Franco Venturi, con “san Voltaire” contro i tiranni del secolo breve
Lo storico del Settecento riformatore e le sue battaglie per la libertà: una mostra alla Fondazione Einaudi di Torino, nel centenario della nascita
Bruno Quaranta La Stampa 15 giugno 2014
Dove si sarebbe potuto inizialmente formare, Franco Venturi, lo storico del Settecento riformatore, se non nelle aule dazegline, a Torino, la città che vantava il numero più alto di sottoscrittori dell’Encyclopédie, prima edizione? Nato a Roma un secolo fa, il 16 maggio («Scherzando - dirà Leo Valiani - soleva ricordare il “seize mai”, giorno del fallimento di uno dei tentativi reazionari agli esordi della Terza repubblica francese»), se ne andò sotto la Mole vent’anni fa, dopo una lunga milizia universitaria, risaltando fra i «maggiori» di dantesca memoria.
La Fondazione Luigi Einaudi di Torino rende a Franco Venturi (fino al 7 ottobre) un omaggio austero, quindi intonato al docente che dagli allievi esigeva «discorsi» (come non riandare al Caffè dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria) estranei a qualsivoglia compiacimento e fatua divagazione e fumisteria, scodelle di riso condite con minime gocce d’olio.
Tre le teche allestite in Palazzo d’Azeglio, via Principe Amedeo 34. Vi sono adunate le orme di un’esistenza (in primis di una giovinezza) così impavida e così meditata («Il coraggio della ragione» si intitolava il convegno dedicato nel 1996 dalla Fondazione all’«intellettuale e storico cosmopolita»). Una parabola nel segno di Voltaire, «il mio santo», non nascondeva una laica devozione Franco Venturi, accompagnando il visitatore nello studio di piazza Peyron dov’era l’ovale del Gran Francese. Non scordandone la liaison con il nostro Paese. Perché il signor Candide firmerà un pamphlet rivolto direttamente agli italiani con lo pseudonimo Alberto Radicati di Passerano, «il primo illuminista della penisola», quale lo innalzerà Piero Gobetti.
Gobetti (e Radicati di Passerano) fra le bussole di Franco Venturi. Come l’arcangelo della Rivoluzione liberale esule a Parigi, seguendo il padre, lo storico dell’arte Lionello, un mentore dei Sei di Torino, con altri undici professori rifiutatosi di giurare fedeltà alla «dottrina» del regime fascista.
Lungo la Senna di Elie Halévy (L’ère des tyrannies), Franco Venturi maturerà la «pratica della libertà», accanto a Salvemini, Nitti, Garosci, in particolare Carlo Rosselli, aderendo a «Giustizia e Libertà», e studierà alla Sorbona (avrebbe dovuto discutere la tesi di dottorato su Dalmazzo Francesco Vasco nel giugno 1940, se non che l’occupazione tedesca della Ville Lumière rinviò l’appuntamento al 1945). Dal 1932, quando giunse a Parigi, al termine della guerra. Patito il carcere, durissimo, a Figueras, in Spagna, fallito il tentativo di raggiungere la famiglia negli Stati Uniti (è esposto l’affidavit, foglio sostitutivo del passaporto, rilasciatogli dall’Ambasciata americana a Parigi l’11 giugno 1940), Franco Venturi sarà recluso alle Nuove di Torino e confinato ad Avigliano e a Monteforte Irpino. Calandosi, caduto Mussolini, nella stagione partigiana.
È lo studio l’arma impropria per eccellenza della «primula rossa» Franco Venturi o ragionier Giuseppe Foglini e Leopoldo Bianchi (una varietà di documenti falsi esibirà via via). Alla Questura di Torino, 17 marzo 1941, dichiarerà: «Ammetto che la mia attività di studioso in Francia abbia avuto carattere politico mettendo in luce le origini e gli uomini che sono considerati come i precursori dei regimi democratici».
Ecco le edizioni originali di Jeunesse de Diderot, Paris, Skira, 1939, Denis Diderot, Pages inedites contre un tyran, Paris, GLM, 1937 (di Venturi è l’introduzione), Les aventures et le pensée d’un idéologue piemontais, Dalmazzo Francesco Vasco (1732-1794), Paris, Droz, 1940. Aspettando (1954) l’einaudiano Alberto Radicati di Passerano, «il desiderio di liberazione totale nato in lui in contatto e in contrasto col piccolo e vigoroso Stato assolutistico piemontese del Settecento». Insieme sfogliando il giornale Giustizia e Libertà, da organo di GL a voce del Partito d’Azione, ora ricordando (13 agosto 1937) «Filippo Buonarroti, primo egualitario italiano» (Buonarroti non meno nelle corde di un confrère di Venturi, Alessandro Galante Garrone), ora, 2 giugno 1946, nascita della Repubblica, annunciando «Abbiamo una parola da dire», di una fermezza riecheggiante il gobettiano editoriale «Al nostro posto», post marcia su Roma.
Politica e cultura è il sentiero che Franco Venturi continuerà ad arare nel secondo dopoguerra. Cruciale il periodo trascorso a Mosca, dal 1947 al 1950 come addetto culturale nell’ambasciata italiana retta da Manlio Brosio, futuro segretario generale della Nato (ne sortirà il saggio sul Populismo russo, Einaudi 1952).
Venturi non esiterà a derubricare l’interpretazione della rivoluzione sovietica come rivoluzione liberale (secondo la lettura di Gobetti), il socialismo reale incompatibile con la libertà, inascoltate le domande e speranze manifestate sul Ponte di Piero Calamandrei: «Cominciamo con non ribadire le catene addosso ai membri dell’intelligencja sovietica. [...] Principî, idee, leggi son le sole forze capaci, faticosamente, di sostituire e domare l’arbitrio».
Vita pubblica e vita privata all’unisono. Inseparabile, Franco Venturi, dalla moglie Gigliola (una foto li ritrae nella Piazza Rossa), sorella di Altiero Spinelli, egregia traduttrice dal russo (da Afanasiev a Cechov a Ajtmatov), nonché poetessa: «Ogni angolo è sacro a un fatto / a un ricordo / a una persona. / Il tempo non perdona» .
Così si sgretola il comunismo
Franco Venturi
L’unità del movimento comunista (dando a questa parola il senso generale che essa aveva alla sua origine) è stata spesso affermata in modo pragmatico e quasi mai in modo storico. Si è asserito che questa o quella forza del passato o del presente faceva parte del movimento tendente al comunismo. Si è adottato un precursore o si è glorificato uno sforzo insurrezionale.
Raramente ci si è domandato quale fosse l’unità profonda che lega insieme, non nella pratica immediata, ma nella storia ideale fatti apparentemente così diversi come gli scritti di un utopista, una spontanea rivolta proletaria e un moderno partito socialista agente nell’ambito di uno stato parlamentare.
Due fatti essenziali ci costringono oggi a riporci il problema. Innanzi tutto il programma si dissolve intorno a noi. Il comunismo passando nei fatti, nella vita di tutti i popoli europei rende l’unità pratica dei vari elementi del programma sempre più difficile e spesso impossibile. Esigenze di giustizia, analisi storiche del capitale, volontà statalistiche o burocratiche stavano insieme unite quando ancora questi diversi elementi potevano apparire come i diversi aspetti di un medesimo sforzo. Oggi, col comunismo russo ed anche con il nazional-socialismo tedesco alcuni di questi elementi si sono realizzati, sviluppandosi fino all’ipertrofia, altri sono violentemente perseguitati o conculcati. L’unità programmatica del comunismo ne esce sgretolata.
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