, indirizzi e contatti utili - e simultaneamente, senza soluzione di continuità, una controinchiesta su com’è stato deturpato e devastato l’Appennino tosco-emiliano. Ci sono tutti i danni e gli scempi causati da Tav e Variante di Valico. Qualche tempo dopo sono usciti il «romanzo meticcio» Timira, diWu Ming 2 e Antar Mohamed, e Point Lenana, scritto da me e Roberto Santachiara. Questi ultimi due libri, usciti rispettivamente nel 2012 e nel 2013, compongono un dittico: entrambi affrontano il nostro rimosso post-coloniale, l’amnesia selettiva della nazione, i crimini del colonialismo italiano in Africa, anche se non parlano solo di questo. Point Lenana racconta il nazionalismo italiano, il fascismo, le guerre mondiali, le vicende del confine orientale, facendo passare ogni raggio attraverso un particolare prisma, quello del rapporto tra gli italiani e la montagna. È anche un libro sull’alpinismo, e sulla sua dimensione politica. Tommaso De Lorenzis lo ha definito «il risultato più estremo del lavoro di Wu Ming sull’ibridazione dei tipi testuali», ed è vero che abbiamo utilizzato tutte le tecniche che ci venivano in mente, tutti i tropi della scrittura saggistica, narrativa, lirica... In realtà in L’Armata dei Sonnambuli andiamo oltre, solo che la faccenda è più sottile. 
In fondo a molti nostri libri c’è una sezione chiamata Titoli di coda, dove segnaliamo le nostre fonti, elenchiamo le letture fatte, i viaggi, gli archivi consultati. In un certo senso «rilasciamo il codice sorgente del libro», affinché il lettore possa intraprendere un suo percorso di approfondimento, o andare alla deriva, oppure fare verifiche, fact-checking, «ingegneria inversa». Sebbene anche nei Titoli di coda le narrazioni proseguissero, il titolo e un certo salto stilistico li collocavano fuori dalla cornice del testo principale. Erano un addendo, un’appendice. Invece, in L’Armata dei sonnambuli, i titoli di coda sono diventati il quinto atto dell’opera. Li abbiamo portati dentro la cornice del romanzo. Manzoni chiama «Introduzione» la parte iniziale de I promessi sposi, ponendola fuori dall’intelaiatura del romanzo, ma quel testo è dentro la finzione dell’opera, l’estratto del documento secentesco è invenzione, è scritto imitando l’italiano di duecento anni prima. Oggi siamo smaliziati, sappiamo bene che quello stratagemma narrativo è frequente nel romanzo storico (...). Oggi sappiamo anche distinguere il documento simulato dai documenti realmente reperiti negli archivi (le grida contro i bravi riprodotte nel primo capitolo). Anche i famosi «venticinque lettori» a cui Manzoni si rivolgeva erano smaliziati e in grado di cogliere la finzionalità e lo stratagemma, perché Manzoni lo riprendeva da Cervantes e Walter Scott. Il romanzo, dopo un lungo periodo di estrema «elasticità» nel definirlo, aveva da tempo trovato la propria forma e andava formando il proprio canone. Tempo addietro, la confusione tra fiction e non-fiction era frequente: nel 1719 De Foe aveva pubblicato il Robinson Crusoe spacciandolo per storia vera. È una volta terminata la confusione, una volta che il romanzo conquista la distinguibilità da altre forme, che può interrogarsi a fondo e con rigore su tale distinguibilità, e quindi sui confini tra fiction e non-fiction. Su questo Manzoni rimane un punto di riferimento, anche oggi, nell’era della testualità «liquida», dell’archivio infinito, della radicale prossimità e reciproco, rapidissimo interpellarsi di autori e lettori. 
Il quinto atto de L’Armata dei sonnambuli non è chiamato «quinto atto» a caso, ma per segnalare che siamo ancora dentro la cornice del romanzo: gli scrittori entrano nel romanzo, il gioco prosegue e il lettore è sfidato a compiere le proprie esplorazioni, per capire dove passano i confini dopo la nostra ibridazione di archivio e finzione. Ci rivolgiamo a lettori partecipi e attivi, ai lettori «smaliziati» di oggi. Pensando a loro, abbiamo cercato di scrivere un libro che fosse pieno di bombe a tempo, di mine che esplodessero solo al secondo o terzo passaggio. Un libro che, una volta terminato, prima o poi chiamasse alla rilettura, grazie all’ultima parte «perturbante». Siamo lieti che questo stia succedendo. Quella che vogliamo far detonare è la consapevolezza del molteplice, contro ogni «smussatura» mononarrativa. L’alternativa all’imposizione di una storia è raccontarne mille altre possibili. (...)

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